La Val Vedra è un’ampia conca verde che si estende a monte di Zorzone, in quel di Oltre il Colle, fino all’omonimo passo, in prossimità del lago Branchino. Nella parte più settentrionale è delimitata dalle cime calcaree del monte Vetro e della Corna Piana, habitat naturale di camosci e caprioli e regno delle stelle alpine. Oggi questa zona è una delle più interessanti dal punto di vista naturalistico dell’intera Valle Brembana: a due passi si snoda il “Sentiero dei Fiori” che guida gli amanti della natura alla scoperta della flora spontanea orobica, sottoponendo alla loro attenzione numerose specie assai rare e alcune addirittura endemiche, cioè esclusive di questa zona. I monti circostanti e il lago Branchino sono la meta preferita degli escursionisti che desiderano trascorrere alcune ore all’aria aperta. I verdi pascoli della vallata risuonano, durante la stagione estiva, dei campanacci delle mandrie portate in alpeggio. Eppure a questa valle è legata una tradizione assai sinistra: si racconta, infatti, che nella verde distesa delle malghe esiste un’area sulla quale è impossibile far pascolare le mandrie o le greggi, un’area stregata, che tiene lontani gli animali, come se fossero respinti da una forza oscura e misteriosa. La ragione c’è, almeno nella leggenda, e deriva da un atto sacrilego commesso tanti anni fa da un mandriano.
Che la vita degli alpeggiatori sia piuttosto difficile e non abbia molto da spartire con il risvolto bucolico che qualche profano di città ha voluto ricamarci attorno è un dato di fatto, almeno per chi ha frequentato da vicino l’ambiente. Giornate monotone, costellate dalle immutabili occupazioni quotidiane: la mattina sveglia all’alba e subito al lavoro, la sera non è mai ora di tornare a baita. Poco male quando splende il sole, la natura è allegra, le bestie sono tranquille, ma si sa che l’estate sui monti è avara di bel tempo. E lassù quando piove è davvero un guaio: i temporali fanno paura, lampi e tuoni sono vicinissimi e continuano minacciosi per ore, il vento sembra squarciare il tetto della baita e non di rado cade la grandine. Eppure bisogna andare: riparati da grossi tabarri e da pesanti e variopinti ombrelli, si corre a radunare la mandria spaventata, sistemare i recinti, abbeverare, mungere, curare i capi ammalati, e poi, portare il latte nella casera, preparare il formaggio, riparare gli attrezzi. Sempre lo stesso lavoro, giorno dopo giorno, da giugno a settembre. Ai nostri giorni qualcosa è cambiato: qualche diversivo è offerto dall’arrivo abituale degli escursionisti che si fermano volentieri fuori della baita a scambiare quattro chiacchiere con i malgari, oppure si può anche imbastire una certa turnazione che consente di scendere ogni tanto a valle, approfittando anche dei tracciati carrozzabili che ormai raggiungono buona parte degli alpeggi. Ma un tempo non c’erano nemmeno queste piccole alternative: la stagione estiva era una specie di esilio montano per i mandriani e le loro famiglie. C’era però un dovere sacrosanto per tutti gli adulti: quello di scendere ogni domenica nel paese più vicino per assistere alla messa che per forza di cose non poteva che essere quella delle ore antelucane. E guai a trasgredire il precetto!
Era un impegno non indifferente, che costringeva a levatacce proibitive per scendere a valle e risalire dopo qualche ora, in tempo per avviare la consueta giornata d’alpeggio. Fu così che un certo giorno un mandriano che non ne poteva più di queste continue discese e risalite domenicali ebbe l’originale pensata di sostituirsi al parroco e di celebrare lui stesso la messa, convincendo i suoi colleghi a parteciparvi. Costruito con dei sassi un altare, presa una tazza piena di latte, indossate come paramenti alcune coperte stracce, diede inizio alla funzione. Assistito da due compari che fungevano da chierichetti, attorniato dagli altri alpeggiatori, il mandriano promotore dell’iniziativa iniziò a scimmiottare i riti propri della messa, storpiando le preghiere in latino, imitando alla meglio i canti liturgici e rivolgendo ai presenti perfino due parole di omelia. Ma proprio mentre il sacrilego si accingeva a pronunciare la sacra formula della consacrazione, ecco che l’aria fu squarciata da un tuono spaventoso, accompagnato da una bufera impetuosa che oscurò il sole e annebbiò tutta la vallata. Poi sotto i piedi di quel gruppo di disgraziati si spalancò una profonda voragine che inghiottì l’altare e tutti i presenti, tra urla spaventose. Le fiamme dell’Inferno lambirono per un attimo la voragine, che in breve si richiuse lasciando la vallata deserta e animata solo dai muggiti lamentosi delle mucche nei loro recinti. Ancora oggi c’è qualche mandriano o cacciatore che di tanto in tanto, passando da quelle parti, asserisce di avvertire l’eco di voci supplicanti, al punto che, memore della leggenda, corre ad avvertire qualche prete perché salga a benedire la vallata.
Ma c’è dell’altro. Poco lontano da quella valle, si trova la conca del Pradello, tra i monti Arera e Grem. Questa zona è teatro di un altro fenomeno difficilmente spiegabile. Si narra che a qualche mandriano capita ogni tanto di assistere a una strana processione. Accompagnato da un sommesso salmodiare, si svolge un lungo e solenne corteo di disciplini che, vestiti della loro tunica bianca e della mantellina rossa, con in mano un grosso cero, fanno lunghi giri tra rocce e dirupi, arrivando fin presso le baite e passando tra le mucche e le persone, incuranti di tutto, finché raggiunta una caverna che si apre sul fianco della montagna, vi penetrano uno dopo l’altro, scomparendo nel nulla. Chi siano questi personaggi d’oltretomba nessuno lo sa con precisione, però c’è chi suppone che il fenomeno sia legato alla presenza in quella zona, fin dai tempi antichi, di profonde miniere che hanno costituito per secoli la principale fonte di sostentamento per la gente della zona, ma hanno determinato anche tanti lutti per la morte tragica di centinaia di minatori. Forse si tratta delle anime di questi minatori, morti sul lavoro e senza il conforto dei sacramenti, che ritornano nottetempo sulla terra a chiedere una preghiera che li aiuti a uscire dal Purgatorio. O forse sono i mandriani sacrileghi della Val Vedra condannati ad espiare con questa solenne cerimonia il castigo per il loro gesto inconsulto.
Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001