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Non c’è paese che non abbia la sua storia legata ad apparizioni del Diavolo, rappresentato con le fogge più bizzarre e con gli immancabili zoccoli bovini o caprini. Non fa eccezione Carona, dove si racconta la vicenda che diede il nome a quella che è nota oggi come la baita della capra. Due giovani cacciatori avevano trascorso un’intera giornata a caccia di camosci nella zona dell’attuale rifugio Calvi. La giornata era stata propizia perché dopo un lungo inseguimento avevano abbattuto un bell’esemplare di camoscio, ma poiché nel frattempo si era fatto tardi e sarebbe stato impossibile fare ritorno in paese prima del tramonto, decisero di passare la notte in una baita della zona, cosa che avevano fatto già altre volte. Sistematisi nella baita e acceso il fuoco nel camino, decisero di far abbrustolire sulla brace il fegato del camoscio e di mangiarselo per cena. Stando seduti attorno al fuoco, in attesa che il fegato fosse cotto a puntino, ripercorrevano gli avvenimenti della giornata: il paziente appostamento seguito dall’apparizione, sulla cima di un’alta rupe, della sagoma slanciata e imponente di un camoscio maschio, il successivo inseguimento tra dirupi, creste e canaloni, i due precisi colpi di carabina che avevano steso l’animale. Una bella giornata davvero, una di quelle che sarebbe stato più opportuno concludere in un’osteria, davanti a un fiasco di vino e in compagnia degli altri cacciatori di Carona e, magari, di una bella ragazza.

A un certo punto uno dei due giovani esclamò: “Oh, che bello sarebbe se adesso si aprisse la porta ed entrasse quella tipa, allora sì che ci divertiremmo!”. “La serata sarebbe proprio perfetta” convenne l’altro che ben conosceva le qualità della “tipa” a cui alludeva il compare, una ragazza del paese, piuttosto chiacchierata per non essere proprio una santarellina. Strano a dirsi, il sogno dei due giovani si realizzò in un batter d’occhio: qualcuno bussò e, aperta la porta della baita, si presentò nientemeno che la ragazza appena evocata. I due cacciatori rimasero a bocca aperta per la sorpresa, al punto che, tutti occupati ad accogliere nel migliore dei modi l’ospite inattesa, dimenticarono di controllare il fegato che rischiava di abbrustolire oltre il dovuto. Se ne accorse la ragazza che li richiamò: “Ultì chel fìdec, che ‘l brüsa!”. Ma la voce che le era uscita dalla bocca aveva un non so che di sinistro che contrastava con i lineamenti delicati del suo viso.

Il particolare non sfuggì al più attento dei due cacciatori il quale, mentre stava avvicinandosi al fuoco per rigirare il fegato, notò con spavento che da sotto la lunga gonna spuntavano un paio di zoccoli di capra. Ormai non c’erano più dubbi: quella “tipa” era il Diavolo in persona! Un brivido di terrore corse giù per la schiena del giovane, che tuttavia seppe conservare un po’ di sangue freddo. Quanto bastava a far rispondere a tono all’ordine dell’ormai indesiderata ospite: “Se ‘l brüsa, làghel brüsà!”. Poi, preso per un braccio il compagno ancora ignaro di tutto, lo trascinò fuori dalla baita e via di corsa verso casa, incuranti del buio e dei pericoli, dimentichi del camoscio e dei sogni proibiti con l’unico desiderio di sfuggire alle grinfie del Diavolo. La loro avventura divenne presto di dominio pubblico e quando i compaesani incontravano i due giovani, la domanda era sempre la stessa: “Com’éla ‘ndacia chèla ölta con chèla cavra?”. E da allora quella baita fu per tutti la “baita della capra”.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001