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Categoria: Leggende

Il Drago volante di Santa Brigida

Il Drago Volante (così chiamato) abitava nei dintorni di Santa Brigida oggi luogo di villeggiatura, ben noto a tanti. Nessuno sapeva però dove avesse la sua tana, quando appariva come una furia, scoperchiava i tetti delle case con lo sbattere delle ali e poi spariva non dimenticandosi pero’ di portarsi via qualche agnello o capretto. Quando poi il drago decideva di avventurarsi sulle sue prede di notte, si calava dal cielo tenendo tra le zampe 2 grosse gemme che utilizzava per illuminarsi il cammino. Un giorno un certo Bulgher, uomo forte e astuto, decise di sfidare il drago. Il Bulgher di Santa Brigida riuscì a scoprire dove il drago si rifugiava: le pendici del Monte Pugna.

Una notte quatto quatto con una cappa nera sulle spalle, salì sul pianoro e approfittando di un attimo di distrazione del drago si avventò su una delle due gemme fosforescenti ma appena la toccò lanciò un urlo mentre intorno a lui si scatenava l’inferno… vento e tempesta scuotevano gli alberi del bosco. Quella furia si placò solo al mattino, Bulgher più morto che vivo per lo spavento, tornò al paese di Santa Brigida con le mani ancora bruciacchiate e per cento e cento volte ripete’ quello che gli era successo e per secoli lo ripeterono i nonni ai loro nipoti.

Il Drago Volante (così chiamato) abitava nei dintorni di Santa Brigida oggi luogo di villeggiatura, ben noto a tanti. Nessuno sapeva però dove avesse la sua tana, quando appariva come una furia, scoperchiava i tetti delle case con lo sbattere delle ali e poi spariva non dimenticandosi pero’ di portarsi via qualche agnello o capretto. Quando poi il drago decideva di avventurarsi sulle sue prede di notte, si calava dal cielo tenendo tra le zampe 2 grosse gemme che utilizzava per illuminarsi il cammino. Un giorno un certo Bulgher, uomo forte e astuto, decise di sfidare il drago. Il Bulgher di Santa Brigida riuscì a scoprire dove il drago si rifugiava: le pendici del Monte Pugna.

Una notte quatto quatto con una cappa nera sulle spalle, salì sul pianoro e approfittando di un attimo di distrazione del drago si avventò su una delle due gemme fosforescenti ma appena la toccò lanciò un urlo mentre intorno a lui si scatenava l’inferno… vento e tempesta scuotevano gli alberi del bosco. Quella furia si placò solo al mattino, Bulgher più morto che vivo per lo spavento, tornò al paese di Santa Brigida con le mani ancora bruciacchiate e per cento e cento volte ripete’ quello che gli era successo e per secoli lo ripeterono i nonni ai loro nipoti.

La Val Vedra è un’ampia conca verde che si estende a monte di Zorzone, in quel di Oltre il Colle, fino all’omonimo passo, in prossimità del lago Branchino. Nella parte più settentrionale è delimitata dalle cime calcaree del monte Vetro e della Corna Piana, habitat naturale di camosci e caprioli e regno delle stelle alpine. Oggi questa zona è una delle più interessanti dal punto di vista naturalistico dell’intera Valle Brembana: a due passi si snoda il “Sentiero dei Fiori” che guida gli amanti della natura alla scoperta della flora spontanea orobica, sottoponendo alla loro attenzione numerose specie assai rare e alcune addirittura endemiche, cioè esclusive di questa zona. I monti circostanti e il lago Branchino sono la meta preferita degli escursionisti che desiderano trascorrere alcune ore all’aria aperta. I verdi pascoli della vallata risuonano, durante la stagione estiva, dei campanacci delle mandrie portate in alpeggio. Eppure a questa valle è legata una tradizione assai sinistra: si racconta, infatti, che nella verde distesa delle malghe esiste un’area sulla quale è impossibile far pascolare le mandrie o le greggi, un’area stregata, che tiene lontani gli animali, come se fossero respinti da una forza oscura e misteriosa. La ragione c’è, almeno nella leggenda, e deriva da un atto sacrilego commesso tanti anni fa da un mandriano.

Che la vita degli alpeggiatori sia piuttosto difficile e non abbia molto da spartire con il risvolto bucolico che qualche profano di città ha voluto ricamarci attorno è un dato di fatto, almeno per chi ha frequentato da vicino l’ambiente. Giornate monotone, costellate dalle immutabili occupazioni quotidiane: la mattina sveglia all’alba e subito al lavoro, la sera non è mai ora di tornare a baita. Poco male quando splende il sole, la natura è allegra, le bestie sono tranquille, ma si sa che l’estate sui monti è avara di bel tempo. E lassù quando piove è davvero un guaio: i temporali fanno paura, lampi e tuoni sono vicinissimi e continuano minacciosi per ore, il vento sembra squarciare il tetto della baita e non di rado cade la grandine. Eppure bisogna andare: riparati da grossi tabarri e da pesanti e variopinti ombrelli, si corre a radunare la mandria spaventata, sistemare i recinti, abbeverare, mungere, curare i capi ammalati, e poi, portare il latte nella casera, preparare il formaggio, riparare gli attrezzi. Sempre lo stesso lavoro, giorno dopo giorno, da giugno a settembre. Ai nostri giorni qualcosa è cambiato: qualche diversivo è offerto dall’arrivo abituale degli escursionisti che si fermano volentieri fuori della baita a scambiare quattro chiacchiere con i malgari, oppure si può anche imbastire una certa turnazione che consente di scendere ogni tanto a valle, approfittando anche dei tracciati carrozzabili che ormai raggiungono buona parte degli alpeggi. Ma un tempo non c’erano nemmeno queste piccole alternative: la stagione estiva era una specie di esilio montano per i mandriani e le loro famiglie. C’era però un dovere sacrosanto per tutti gli adulti: quello di scendere ogni domenica nel paese più vicino per assistere alla messa che per forza di cose non poteva che essere quella delle ore antelucane. E guai a trasgredire il precetto!

Era un impegno non indifferente, che costringeva a levatacce proibitive per scendere a valle e risalire dopo qualche ora, in tempo per avviare la consueta giornata d’alpeggio. Fu così che un certo giorno un mandriano che non ne poteva più di queste continue discese e risalite domenicali ebbe l’originale pensata di sostituirsi al parroco e di celebrare lui stesso la messa, convincendo i suoi colleghi a parteciparvi. Costruito con dei sassi un altare, presa una tazza piena di latte, indossate come paramenti alcune coperte stracce, diede inizio alla funzione. Assistito da due compari che fungevano da chierichetti, attorniato dagli altri alpeggiatori, il mandriano promotore dell’iniziativa iniziò a scimmiottare i riti propri della messa, storpiando le preghiere in latino, imitando alla meglio i canti liturgici e rivolgendo ai presenti perfino due parole di omelia. Ma proprio mentre il sacrilego si accingeva a pronunciare la sacra formula della consacrazione, ecco che l’aria fu squarciata da un tuono spaventoso, accompagnato da una bufera impetuosa che oscurò il sole e annebbiò tutta la vallata. Poi sotto i piedi di quel gruppo di disgraziati si spalancò una profonda voragine che inghiottì l’altare e tutti i presenti, tra urla spaventose. Le fiamme dell’Inferno lambirono per un attimo la voragine, che in breve si richiuse lasciando la vallata deserta e animata solo dai muggiti lamentosi delle mucche nei loro recinti. Ancora oggi c’è qualche mandriano o cacciatore che di tanto in tanto, passando da quelle parti, asserisce di avvertire l’eco di voci supplicanti, al punto che, memore della leggenda, corre ad avvertire qualche prete perché salga a benedire la vallata.

Ma c’è dell’altro. Poco lontano da quella valle, si trova la conca del Pradello, tra i monti Arera e Grem. Questa zona è teatro di un altro fenomeno difficilmente spiegabile. Si narra che a qualche mandriano capita ogni tanto di assistere a una strana processione. Accompagnato da un sommesso salmodiare, si svolge un lungo e solenne corteo di disciplini che, vestiti della loro tunica bianca e della mantellina rossa, con in mano un grosso cero, fanno lunghi giri tra rocce e dirupi, arrivando fin presso le baite e passando tra le mucche e le persone, incuranti di tutto, finché raggiunta una caverna che si apre sul fianco della montagna, vi penetrano uno dopo l’altro, scomparendo nel nulla. Chi siano questi personaggi d’oltretomba nessuno lo sa con precisione, però c’è chi suppone che il fenomeno sia legato alla presenza in quella zona, fin dai tempi antichi, di profonde miniere che hanno costituito per secoli la principale fonte di sostentamento per la gente della zona, ma hanno determinato anche tanti lutti per la morte tragica di centinaia di minatori. Forse si tratta delle anime di questi minatori, morti sul lavoro e senza il conforto dei sacramenti, che ritornano nottetempo sulla terra a chiedere una preghiera che li aiuti a uscire dal Purgatorio. O forse sono i mandriani sacrileghi della Val Vedra condannati ad espiare con questa solenne cerimonia il castigo per il loro gesto inconsulto.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La matrignia di Spino al Brembo

Nel paese di Spino al Brembo, in comune di Zogno, viveva un vedovo con due figli, una bambina di cinque anni e un ragazzo di otto. L’uomo solo da tempo, pensava che gli occorreva in casa una donna e che avrebbe dovuto risposarsi. Finche’ un giorno incontrò una vedova, che a sua volta aveva due figli; proprio come lui, cioè un ragazzo e una ragazza, e se la sposò. La donna era piuttosto brutta di carattere invidioso e malevolo e così erano anche i suoi figli. Quando fu sposato accade che la donna voleva bene soltanto ai suoi figli e ai figli del vedovo, che erano belli e bravi, non dava nulla da mangiare e dava invece sferzate con la verga.

Quando tornava a casa il padre, la donna non faceva che dire male dei suoi figli e diceva che erano cattivi e lazzaroni e lui ci credeva. Allora per punizione venivano sgridati e mandati a letto senza cena; e loro che non avevano colpa, salivano le scale piangendo ed invocando la loro mamma, che era morta. La matrigna, e i suoi due figli, erano contenti della punizione e ridevano dietro le spalle dei poveretti. Durante la notte i due bambini sognavano gli spiriti; udivano dei versacci e sentivano qualcuno che batteva alla porta: si ritiravano in un angolo a piangere e morivano per la paura. Ma chi batteva la porta, chi faceva loro paura ? Era la matrigna, che in realtà era una strega, che si trasformava ogni notte in un cane rabbioso, in un gatto soriano, in una cornacchia che emetteva dei belati come capra < sbregola> . Tutto questo per intimorire i due bambini. Ma accadde un giorno, essendo andati i fanciulli a far legna nel bosco, s’erano fermati al ritorno davanti ad una chiesina di campagna per riposare e deporre le fascine di legna.

Intorno c’era un prato tutto fiorito; e loro raccolsero un bel mazzetto di fiori e lo posero davanti al cancello della chiesina per darlo alla madonna. Poi stando vicini e piangenti si misero a pregare e raccontarono alla madonna tutto quello che loro accadeva di notte, le loro paure e il loro pianto. La madonna sembrava guardarli e sorridere; e loro con l’impressione che quel sorriso li avrebbe protetti, se ne tornavano a casa molto contenti. Arrivati a casa, sulla porta trovano la matrigna e i suoi due figli che si divertivano giocando; loro depongono la legna e vogliono partecipare al gioco; ma la matrigna li fa subito rientrare in casa a fare i mestieri e li impegna fino a tarda sera; poi da loro un po’ di minestra e subito li manda a dormire. Ad alta notte, la matrigna si levò senza far rumore e col suo potere di strega si trasformò in un cane rabbioso; stava per andare nella stanza dei bambini; quando la madonna provocò nel padre un brutto sogno. L’uomo spaventato si leva dal letto prende il suo bastone ed esce a cercare il cane rabbioso che aveva sognato.

Lo vede innanzi alla porta dei suoi figli e si mette a dargli bastonate di santa ragione; e dopo averlo così battuto con un calcio lo fa ruzzolare giù dalle scale. Quando il cane arrivò in fondo alle scale, scoppio’ una gran fiammata e un gran fumo. Ma che cosa vide allora il padre ? Vide la sua donna che si lamentava e piangeva per le bastonate ricevute. E dopo un certo tempo la donna muore, e quando e’ morta si trasforma in una strega, con gli occhi accesi e spiritati, e vola via. L’uomo finalmente si rese conto dei fatti, risalì dai suoi figli e li trovò piangenti e spaventati; e vedendoli così miseri e soli si mise a piangere anche lui e li abbracciò e li baciò teneramente. E dopo questo avvenimento non li lasciò più soli né di giorno né di notte; così i suoi figli crebbero sani e contenti. Quanto agli altri due, i figli della strega, furono cacciati di casa e per nutrirsi dovettero ridursi a medicare.

Nel paese di Spino al Brembo, in comune di Zogno, viveva un vedovo con due figli, una bambina di cinque anni e un ragazzo di otto. L’uomo solo da tempo, pensava che gli occorreva in casa una donna e che avrebbe dovuto risposarsi. Finche’ un giorno incontrò una vedova, che a sua volta aveva due figli; proprio come lui, cioè un ragazzo e una ragazza, e se la sposò. La donna era piuttosto brutta di carattere invidioso e malevolo e così erano anche i suoi figli. Quando fu sposato accade che la donna voleva bene soltanto ai suoi figli e ai figli del vedovo, che erano belli e bravi, non dava nulla da mangiare e dava invece sferzate con la verga.

Quando tornava a casa il padre, la donna non faceva che dire male dei suoi figli e diceva che erano cattivi e lazzaroni e lui ci credeva. Allora per punizione venivano sgridati e mandati a letto senza cena; e loro che non avevano colpa, salivano le scale piangendo ed invocando la loro mamma, che era morta. La matrigna, e i suoi due figli, erano contenti della punizione e ridevano dietro le spalle dei poveretti. Durante la notte i due bambini sognavano gli spiriti; udivano dei versacci e sentivano qualcuno che batteva alla porta: si ritiravano in un angolo a piangere e morivano per la paura. Ma chi batteva la porta, chi faceva loro paura ? Era la matrigna, che in realtà era una strega, che si trasformava ogni notte in un cane rabbioso, in un gatto soriano, in una cornacchia che emetteva dei belati come capra < sbregola> . Tutto questo per intimorire i due bambini. Ma accadde un giorno, essendo andati i fanciulli a far legna nel bosco, s’erano fermati al ritorno davanti ad una chiesina di campagna per riposare e deporre le fascine di legna.

Intorno c’era un prato tutto fiorito; e loro raccolsero un bel mazzetto di fiori e lo posero davanti al cancello della chiesina per darlo alla madonna. Poi stando vicini e piangenti si misero a pregare e raccontarono alla madonna tutto quello che loro accadeva di notte, le loro paure e il loro pianto. La madonna sembrava guardarli e sorridere; e loro con l’impressione che quel sorriso li avrebbe protetti, se ne tornavano a casa molto contenti. Arrivati a casa, sulla porta trovano la matrigna e i suoi due figli che si divertivano giocando; loro depongono la legna e vogliono partecipare al gioco; ma la matrigna li fa subito rientrare in casa a fare i mestieri e li impegna fino a tarda sera; poi da loro un po’ di minestra e subito li manda a dormire. Ad alta notte, la matrigna si levò senza far rumore e col suo potere di strega si trasformò in un cane rabbioso; stava per andare nella stanza dei bambini; quando la madonna provocò nel padre un brutto sogno. L’uomo spaventato si leva dal letto prende il suo bastone ed esce a cercare il cane rabbioso che aveva sognato.

Lo vede innanzi alla porta dei suoi figli e si mette a dargli bastonate di santa ragione; e dopo averlo così battuto con un calcio lo fa ruzzolare giù dalle scale. Quando il cane arrivò in fondo alle scale, scoppio’ una gran fiammata e un gran fumo. Ma che cosa vide allora il padre ? Vide la sua donna che si lamentava e piangeva per le bastonate ricevute. E dopo un certo tempo la donna muore, e quando e’ morta si trasforma in una strega, con gli occhi accesi e spiritati, e vola via. L’uomo finalmente si rese conto dei fatti, risalì dai suoi figli e li trovò piangenti e spaventati; e vedendoli così miseri e soli si mise a piangere anche lui e li abbracciò e li baciò teneramente. E dopo questo avvenimento non li lasciò più soli né di giorno né di notte; così i suoi figli crebbero sani e contenti. Quanto agli altri due, i figli della strega, furono cacciati di casa e per nutrirsi dovettero ridursi a medicare.

Una leggenda assai popolare in varie località della Bergamasca è quella della caccia selvatica detta anche cacciamorta. In certe ore della notte si potevano sentire su per le montagne delle mute di cani che scorrazzavano, abbaiando rabbiosamente di qua e di là, come se stessero inseguendo la selvaggina. Nessuno li aveva mai visti, si potevano solo sentire i loro latrati, ma si assicura che chi si trovava a passare da quelle parti poteva anche imbattersi sul loro percorso e doveva scansarsi precipitosamente se non voleva essere travolto dalla furia famelica di quei segugi indiavolati. Per la verità non si trattava di cani, ma di anime confinate. Precisamente erano le anime dannate di quei cacciatori del paese che per coltivare la loro passione trascuravano di andare a messa la domenica e così, dopo la morte, erano condannati a vagare su per i monti, dando vita a un’incessante quanto sterile caccia. Un efficace esempio di pena del contrappasso, degna di figurare in qualche infernale girone dantesco, tanto più che da qualche parte si sussurrava addirittura che alla guida di quella canaglia scatenata ci fosse nientemeno che il Demonio in persona. I racconti sulla caccia selvatica erano abituali a OrnicaValtortaCusioSanta Brigida, ambientati sulle impervie pendici della Val d’Inferno o del Salmurano, ma non mancavano in altre località, ad esempio a Spino al Brembo, dove la tradizione descriveva i segugi guidati dal Demonio sui dossi della squallida altura della Mughera, alle prese con una cagna nera, orribile, con gli occhi fiammeggianti, in un contesto di urla infernali e strider di catene Con una leggera variante analoghi episodi venivano raccontati a San Pietro d’Orzio, dove la muta di cani, anziché correre per la montagna, girovagava qua e là per aria, riempiendola di impetuose folate e dei consueti latrati.

Altrove si sussurra di brutte avventure capitate a chi osava intromettersi nella caccia. E’ il caso di Costa Serina dove pare che un viandante, imbattutosi in una di queste orde urlanti, avesse osato richiamare i segugi perché si quietassero. Non l’avesse mai fatto: rientrando a casa aveva trovato appesa alla porta una gamba umana, una sinistra premonizione di tragedia, dalla quale l’aveva scampato il suo parroco, consigliandogli di riportare nottetempo l’ingombrante reperto anatomico sul luogo dell’incontro con la caccia selvatica, affinché i cani potessero riprendersela. Cosa che egli fece, benché in preda ad un indicibile senso di terrore, riuscendo a cavarsi d’impaccio, ma giurando a se stesso che non si sarebbe mai più intromesso in affari di tal genere. Pressoché analogo è il racconto della caccia morta a Valgoglio, dove si dice che una donna, abitante in località Dödömal, osservando quei dannati in corsa sfrenata formulò una bizzarra richiesta: “Portatemi un po’ della vostra selvaggina con cui potrei sfamare i miei bambini”. Fu subito accontentata: il mattino dopo trovò appesa fuori della sua baita una gamba umana. Atterrita, la donna corse a raccontare l’accaduto al suo parroco il quale la consigliò di stare in guardia e le suggerì per la notte seguente di chiudersi bene in casa e di coricarsi assieme ai suoi bambini. Così fece, e fu la sua salvezza, infatti, nel colmo della notte la cacciamorta tornò e dalla canea vociante si alzò un grido d’oltretomba, rivolto proprio a lei: “Buon per te che sei in mezzo all’innocenza, altrimenti l’avresti pagata cara per aver osato parlare alla cacciamorta!”.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La cassa da morto del Diavolo

Nelle notti scure di temporale oppure nelle notti calde soffocanti in cui non si riesce a respirare si faceva sentire di Valle in Valle la cassa da Morto del Diavolo. Per sentirla la sentivan tutti, ma quanto a vederla erano pochi a vederla; e quei pochi che l’avevan vista erano divenuti bianchi di capelli per la paura; poi perdevano i denti e dopo un po’ di tempo morivano. Questa cassa era trasportata e accompagnata da molti cani, piccoli e grossi e mal formati; avevano gli occhi rossi come carboni accesi e lingue infuocate; in oltre mandavano dei versi, guaivano e abbaiavano in modo da incutere paura e spavento. Dove la Cassa da Morto del Diavolo passava, bruciava tutto e nei prati e nei campi non restava più niente. Stancatosi di veder morire la brava gente, il Vescovo aveva pensato di mandare nelle Valli uno di quei preti ritenuti santi che di solito, con la sola benedizione, sono capaci di guarire malati e indemoniati. Il prete si era appostato in cima ad un pendio di dove di sovente si era visto passare la Cassa da Morto del Diavolo. Passavano le notti e la Cassa né si faceva vedere né si faceva sentire: e la gente maligna commentava che questa volta, neppure l’acqua santa avrebbe potuto vincere il Diavolo.

Ma una notte di temporale, notte piena di tuoni e di lampi (non esisteva in tutta la Valle Brembana un piccolo lume) la Cassa da Morto del Diavolo, portata come al solito dai cani più brutti e cattivi appare in cima al pendio proprio dove era salito il prete. Sembrò a tutti che in quel momento fosse venuta la fine del mondo perché il cielo e la terra sconvolti, sembravano confondersi l’uno nell’altro. Quando il prete sbiancato dallo spavento, alzo il braccio nel gesto di benedire, la terra si spalancò davanti ai suoi piedi e proprio al momento giusto per inghiottire la Cassa da Morto del Diavolo, nella voragine. Dopo quella notte nessuno nella Valle Brembana ha mai più sentito o visto la Cassa da Morto del Diavolo; soltanto in certe notti buie e temporalesche, oppure in altre notti soffocanti, nelle contrade e i suoi monti i vecchi recitano il rosario, chiudono la porta a chiave e i bambini cacciano la testa sotto le coperte, per paura che torni il sibilo della Cassa da Morto del Diavolo.

Nelle notti scure di temporale oppure nelle notti calde soffocanti in cui non si riesce a respirare si faceva sentire di Valle in Valle la cassa da Morto del Diavolo. Per sentirla la sentivan tutti, ma quanto a vederla erano pochi a vederla; e quei pochi che l’avevan vista erano divenuti bianchi di capelli per la paura; poi perdevano i denti e dopo un po’ di tempo morivano. Questa cassa era trasportata e accompagnata da molti cani, piccoli e grossi e mal formati; avevano gli occhi rossi come carboni accesi e lingue infuocate; in oltre mandavano dei versi, guaivano e abbaiavano in modo da incutere paura e spavento. Dove la Cassa da Morto del Diavolo passava, bruciava tutto e nei prati e nei campi non restava più niente. Stancatosi di veder morire la brava gente, il Vescovo aveva pensato di mandare nelle Valli uno di quei preti ritenuti santi che di solito, con la sola benedizione, sono capaci di guarire malati e indemoniati. Il prete si era appostato in cima ad un pendio di dove di sovente si era visto passare la Cassa da Morto del Diavolo. Passavano le notti e la Cassa né si faceva vedere né si faceva sentire: e la gente maligna commentava che questa volta, neppure l’acqua santa avrebbe potuto vincere il Diavolo.

Ma una notte di temporale, notte piena di tuoni e di lampi (non esisteva in tutta la Valle Brembana un piccolo lume) la Cassa da Morto del Diavolo, portata come al solito dai cani più brutti e cattivi appare in cima al pendio proprio dove era salito il prete. Sembrò a tutti che in quel momento fosse venuta la fine del mondo perché il cielo e la terra sconvolti, sembravano confondersi l’uno nell’altro. Quando il prete sbiancato dallo spavento, alzo il braccio nel gesto di benedire, la terra si spalancò davanti ai suoi piedi e proprio al momento giusto per inghiottire la Cassa da Morto del Diavolo, nella voragine. Dopo quella notte nessuno nella Valle Brembana ha mai più sentito o visto la Cassa da Morto del Diavolo; soltanto in certe notti buie e temporalesche, oppure in altre notti soffocanti, nelle contrade e i suoi monti i vecchi recitano il rosario, chiudono la porta a chiave e i bambini cacciano la testa sotto le coperte, per paura che torni il sibilo della Cassa da Morto del Diavolo.

Ai nostri giorni ci pensa la televisione a riempire le serate di racconti più o meno avvincenti e intriganti, non per questo è venuta meno la predisposizione della gente comune a dar vita a suggestioni collettive che fanno capolino qua e là nei modi più impensati. Si tratta, ad esempio, delle famose leggende metropolitane, trasposizione moderna delle incredibili vicende di una volta, che prendono corpo, anche e soprattutto negli ambienti giovanili, e si alimentano sull’onda del passaparola, finendo talvolta per acquistare un’improbabile quanto effimera veridicità. Non estranea a queste tendenze è la Valle Brembana, dove pure si assiste con sorpresa al riproporsi di questi temi cari alle generazioni passate.

E’ il caso, ad esempio, della leggenda dell’autostoppista fantasma che circola da tempo tra i giovani della valle ed ora è di dominio pubblico, anche per merito della professoressa Stefania Fumagalli che ne ha fatto oggetto di un interessante studio antropologico. La serata non era stata delle più elettrizzanti. Il disk jockey dello Snoopy di Serina ce l’aveva messa tutta per tenere alta l’atmosfera, ma la musica, le luci e gli amici non erano riusciti a dargli la solita carica e così Luca, superata da un bel po’ la mezzanotte, si era deciso di lasciare la compagnia e tornarsene a casa a smaltire il sonno arretrato, anche perché il pomeriggio del giorno dopo l’attendeva una impegnativa gara di atletica, in vista della quale si era preparato ben bene per tutta la settimana. Vuotò il bicchiere di birra, salutò gli amici e uscì all’aperto, respirando di gusto l’aria fresca e umida della notte. Raggiunse la sua piccola auto sportiva, mise in moto e uscì dal parcheggio, districandosi non senza difficoltà nella selva di veicoli parcheggiati alla rinfusa. Fu allora che scorse sul margine della strada la figura minuta di una ragazza che col braccio teso chiedeva un passaggio.

Doveva essere uscita da poco dalla discoteca, per quanto il suo abbigliamento, una giacchetta bianca attillata e una gonnellina blu a pieghe, lunga fino al ginocchio e di taglio piuttosto antiquato, apparisse poco intonato con la moda degli abituali frequentatori del locale, decisamente sul casual e con tonalità in prevalenza scure e poco appariscenti. Come era sua abitudine, alla vista dell’autostoppista, Luca bloccò l’automobile, che stridette sulla sabbia del ciglio stradale. “Vuoi un passaggio?” chiese abbassando il finestrino di destra. “Mi porti fino a Zogno?” annuì la ragazza con voce incolore, aprendo la portiera e accomodandosi sul sedile. “Ciao, sono Luca” fece lui, ripartendo di gran carriera. “Cristina” biascicò la ragazza, sistemandosi i capelli con le mani “Eri allo Snoopy? Non ti ho notato in tutta la serata”. “Per la verità sono stata seduta in un angolo tutta la serata. Sempre la stessa musica, monotona e assordante. E poi ho dovuto tenere a bada un rompiscatole che mi ha importunata fin dall’inizio”. “Hai ragione, la musica che passa qui non è il massimo. Sempre la solita storia, è per questo che ci vengo di rado.

A me piace ben altro”. Così dicendo accese lo stereo e subito l’abitacolo fu inondato dalle note limpide e cristalline dell’ultimo disco di Vasco Rossi. “Che ne dici?” chiese il ragazzo alzando un po’ il volume e canticchiando il motivo sopra la voce roca del cantautore. “Mai sentita” rispose la ragazza assorta in chissà quali pensieri. L’automobile procedeva veloce lungo i tornanti e le strettoie della Val Serina. Erano quasi arrivati nell’orrido di Bracca e i fanali illuminavano le alte e nere pareti strapiombanti sulla strada, conferendo alla roccia un aspetto inquietante. “Non mi sembra di averti mai vista. Sei di Zogno? – riprese Luca con la vaga intenzione di imbastire con la ragazza una parvenza di dialogo – non ti ho mai notata nemmeno a scuola. Io sono stato fino all’anno scorso a Camanghé”.

“Anch’io ho frequentato quella scuola per un po’, ma adesso manco dalla valle da parecchio tempo” rispose stancamente la ragazza, dando a vedere che non aveva la minima intenzione di continuare la conversazione. L’automobile uscì dall’orrido e imboccò rombando il rettilineo antistante lo stabilimento della Fonte Bracca. “Lasciami qui – fece all’improvviso la ragazza – sono arrivata”. Luca accostò l’auto al marciapiedi e si fermò, ma non poté fare a meno di manifestare la propria sorpresa: in quella zona, a parte lo stabilimento, non c’erano costruzioni, nessuna casa d’abitazione, lui lo sapeva bene, perché ci aveva lavorato, alla Bracca, per un paio di estati, tra un anno scolastico e l’altro. Nessun altro edificio, salvo il piccolo cimitero di Ambria, quasi soffocato dall’impianto industriale. “Ma dove abiti? Qui non ci sono case. Non è che ti sei sbagliata?”. “Ciao, buona notte” fece la ragazza per tutta risposta, scendendo dall’auto con un sospiro e accostando stancamente la portiera. “Ma vai al Diavolo!” mormorò tra sé Luca, ripartendo come un razzo e dando volume al suo Clarion che lo ripagò con le superbe note del concerto di Imola di Vasco. Dovette ripensare a quello strano incontro la mattina del giorno dopo, quando tirò fuori l’auto dal box per andare in paese.

Notò infatti che da sotto sedile laterale sporgevano i manici di una piccola borsetta nera, certamente dimenticata dalla ragazza della sera prima. Per niente entusiasta della prospettiva di dover consegnare la borsetta alla legittima proprietaria, cercò tra gli oggetti che vi erano contenuti i documenti, li trovò e così poté risalire all’identità e al domicilio della ragazza. Ma quello che vide sulla carta di identità non mancò di sorprenderlo un’altra volta: Cristina era nata il 10 agosto 1965, aveva quindi trentaquattro anni e questo gli sembrava incomprensibile, dato che all’apparenza la ragazza ne dimostrava a malapena venti. Con fastidio ripose i documenti nella borsetta, la gettò in malo modo sul sedile della vettura, mise in moto, uscì dal box e partì con la sua solita irruenza, suscitando l’immancabile commento isterico della madre che dal terrazzo aveva osservato i suoi movimenti, ma non aveva avuto il tempo di chiedere spiegazioni e informarsi sul perché di quella improvvisa partenza, né tanto meno di somministrare al figlio le solite, inascoltate, raccomandazioni alla prudenza. Pochi minuti dopo l’auto si arrestò davanti a una villetta unifamiliare di Ambria, circondata da un bel giardino delimitato da una bassa inferriata. Luca scese dall’auto tenendo in mano la borsetta, si diresse verso il cancello, premette il pulsante del citofono e rimase in attesa. Dopo un attimo si affacciò alla porta una donna di bassa statura, dalla folta capigliatura brizzolata e dall’aria interrogativa. “Buongiorno, signora, abita qui Cristina? Ieri sera mi ha chiesto un passaggio e ha dimenticato la borsetta sulla mia macchina, eccola, gliel’ho riportata”.

“Arda che me gh’o miga òia de schersà! Va’ a ca tò, vilàno, e laga sta la me tusa”. Questa fu la risposta risentita e angosciata della donna che subito rientrò in casa sbattendo la porta. Convinto di essere incappato in una famiglia di matti, ma comunque desideroso di chiudere questa faccenda, Luca premette di nuovo e a lungo il pulsante. Questa volta apparvero sul pianerottolo due uomini, uno magro, sulla sessantina, certamente il marito della donna di prima, e l’altro giovane e robusto, probabilmente il figlio. I due raggiunsero quasi correndo il cancello, l’aprirono e si avvicinarono con fare minaccioso a Luca. “De che banda ègnela chèla bursèta? Famla ‘mpó èt a me!” chiese bruscamente quello che sembrava il padre. Luca, alquanto preoccupato per la piega che stava prendendo quello strano incontro, fece del suo meglio per apparire credibile e raccontò come la sera precedente avesse dato un passaggio a una ragazza di nome Cristina, descrivendone meticolosamente l’aspetto e l’abbigliamento e come costei si fosse poi bruscamente congedata all’altezza del cimitero di Ambria senza dare spiegazioni, infine mostrò la borsetta dimenticata in macchina.

“Io sono venuto solo per restituire la borsetta e ho dovuto aprirla per trovare l’indirizzo di quella che penso sia vostra figlia, chiedete a lei se non è vero. Ecco, prendete – proseguì porgendo la borsetta all’uomo più anziano – verificate che non manchi niente”. “Mi ricordo che aveva una borsetta come questa – singhiozzò la madre che nel frattempo si era avvicinata ai tre ed era rimasta ad ascoltare in silenzio il racconto di Luca – ma non può essere sua, comunque la ragazza non poteva certo essere la mia Cristina”. Poi prese la borsetta dalle mani del marito e cominciò a rovistarne affannosamente il contenuto, quindi, trovata la carta d’identità, la aprì con le mani tremanti per l’emozione. Impallidì e quasi perse l’equilibrio, poi, appoggiandosi al marito, esclamò con un filo di voce: “Madóna me, l’è pròpe le Arda ‘n po a’ te. Com’el pusìbel se la me Cristina l’è morta quìndes àgn fa?”. E così Luca venne a sapere che la misteriosa ragazza era morta quindici anni prima in un incidente stradale, verificatosi proprio all’uscita dell’orrido di Bracca, mentre stava rincasando in autostop dopo una serata trascorsa nella discoteca Snoopy di Serina. E la sua tomba era nel piccolo cimitero davanti al quale aveva chiesto di scendere dall’auto.

 

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La Maga dei bambini

Nelle forre profonde della valletta di Poscante, dicono che vivesse una Maga. Queste forre profonde sono quelle che si vedono ancor oggi tra il Passo del Monte di Nese e Perello; ancor si vedono rocce e precipizi, in fondo ai quali c’era una grotta ampia, dove viveva questa Maga. Era una Maga che di notte si aggirava per le contrade e intorno ai casolari sparsi sui pendii. Era cattiva e quando vedeva bambini piccoli se li portava via e più nessuno li vedeva. Un uomo che tornava una sera sul tardi dalla sua stalla alla casa, incontra la Maga che portava sulle spalle un sacco.

Dentro il sacco c’era un bambino che piangeva. L’uomo si nascose ai margini della strada e lascia passare la Maga, si mette a seguirla di nascosto fino alla grotta dove lei viveva. La grotta era piena di bambini piccoli che piangevano e invocavano la mamma. Egli cerca di entrare per vedere meglio, ma si accorge che nella grotta c’è un mago. Era vicino al sacco dove c’era il bambino; il sacco era ancora legato; poi dice alla Maga: < sento odore di piccolo cristiano>, e la Maga risponde: “è bello e grassino e domani lo faremo cuocere come un maialino”. Il mago si frega le mani e continua: “e dopo ci leccheremo i baffi”.

Il mago sciolse il sacco; tira fuori il bambino e lo mette in una gabbia da solo; vicino c’era un altra gabbia con dentro altri bambini che i maghi tenevano per farli ingrassare perché erano troppo magri per essere mangiati. E per non farli scappare il mago aveva messo in dosso una coperta e aveva legato alla frangia tanti piccoli campanelli; così se loro si muovevano, i campanelli si mettevano a suonare, svegliando il mago dal suo sonno. L’uomo che ha visto e sentito tutto, coraggiosamente prende la sua decisione: si toglie la giacca, tira fuori dalla tasca il suo coltello e si mette a tagliare a piccoli pezzetti la sua giacca. Lascia andare a dormire il mago e la Maga, e si mette a otturare tutti i campanelli piano piano per non farli suonare. Poi taglia le corde che tenevano chiuse le gabbie e i bambini scappavano ad uno ad uno di corsa. Guidati da chissà quale istinto corrono a precipizio ciascuno alla propria casa. Arrivano davanti alle loro mamme e ai loro padri che erano disperati, ma quando vedono tornare i bambini di colpo sorridono e diventano tutti contenti.

Nelle forre profonde della valletta di Poscante, dicono che vivesse una Maga. Queste forre profonde sono quelle che si vedono ancor oggi tra il Passo del Monte di Nese e Perello; ancor si vedono rocce e precipizi, in fondo ai quali c’era una grotta ampia, dove viveva questa Maga. Era una Maga che di notte si aggirava per le contrade e intorno ai casolari sparsi sui pendii. Era cattiva e quando vedeva bambini piccoli se li portava via e più nessuno li vedeva. Un uomo che tornava una sera sul tardi dalla sua stalla alla casa, incontra la Maga che portava sulle spalle un sacco.

Dentro il sacco c’era un bambino che piangeva. L’uomo si nascose ai margini della strada e lascia passare la Maga, si mette a seguirla di nascosto fino alla grotta dove lei viveva. La grotta era piena di bambini piccoli che piangevano e invocavano la mamma. Egli cerca di entrare per vedere meglio, ma si accorge che nella grotta c’è un mago. Era vicino al sacco dove c’era il bambino; il sacco era ancora legato; poi dice alla Maga: < sento odore di piccolo cristiano>, e la Maga risponde: “è bello e grassino e domani lo faremo cuocere come un maialino”. Il mago si frega le mani e continua: “e dopo ci leccheremo i baffi”.

Il mago sciolse il sacco; tira fuori il bambino e lo mette in una gabbia da solo; vicino c’era un altra gabbia con dentro altri bambini che i maghi tenevano per farli ingrassare perché erano troppo magri per essere mangiati. E per non farli scappare il mago aveva messo in dosso una coperta e aveva legato alla frangia tanti piccoli campanelli; così se loro si muovevano, i campanelli si mettevano a suonare, svegliando il mago dal suo sonno. L’uomo che ha visto e sentito tutto, coraggiosamente prende la sua decisione: si toglie la giacca, tira fuori dalla tasca il suo coltello e si mette a tagliare a piccoli pezzetti la sua giacca. Lascia andare a dormire il mago e la Maga, e si mette a otturare tutti i campanelli piano piano per non farli suonare. Poi taglia le corde che tenevano chiuse le gabbie e i bambini scappavano ad uno ad uno di corsa. Guidati da chissà quale istinto corrono a precipizio ciascuno alla propria casa. Arrivano davanti alle loro mamme e ai loro padri che erano disperati, ma quando vedono tornare i bambini di colpo sorridono e diventano tutti contenti.

Quando i Laghi Gemelli erano proprio gemelli, cioè due limpidi specchi d’acqua circondati da una corona di montagne, appena separati da una stretta lingua di terra, e non erano ancora stati fusi in un solo bacino dalle impellenti esigenze del progresso, attorno alla loro origine sorse una leggenda che per la verità è assai triste, ma forse rispecchia la realtà dei tempi in cui è scaturita dalla fantasia popolare. Si racconta che la figlia di un ricco possidente di Branzi era innamorata di un pastore della Valle Taleggio, dal quale era teneramente ricambiata.

Il loro amore era però risolutamente ostacolato dalla famiglia della ragazza che avrebbe preferito per lei un partito migliore di quanto non costituisse quel modesto pastore, costretto ogni anno ad andare in cerca di lavoro, accudendo a pecore e capre che si faceva affidare da allevatori della zona per portarle a pascolare sulle montagne dell’alta Valle Brembana.

La ragazza era stata da tempo promessa dal padre a un proprietario di fucine della Val Fondra, piuttosto attempato e per nulla piacente, ma assai ricco e influente nella vita politica ed economica della zona. Come si sa, in queste faccende nemmeno le lacrime più strazianti e le suppliche più insistenti possono sortire un qualche effetto, e così l’infelice ragazza, dopo aver inutilmente dato fondo a tutte le sue risorse di convincimento, dovette prendere atto, con il più grande sconforto, che il suo destino era segnato e la condannava a passare il resto della sua vita accanto ad un uomo che non amava e non avrebbe mai amato. Così, mentre si avvicinava il giorno delle nozze, fissate in tutta fretta proprio per togliere di mezzo ogni possibile interferenza nei programmi prestabiliti, l’infelice ragazza trascinava stancamente le sue giornate, monotone e senza speranza, tutta sola, chiusa nella sua cameretta, con le mani abbandonate in grembo e gli occhi persi nello spazio indefinito, sospirando l’amore impossibile per il suo bel pastorello.

Costui nel frattempo si trovava sui monti col suo gregge ed era ben consapevole dei progetti che riguardavano la sua amata, dai quali era stato. drasticamente escluso con la perentoria minaccia di non farsi più vedere dalle parti di Branzi, se ci teneva alla vita. Ma come accade sovente, specie nelle leggende, la ragazza non si rassegnava a perdere il suo amore, così cominciò a non mangiare più e a dar segni di squilibrio mentale, al punto da sembrare uscita di senno.

Il padre ricorse a ogni mezzo per riportare la figlia in buona salute, interpellò tutti i medici della valle e scese fino a Bergamo per consultarsi con i luminari di allora, ma non ottenne nessun risultato. Finalmente un giorno si presentò nella casa della fanciulla un medico che all’apparenza non dava particolari garanzie di professionalità, in quanto oltre che assai giovane era anche vestito in modo piuttosto dimesso e si esprimeva con un linguaggio non proprio all’altezza di un uomo di scienza.

Ma pur di salvare la figlia, il padre accettò anche le prescrizioni di quel mediconzolo che, per la verità, si mostrava assai sollecito e puntuale nel recarsi tutti i giorni a visitare la giovane paziente. Nell’incredulità generale, la ragazza cominciò come per incanto a migliorare: tornò a sorridere e a parlare, riprese a mangiare con gusto e in fretta le suo gote ridivennero rosee e pienotte. Sembrava di nuovo innamorata della vita. Ormai anche il più distratto dei lettori avrà intuito la vera identità di quell’improbabile medico e si sarà fatta un’idea della natura delle cure a cui era sottoposta la ragazza. Infatti egli altri non era se non il pastore che, approfittando dell’equivoco sulla sua identità, non passava giorno che non si incontrasse con la sua bella per trascorrere con lei momenti meravigliosi, coperti dalla scusa della riservatezza di una visita medica. Ma ovviamente il gioco non poteva protrarsi troppo a lungo e se i due innamorati fossero stati scoperti avrebbero pagato caro quell’inganno.

D’altronde essi non erano per nulla disposti a lasciare che le cose tornassero come prima, così decisero di scappare per cercare di coronare il loro sogno d’amore lontano dalla valle. Una notte, dopo aver preparato un fagotto con poche cose, lasciarono di nascosto il paese e, per evitare il rischio di essere scoperti, preferirono non scendere verso il fondovalle, ma scelsero di seguire la strada più difficile delle montagne, che il pastore conosceva bene perché vi portava le sue bestie al pascolo.

Di buona lena salirono lungo il sentiero della Val Borleggia e in fretta arrivarono al Piano delle Casere, ma quando si fermarono per riposare un attimo udirono il suono delle campane a martello proveniente dal campanile di Branzi: la loro fuga era stata scoperta e in paese si stavano organizzando per venire a riprenderli. Più disperati che mai, ripresero il cammino quasi di corsa, ma raggiunte le pendici del monte Farno, la ragazza, nel superare un tratto piuttosto impervio, mise un piede in fallo e scivolò.

Nella caduta batté la testa contro un sasso e rimase a terra svenuta. Il pastore, dopo aver cercato inutilmente di farla rinvenire, udendo in lontananza i richiami delle persone mandate alla loro ricerca, prese la ragazza tra le braccia e si mise a correre su per la montagna, incurante dei pericoli. Per il buio fitto il sentiero era quasi invisibile e così ad un certo punto, ormai allo stremo delle forze, il pastorello perse l’orientamento e si trovò a procedere in un luogo scosceso e impraticabile.

Ancora qualche passo incerto e poi una scivolata sui sassi di un ghiaione. E i due poveri innamorati precipitarono, stretti in un abbraccio estremo e disperato, fino al fondo di un precipizio. Nel luogo dove caddero i loro miseri corpi si aprirono due conche circolari dalle quali cominciarono a sgorgare due limpide polle d’acqua che, zampillando senza sosta, formarono due laghetti quasi della stessa forma e dimensione: i laghi Gemelli. Ai giorni nostri la costruzione della diga ha decisamente trasformato il paesaggio, ma volendo restare nella leggenda si potrebbe affermare che finalmente i laghetti dei due innamorati si sono fusi in uno solo, a coronare per sempre il loro sogno d’amore…

La pitocca di Olda di Val Taleggio

Nella Val Taleggio a Olda, c’era una vecchia chiamata la “pitocca”. Girava nei paesi della val Taleggio a pitoccare casa per casa; era una brutta vecchia gobba, con 2 occhi di civetta, un naso a uncino dal quale colava sempre una goccia; coi capelli bianchi e tutti impegolati . Portava un cappello da uomo nero pieno di buchi, e si vedevano i pidocchi che vi si arrampicavano grossi. Portava un gilet di lana tutto rappreso e una gonna tutta a pezzi unta e bisunta. Camminava a piedi nudi e i piedi erano neri coi calcagni screpolati. Aveva sul braccio una borsa e in mano un bastone. I ragazzi, al vederla fuggivano spaventati e la gente quando la vedevano spuntare, chiudevano le porte perché temevano che entrasse nelle case; mettevano sulla porta una fetta di polenta e un pezzo di stracchino e quando lei aveva raccolto la polenta e lo stracchino, i cani della contrada cominciavano ad abbaiare e la facevano scappare. Il povero padre racconta che un giorno la pitocca era arrivata a Sottochiesa ed era comparsa nella corte delle case.

Lui e i suoi fratelli bambini, stavano giocando; non appena l’hanno vista sono scappati dentro la casa per la paura; quando alla sera sono andati a letto, la paura era raddoppiata; dormivano al piano di sopra tutti i sei fratelli in uno stanzone; erano tre per paglione e mio padre era il più piccolo, lui aveva cinque anni e il più vecchio era mio zio Battista, che aveva tredici anni. Quando l’olio del lume finì (a quel tempo non c’era la luce elettrica) uno dei fratelli cominciò a dire che c’era la pitocca; gli altri erano saltati fuori dal letto, hanno infilato la porta e giù per la scala di legno un po’ in piedi e un po’ a rotoloni! Il nonno sentì che venivan giù a salti; esce dalla porta con la cinghia delle braghe in mano; loro aveva indosso un camicino corto che arrivava al bottone della pancia e più niente davanti; e zacchette con la cinghia sul culetto nudo. Ma loro non son più saliti nello stanzone finche’ il nonno non uscì a vedere se c’era la pitocca. Poi andò di sopra a dormire con loro. Ma forse questa pitocca non era cattiva.

Nella Val Taleggio a Olda, c’era una vecchia chiamata la “pitocca”. Girava nei paesi della val Taleggio a pitoccare casa per casa; era una brutta vecchia gobba, con 2 occhi di civetta, un naso a uncino dal quale colava sempre una goccia; coi capelli bianchi e tutti impegolati . Portava un cappello da uomo nero pieno di buchi, e si vedevano i pidocchi che vi si arrampicavano grossi. Portava un gilet di lana tutto rappreso e una gonna tutta a pezzi unta e bisunta. Camminava a piedi nudi e i piedi erano neri coi calcagni screpolati. Aveva sul braccio una borsa e in mano un bastone. I ragazzi, al vederla fuggivano spaventati e la gente quando la vedevano spuntare, chiudevano le porte perché temevano che entrasse nelle case; mettevano sulla porta una fetta di polenta e un pezzo di stracchino e quando lei aveva raccolto la polenta e lo stracchino, i cani della contrada cominciavano ad abbaiare e la facevano scappare. Il povero padre racconta che un giorno la pitocca era arrivata a Sottochiesa ed era comparsa nella corte delle case.

Lui e i suoi fratelli bambini, stavano giocando; non appena l’hanno vista sono scappati dentro la casa per la paura; quando alla sera sono andati a letto, la paura era raddoppiata; dormivano al piano di sopra tutti i sei fratelli in uno stanzone; erano tre per paglione e mio padre era il più piccolo, lui aveva cinque anni e il più vecchio era mio zio Battista, che aveva tredici anni. Quando l’olio del lume finì (a quel tempo non c’era la luce elettrica) uno dei fratelli cominciò a dire che c’era la pitocca; gli altri erano saltati fuori dal letto, hanno infilato la porta e giù per la scala di legno un po’ in piedi e un po’ a rotoloni! Il nonno sentì che venivan giù a salti; esce dalla porta con la cinghia delle braghe in mano; loro aveva indosso un camicino corto che arrivava al bottone della pancia e più niente davanti; e zacchette con la cinghia sul culetto nudo. Ma loro non son più saliti nello stanzone finche’ il nonno non uscì a vedere se c’era la pitocca. Poi andò di sopra a dormire con loro. Ma forse questa pitocca non era cattiva.

Tanti anni fa in una grotta sul monte Secco, in quel di Piazzatorre, viveva un tipo assai strano, che non si faceva mai vedere in paese, ma passava le sue giornate a lavorare nel bosco, tagliando la legna ed allevando qualche capra da cui ricavava quel poco latte che gli serviva per tenersi in vita. Era vestito rozzamente, con una grossa maglia di lana grezza, dei pantaloni di fustagno pieni di toppe e un paio di zoccoli chiodati da cui spuntavano le dita dei piedi malamente coperte da calzini lisi e bucati da più parti. Particolare curioso ed inspiegabile del suo abbigliamento erano i cappellacci, ben sette, che teneva sempre calcati in testa, uno sopra l’altro, e di cui non si separava mai, forse nemmeno quando si coricava sullo sporco pagliericcio che gli fungeva da letto. Un giorno accadde che un cacciatore di Piazzatorre cercasse il suo cane che si era perso sulla montagna durante una lunga e infruttuosa battuta di caccia alla lepre. Calata la sera e fattosi buio, il cacciatore non poté proseguire le ricerche e decise di passare la notte al riparo di una vecchia e sgangherata baita che era già stata il suo provvidenziale rifugio qualche anno prima, durante un furioso temporale.

Benché stanco per la lunga camminata, ebbe difficoltà a prendere sonno, sia perché si era dovuto sdraiare sul freddo e nudo pavimento della baita, ma soprattutto perché era preoccupato per il suo cane, un segugio dal pelo fulvo e dagli occhi cristallini, sempre in movimento e in cerca di qualche avventura, che tuttavia non si era mai allontanato dal suo padrone più di qualche ora, tornando sempre alla sua cuccia, specie quando c’era da assaporare qualche gustoso bocconcino che il padrone gli propinava come premio dei suoi successi venatori. Finalmente la stanchezza ebbe il sopravvento e il cacciatore riuscì ad addormentarsi, ma nel colmo della notte si svegliò di soprassalto: gli era parso di udire in lontananza il guaito disperato del suo cane, il richiamo lamentoso dell’animale in pericolo. Si alzò, uscì dalla baita, tese l’orecchio e rimase in ascolto, ma nessun rumore proveniva dal bosco, se non il flebile scroscio di un ruscello e il richiamo rauco e lugubre di una civetta, ripetuto stancamente ad intervalli regolari. Trascorso parecchio tempo e convintosi di aver sognato, rientrò nella baita, ma non ci fu verso di riaddormentarsi. Così, ai primi chiarori dell’alba, lasciò il suo rifugio notturno e si inoltrò nel bosco per riprendere le ricerche del cane. A un certo punto, dopo un paio d’ore di inutile girovagare senza una meta precisa, si ricordò di quello strano personaggio dai sette cappelli che gli era capitato qualche rara volta di intravedere ai margini del bosco e che al suo apparire si era affrettato a nascondersi nel fitto degli alberi. La dimora di quel tipo così poco socievole doveva essere in quella zona e forse il cane, stanco e affamato, aveva trovato ospitalità presso di lui. Non si sbagliava: l’uomo dai sette cappelli viveva proprio da quelle parti. Ma sarebbe stato meglio che vivesse migliaia di chilometri più lontano, perché il cacciatore lo incontrò, finalmente, nel fitto del bosco, appena dietro una siepe di arbusti e rovi.

E si trattò di un incontro drammatico. La scena che gli si presentò era terrificante: l’uomo dai sette cappelli, tutto sporco di sangue, era seduto a cavalcioni di un grosso tronco posto all’ingresso della grotta e con un lungo coltellaccio stava facendo a pezzi un animale, divorandone avidamente la carne, cruda e sanguinante. Ci volle solo un attimo al cacciatore per accorgersi che la povera preda dell’uomo dai sette cappelli era un cane, il suo fido segugio! Fuori di sé dal dolore e dalla rabbia, si slanciò contro quell’individuo, con furia omicida, ma l’altro si alzò di scatto e gli si rivoltò contro, minaccioso, brandendo il coltello e cercando di colpirlo. Per fortuna il primo fendente andò a vuoto e ciò consentì al cacciatore di portarsi momentaneamente fuori tiro, ma poiché l’altro continuava a rincorrerlo, intenzionato ad ammazzarlo, dovette darsela a gambe e non si fermò finché non ebbe raggiunto il limitare del bosco. Poi, ormai in salvo, riprese mestamente la via di casa, con l’animo angosciato per quanto era successo a lui e al suo povero cane. A Piazzatorre però la sua storia non fu creduta e tutti ritenevano che la macabra visione che il cacciatore continuava a descrivere nei minimi particolari fosse solo frutto della sua fantasia, magari innaffiata con qualche bicchiere di troppo. Gli amici dell’osteria, con i quali trascorreva le serate a giocare a carte, iniziarono a prendersi gioco di lui e a trattarlo da visionario.

Quanto al cane, che non aveva ovviamente più fatto ritorno, cercavano di tranquillizzarne il proprietario sostenendo che si era preso una vacanza avventurosa e che avrebbe ben presto fatto ritorno a casa, una volta spenti i bollori della scappatella con qualche cagnetta dei paesi vicini. Così, col passare dei giorni anche il cacciatore finì per convincersi di essersi sognato tutto e tornò a nutrire una pur timida speranza nel ritorno del suo cane. Ma avvicinandosi la brutta stagione, uno di quegli amici che avevano tanto deriso il malcapitato cacciatore, forse il più incredulo, si trovò un giorno, sul far del tramonto, a passare dalle parti del monte Secco. Era salito fin lassù in cerca di funghi che in autunno crescono abbondanti in quella zona. Inoltratosi nel bosco, giunse senza saperlo vicino alla grotta dell’uomo dai sette cappelli. Alzato lo sguardo, rimase impietrito dalla scena che apparve ai suoi occhi: l’uomo dai sette cappelli era lì, davanti a lui, e cercava di tenere a bada tre lupi famelici che ringhiando sinistramente stavano dilaniando il cadavere di un povero uomo. L’orribile spettacolo paralizzò il cercatore di funghi che per un attimo si sentì perduto. Per fortuna la sua presenza passò inosservata, così, con grande cautela, riuscì ad allontanarsi e a darsi a precipitosa fuga verso casa.

Gli ci volle parecchio tempo per riprendere l’orientamento; ormai si era fatto buio e procedeva a tentoni nel fitto della boscaglia. La luna filtrava tra gli alberi e proiettava sul terreno ombre terrificanti di mostri che sembravano ghermirlo con poderose zampe munite di artigli affilati e il vento contribuiva a questo gioco spaventoso, rendendo i fantasmi del bosco più sinuosi ed angoscianti. Più morto che vivo, arrivò in paese, chiamò alcuni amici, tra cui il cacciatore che aveva perso il cane, raccontò loro la sua terribile esperienza e li convinse ad organizzare una battuta di caccia al mostro del monte Secco. Con precauzione e in preda a una sorda paura, il mattino seguente il gruppetto raggiunse le pendici della montagna, penetrò nel bosco e arrivò fino alla grotta. All’esterno, seduto sul tronco dell’albero, c’era l’uomo dai sette cappelli che stava consumando il suo orrido pasto con i resti umani lasciati dalle tre belve, le quali, ormai sazie, sonnecchiavano sdraiate ai suoi piedi. Una nutrita scarica di fucilate squarciò il silenzio della montagna. Raggiunto da numerosi colpi, l’uomo dai sette cappelli ebbe ancora la forza di alzarsi, rimase un attimo in piedi, con uno sguardo dolorosamente stupito, poi stramazzò al suolo senza un lamento. Anche i lupi, colpiti a morte nel sonno, si accasciarono in una pozza di sangue. Poi, con grande sorpresa dei cacciatori, l’uomo e le bestie scomparvero sotto terra senza lasciare la minima traccia della loro presenza. I cacciatori, dopo aver a lungo, ma inutilmente cercato qualche indizio che rivelasse l’identità di quel misterioso individuo, se ne tornarono a Piazzatorre dove raccontarono l’accaduto. Da allora questa storia viene sempre narrata dai nonni ai loro nipotini nelle lunghe serate d’inverno, e anche adesso che la televisione ha cancellato il gusto di ascoltare le storie, c’è ancora qualche bambino che di notte sogna brutti incontri con l’uomo dai sette cappelli.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Il castello della Regina

In una montagna sopra Brembilla, tra Sant’Antonio Abbandonato e la forcella di Bura, c’era un castello che era comandato da una regina. Era una donna forte e guerriera, andava sempre in testa ai suoi soldati nelle battaglie e ritornava ogni volta vittoriosa al suo castello. Quando ritornava dalle sue guerre, appena giunta a Gualguari (questo luogo è attualmente il centro del paese di Brembilla) si fermava nella piazza e provvedeva ad impiccare i suoi nemici, i traditori e i prigionieri. Quando li aveva tutti impiccati, ripartiva per risalire al suo castello e dopo nessuno più poteva vederla per molto tempo.

 

Un bel giorno una staffetta porta alla regina questa notizia: in una località detta Lasiol, si era accampato un re con molti suoi soldati; questo re aveva una corona tutta d’oro, sacchi pieni di marenghi e un vitello tutto d’oro. La regina udita la notizia, radunò tutti i suoi soldati e raccontata la cosa, promise che avrebbe lasciato a loro tutto l’oro che avrebbero conquistato; per sé avrebbe tenuto soltanto il vitello d’oro e la corona. La stessa sera l’esercito della regina partì per la guerra e durante la notte, si preparò per la battaglia.

 

Era una notte d’agosto e c’era la luna piena; a mezzanotte i soldati della regina cominciarono l’attacco, che è durato fino a tanto che il re si è messo in fuga verso le rocce dell’orrido al di la di Brembilla; dall’orrido una alla volta precipitarono nel burrone ma il re prima di morire, mandò una maledizione alla regina che aveva preso il suo vitello d’oro: infatti questo vitello era simbolo della sua religione. La regina tornò al castello vittoriosa portando con sé il bottino di guerra; la corona del re e il suo vitello d’oro. Senonché’ quando era già ritirata nella sua stanza, si scatenò un furioso temporale che faceva tremare la montagna e le muraglie del castello; e dopo poco tempo la terra si spalancò, si aperse una voragine così grande che inghiottì tutto e tutti: la regina, il castello e il vitello.

In una montagna sopra Brembilla, tra Sant’Antonio Abbandonato e la forcella di Bura, c’era un castello che era comandato da una regina. Era una donna forte e guerriera, andava sempre in testa ai suoi soldati nelle battaglie e ritornava ogni volta vittoriosa al suo castello. Quando ritornava dalle sue guerre, appena giunta a Gualguari (questo luogo è attualmente il centro del paese di Brembilla) si fermava nella piazza e provvedeva ad impiccare i suoi nemici, i traditori e i prigionieri. Quando li aveva tutti impiccati, ripartiva per risalire al suo castello e dopo nessuno più poteva vederla per molto tempo.

 

Un bel giorno una staffetta porta alla regina questa notizia: in una località detta Lasiol, si era accampato un re con molti suoi soldati; questo re aveva una corona tutta d’oro, sacchi pieni di marenghi e un vitello tutto d’oro. La regina udita la notizia, radunò tutti i suoi soldati e raccontata la cosa, promise che avrebbe lasciato a loro tutto l’oro che avrebbero conquistato; per sé avrebbe tenuto soltanto il vitello d’oro e la corona. La stessa sera l’esercito della regina partì per la guerra e durante la notte, si preparò per la battaglia.

 

Era una notte d’agosto e c’era la luna piena; a mezzanotte i soldati della regina cominciarono l’attacco, che è durato fino a tanto che il re si è messo in fuga verso le rocce dell’orrido al di la di Brembilla; dall’orrido una alla volta precipitarono nel burrone ma il re prima di morire, mandò una maledizione alla regina che aveva preso il suo vitello d’oro: infatti questo vitello era simbolo della sua religione. La regina tornò al castello vittoriosa portando con sé il bottino di guerra; la corona del re e il suo vitello d’oro. Senonché’ quando era già ritirata nella sua stanza, si scatenò un furioso temporale che faceva tremare la montagna e le muraglie del castello; e dopo poco tempo la terra si spalancò, si aperse una voragine così grande che inghiottì tutto e tutti: la regina, il castello e il vitello.

Quando i Laghi Gemelli erano proprio gemelli, cioè due limpidi specchi d’acqua circondati da una corona di montagne, appena separati da una stretta lingua di terra, e non erano ancora stati fusi in un solo bacino dalle impellenti esigenze del progresso, attorno alla loro origine sorse una leggenda che per la verità è assai triste, ma forse rispecchia la realtà dei tempi in cui è scaturita dalla fantasia popolare. Si racconta che la figlia di un ricco possidente di Branzi era innamorata di un pastore della Valle Taleggio, dal quale era teneramente ricambiata.
Il loro amore era però risolutamente ostacolato dalla famiglia della ragazza che avrebbe preferito per lei un partito migliore di quanto non costituisse quel modesto pastore, costretto ogni anno ad andare in cerca di lavoro, accudendo a pecore e capre che si faceva affidare da allevatori della zona per portarle a pascolare sulle montagne dell’alta Valle Brembana.
La ragazza era stata da tempo promessa dal padre a un proprietario di fucine della Val Fondra, piuttosto attempato e per nulla piacente, ma assai ricco e influente nella vita politica ed economica della zona. Come si sa, in queste faccende nemmeno le lacrime più strazianti e le suppliche più insistenti possono sortire un qualche effetto, e così l’infelice ragazza, dopo aver inutilmente dato fondo a tutte le sue risorse di convincimento, dovette prendere atto, con il più grande sconforto, che il suo destino era segnato e la condannava a passare il resto della sua vita accanto ad un uomo che non amava e non avrebbe mai amato. Così, mentre si avvicinava il giorno delle nozze, fissate in tutta fretta proprio per togliere di mezzo ogni possibile interferenza nei programmi prestabiliti, l’infelice ragazza trascinava stancamente le sue giornate, monotone e senza speranza, tutta sola, chiusa nella sua cameretta, con le mani abbandonate in grembo e gli occhi persi nello spazio indefinito, sospirando l’amore impossibile per il suo bel pastorello.
Costui nel frattempo si trovava sui monti col suo gregge ed era ben consapevole dei progetti che riguardavano la sua amata, dai quali era stato. drasticamente escluso con la perentoria minaccia di non farsi più vedere dalle parti di Branzi, se ci teneva alla vita. Ma come accade sovente, specie nelle leggende, la ragazza non si rassegnava a perdere il suo amore, così cominciò a non mangiare più e a dar segni di squilibrio mentale, al punto da sembrare uscita di senno.
Il padre ricorse a ogni mezzo per riportare la figlia in buona salute, interpellò tutti i medici della valle e scese fino a Bergamo per consultarsi con i luminari di allora, ma non ottenne nessun risultato. Finalmente un giorno si presentò nella casa della fanciulla un medico che all’apparenza non dava particolari garanzie di professionalità, in quanto oltre che assai giovane era anche vestito in modo piuttosto dimesso e si esprimeva con un linguaggio non proprio all’altezza di un uomo di scienza.
Ma pur di salvare la figlia, il padre accettò anche le prescrizioni di quel mediconzolo che, per la verità, si mostrava assai sollecito e puntuale nel recarsi tutti i giorni a visitare la giovane paziente. Nell’incredulità generale, la ragazza cominciò come per incanto a migliorare: tornò a sorridere e a parlare, riprese a mangiare con gusto e in fretta le suo gote ridivennero rosee e pienotte. Sembrava di nuovo innamorata della vita. Ormai anche il più distratto dei lettori avrà intuito la vera identità di quell’improbabile medico e si sarà fatta un’idea della natura delle cure a cui era sottoposta la ragazza. Infatti egli altri non era se non il pastore che, approfittando dell’equivoco sulla sua identità, non passava giorno che non si incontrasse con la sua bella per trascorrere con lei momenti meravigliosi, coperti dalla scusa della riservatezza di una visita medica. Ma ovviamente il gioco non poteva protrarsi troppo a lungo e se i due innamorati fossero stati scoperti avrebbero pagato caro quell’inganno.
D’altronde essi non erano per nulla disposti a lasciare che le cose tornassero come prima, così decisero di scappare per cercare di coronare il loro sogno d’amore lontano dalla valle. Una notte, dopo aver preparato un fagotto con poche cose, lasciarono di nascosto il paese e, per evitare il rischio di essere scoperti, preferirono non scendere verso il fondovalle, ma scelsero di seguire la strada più difficile delle montagne, che il pastore conosceva bene perché vi portava le sue bestie al pascolo.
Di buona lena salirono lungo il sentiero della Val Borleggia e in fretta arrivarono al Piano delle Casere, ma quando si fermarono per riposare un attimo udirono il suono delle campane a martello proveniente dal campanile di Branzi: la loro fuga era stata scoperta e in paese si stavano organizzando per venire a riprenderli. Più disperati che mai, ripresero il cammino quasi di corsa, ma raggiunte le pendici del monte Farno, la ragazza, nel superare un tratto piuttosto impervio, mise un piede in fallo e scivolò.
Nella caduta batté la testa contro un sasso e rimase a terra svenuta. Il pastore, dopo aver cercato inutilmente di farla rinvenire, udendo in lontananza i richiami delle persone mandate alla loro ricerca, prese la ragazza tra le braccia e si mise a correre su per la montagna, incurante dei pericoli. Per il buio fitto il sentiero era quasi invisibile e così ad un certo punto, ormai allo stremo delle forze, il pastorello perse l’orientamento e si trovò a procedere in un luogo scosceso e impraticabile.
Ancora qualche passo incerto e poi una scivolata sui sassi di un ghiaione. E i due poveri innamorati precipitarono, stretti in un abbraccio estremo e disperato, fino al fondo di un precipizio. Nel luogo dove caddero i loro miseri corpi si aprirono due conche circolari dalle quali cominciarono a sgorgare due limpide polle d’acqua che, zampillando senza sosta, formarono due laghetti quasi della stessa forma e dimensione: i laghi Gemelli. Ai giorni nostri la costruzione della diga ha decisamente trasformato il paesaggio, ma volendo restare nella leggenda si potrebbe affermare che finalmente i laghetti dei due innamorati si sono fusi in uno solo, a coronare per sempre il loro sogno d’amore…

Il Serpente aveva la Boccia d’oro in bocca

Mio nonno raccontava che quando era bambino, c’era un serpente che volava e che aveva in bocca una BOCCIA d’ORO la quale di notte mandava luce. Tutte le notti il serpente che stava di casa sulla Corna Rossa volava intorno al campanile di Zogno e quando batteva la mezzanotte, sibilava così forte che la gente si rinchiudeva nelle case per la gran paura. Poi andava a volare sul Canto Alto e di lassù sibilava ancora più forte e lo sentivano anche quelli di Bergamo e anche loro si spaventavano non poco. Quando ritornava da suo volo, finiva giù nella Valle del Boer e per dissetarsi deponeva la boccia d’oro sopra un sasso; quando aveva bevuto, riprendeva il volo e tornava sulla Corna Rossa. Una volta un giovanotto di quelli un po’ spacconi, ha atteso un agguato al Serpente nel Boer, per tentare di rubargli la BOCCIA d’ORO. Ma quando il povero giovinotto è stato vicino al serpente, prima è diventato rosso come il fuoco e dopo è rimasto pietrificato.

 

Appena la gente si è accorta del fatto ha chiamato il prevosto di Zogno e lui per farlo rinvenire è stato obbligato a buttargli addosso 3 secchi di acqua benedetta. Per anni e anni, uomini, vacche, pecore e capre si bevevano l’acqua del Boer, che era stata avvelenata dal serpente, morivano e nel posto dove si posava il serpente c’erano soltanto vipere, rospi, scorpioni e salamandre. E la gente ripeteva che il serpente non era altro che un diavolino, piccolo, buono di quelli appena nati. Ecco la ragione per la quale il prevosto di quell’epoca ha fatto mettere in cima al campanile la statua di San Lorenzo. Il Santo infatti porta in mano la graticola del suo martirio e nell’altra un mazzo diverghe, di salice e cura che non ritorni il serpente, pronto giorno e notte a dargliele. Anche la croce sul Canto Alto era stata messa per fugare il serpente. La gente del Boer poi ha fatto il resto con bastoni e vanghe finche’ il serpente sparì del tutto.

 

Mio nonno raccontava che quando era bambino, c’era un serpente che volava e che aveva in bocca una BOCCIA d’ORO la quale di notte mandava luce. Tutte le notti il serpente che stava di casa sulla Corna Rossa volava intorno al campanile di Zogno e quando batteva la mezzanotte, sibilava così forte che la gente si rinchiudeva nelle case per la gran paura. Poi andava a volare sul Canto Alto e di lassù sibilava ancora più forte e lo sentivano anche quelli di Bergamo e anche loro si spaventavano non poco. Quando ritornava da suo volo, finiva giù nella Valle del Boer e per dissetarsi deponeva la boccia d’oro sopra un sasso; quando aveva bevuto, riprendeva il volo e tornava sulla Corna Rossa. Una volta un giovanotto di quelli un po’ spacconi, ha atteso un agguato al Serpente nel Boer, per tentare di rubargli la BOCCIA d’ORO. Ma quando il povero giovinotto è stato vicino al serpente, prima è diventato rosso come il fuoco e dopo è rimasto pietrificato.

 

Appena la gente si è accorta del fatto ha chiamato il prevosto di Zogno e lui per farlo rinvenire è stato obbligato a buttargli addosso 3 secchi di acqua benedetta. Per anni e anni, uomini, vacche, pecore e capre si bevevano l’acqua del Boer, che era stata avvelenata dal serpente, morivano e nel posto dove si posava il serpente c’erano soltanto vipere, rospi, scorpioni e salamandre. E la gente ripeteva che il serpente non era altro che un diavolino, piccolo, buono di quelli appena nati. Ecco la ragione per la quale il prevosto di quell’epoca ha fatto mettere in cima al campanile la statua di San Lorenzo. Il Santo infatti porta in mano la graticola del suo martirio e nell’altra un mazzo diverghe, di salice e cura che non ritorni il serpente, pronto giorno e notte a dargliele. Anche la croce sul Canto Alto era stata messa per fugare il serpente. La gente del Boer poi ha fatto il resto con bastoni e vanghe finche’ il serpente sparì del tutto.

 

Un sistema ritenuto efficace per combattere le streghe era di far bollire in un grande calderone gli oggetti domestici o gli indumenti che si ritenevano portatori delle fatture. Durante la bollitura, se qualcuno degli oggetti era stato stregato, si cominciavano a sentire lamenti sempre più forti e insistenti, finché la strega responsabile della malefatta, solitamente celata sotto le sembianze di una persona all’apparenza innocua, si doveva svelare per non rischiare la bollitura che la colpiva tramite l’oggetto stregato, e di conseguenza subiva il castigo previsto per questi casi. Una vicenda del genere capitò a un giovane mulattiere di Dossena il quale aveva solo una sorella, sposata con un fannullone, assai cattiva e invidiosa del fratello che era invece stimato da tutti per la sua intraprendenza e abilità nel portare a termine gli incarichi assegnatigli. A forza di lavorare dall’alba al tramonto, il giovane era riuscito a mettere insieme un certo numero di muli e cavalli da tiro, con i quali trasportava ovunque per conto terzi ogni sorta di materiali.
I quadrupedi erano la sua fonte di guadagno e perciò il mulattiere li trattava con ogni cura, badando che mangiassero a dovere, si riposassero dopo le fatiche quotidiane e non prendessero freddo quando erano sudati. Tuttavia, malgrado le attenzioni, non passava anno senza che un animale si ammalasse improvvisamente e morisse per cause inspiegabili. Convinto di essere vittima del malocchio, il giovane si rivolse finalmente a un vecchio saggio del paese il quale gli indicò cosa avrebbe dovuto fare se si fosse ripetuto un caso di malattia improvvisa tra gli animali. Così, quando notò che il mulo più mansueto e più apprezzato per la sua forza si era ammalato e stava morendo, mise in pratica i consigli del vecchio: riempì d’acqua una grande pentola, vi immerse tutti i finimenti del mulo e li mise a bollire sul fuoco del camino. Dopo un po’, quando l’acqua stava per bollire, cominciò a sentire richieste di aiuto e lamenti emessi da una voce femminile che sembrava provenire dalla pentola.
Il giovane, al quale era stato preannunciato questo strano fenomeno, non se ne curò e continuò a tener vivo il fuoco con grossi ceppi di legna. Ma i lamenti divennero sempre più acuti e si trasformarono in urla strazianti, poi la porta fu scossa da un bussare furioso, accompagnato dalle suppliche spasmodiche della voce che implorava il giovane di togliere la pentola dal fuoco. Alla fine la donna svelò la propria identità: era la sorella del mulattiere che gli chiedeva perdono, dicendogli che se non avesse fatto in fretta a levarla dal fuoco sarebbe cotta fino a morire. Al sentire la voce della sorella, il giovane comprese finalmente chi era la strega che gli aveva fatto morire i muli, ma dato che aveva buon cuore spense subito il fuoco e aggiunse acqua fredda a quella bollente. Poi corse ad aprire la porta, ma ormai era troppo tardi: la sorella giaceva a terra, morta bollita. La disperazione del fratello si trasformò poco dopo in rassegnazione, quando, entrato nella stalla, vide il mulo in piedi, completamente guarito e intento a mangiare di buona lena il fieno dalla greppia.
L’espediente della bollitura come rimedio contro le streghe era ritenuto efficace un po’ in tutta la Bergamasca. A Casnigo, quando capitavano episodi attribuiti a stregoneria, si decideva di immergere un crocifisso a testa in giù in una pentola piena d’acqua bollente in cui erano stati immessi degli indumenti della persona ritenuta all’origine delle scellerate fatture. Capitava allora che il colpevole (o, più spesso, la colpevole) si mettesse a urlare di dolore, come se il suo corpo stesse bollendo in pentola e chiedesse a gran voce di essere liberato da quel tormento, svelando così la sua vera natura. La pratica della bollitura del crocifisso era rigorosamente vietata dalle autorità ecclesiastiche, ma quando era in ballo la salvezza delle persone care non si tenevano in gran considerazione i divieti. A Villa d’Almè, ad esempio, le mamme ricorrevano alla bollitura preventiva, assieme al crocifisso, degli indumenti dei bambini quando ci poteva essere il rischio che i loro piccoli frequentassero ambienti infestati da streghe. Credenze ovviamente piuttosto balzane, come quella che aveva individuato nientemeno che il quartier generale delle streghe, per alcuni situato al passo del Tonale, per altri in una stretta e tortuosa vallata delle Orobie, dove nottetempo si davano convegno migliaia di queste inquietanti entità della notte per ritemprarsi prima di intraprendere le altre inique spedizioni.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Il Folletto della Val Taleggio

A Sottochiesa in Val Taleggio, c’era un uomo che andava poco in chiesa e molto all’osteria. Una sera tornando a casa, trova un uomo che stava male disteso in mezzo alla strada. Lo aiuta a rimettersi in piedi e poi se lo porta a casa e appena arrivato in casa, lo fa stendere sul letto della sua stanza; e intanto va in cucina e gli prepara un po’ di caffè; quando è pronto lo versa in una scodella e lo porta all’uomo che stava nel suo letto. Entrato nella stanza vede che lo sconosciuto si è addormentato profondamente; allora torna in cucina a bere un po’ di caffè anche lui si addormenta seduto sulla sedia con la testa sul tavolo.

 

Passata forse una mezzoretta, sente che nella stanza dove stanno gli stracchini a maturare, gli assi e gli stracchini cadono a terra; come può accadere se gli assi sono appoggiati al soffitto con fili di ferro per evitare che i topi arrivino a rosicchiarli ? Di corsa va a vedere che cosa è successo, e trova assi e stracchini a terra tutti a pezzi..!!! Corre nella stanza per chiamare quell’uomo, ma lui dormiva ancora. Ritorna in cucina senza rendersi ragione di quello che succede e si addormenta con la testa sul tavolo. Più tardi, nella cantina cadono con rumore le bottiglie, i fiaschi e le scatole messe sulle mensole; e sente che si spaccano le panche con sopra le damigiane di vino.

 

Accorre rapido e vede le damigiane del vino spaccate, i bottiglioni dell’olio rotti, i vasi del miele a terra in pezzi e farina, riso, pasta da tutte le parti. Spaventato e pieno di paura, corre nella stanza a chiamare quell’uomo, ma l’uomo dormiva sempre; ritorna in cucina e di li a poco vede entrare dalla porta un grosso gatto di quelli soriani, tutto infarinato col pelo irto: il gatto salta sulla credenza butta giù tutti i piatti dall’alzata per terra; salta sul camino e butta a terra i candelieri; e infine salta sulla finestra, la apre e scompare. Il poveretto torna nella stanza a chiamare quell’uomo che aveva raccolto, sperando nel suo aiuto, ma l’uomo non era più sul letto e il suo letto bruciava. Piangente e spaventato, finalmente capì che cosa era successo e chi era quell’uomo che s’era portato in casa: era un folletto.

 

A Sottochiesa in Val Taleggio, c’era un uomo che andava poco in chiesa e molto all’osteria. Una sera tornando a casa, trova un uomo che stava male disteso in mezzo alla strada. Lo aiuta a rimettersi in piedi e poi se lo porta a casa e appena arrivato in casa, lo fa stendere sul letto della sua stanza; e intanto va in cucina e gli prepara un po’ di caffè; quando è pronto lo versa in una scodella e lo porta all’uomo che stava nel suo letto. Entrato nella stanza vede che lo sconosciuto si è addormentato profondamente; allora torna in cucina a bere un po’ di caffè anche lui si addormenta seduto sulla sedia con la testa sul tavolo.

 

Passata forse una mezzoretta, sente che nella stanza dove stanno gli stracchini a maturare, gli assi e gli stracchini cadono a terra; come può accadere se gli assi sono appoggiati al soffitto con fili di ferro per evitare che i topi arrivino a rosicchiarli ? Di corsa va a vedere che cosa è successo, e trova assi e stracchini a terra tutti a pezzi..!!! Corre nella stanza per chiamare quell’uomo, ma lui dormiva ancora. Ritorna in cucina senza rendersi ragione di quello che succede e si addormenta con la testa sul tavolo. Più tardi, nella cantina cadono con rumore le bottiglie, i fiaschi e le scatole messe sulle mensole; e sente che si spaccano le panche con sopra le damigiane di vino.

 

Accorre rapido e vede le damigiane del vino spaccate, i bottiglioni dell’olio rotti, i vasi del miele a terra in pezzi e farina, riso, pasta da tutte le parti. Spaventato e pieno di paura, corre nella stanza a chiamare quell’uomo, ma l’uomo dormiva sempre; ritorna in cucina e di li a poco vede entrare dalla porta un grosso gatto di quelli soriani, tutto infarinato col pelo irto: il gatto salta sulla credenza butta giù tutti i piatti dall’alzata per terra; salta sul camino e butta a terra i candelieri; e infine salta sulla finestra, la apre e scompare. Il poveretto torna nella stanza a chiamare quell’uomo che aveva raccolto, sperando nel suo aiuto, ma l’uomo non era più sul letto e il suo letto bruciava. Piangente e spaventato, finalmente capì che cosa era successo e chi era quell’uomo che s’era portato in casa: era un folletto.

 

Si va indietro molti anni: a quel tempo quelli che passavano per la Valle di Poscante di notte e da soli, vedevano o sentivano gli spiriti; e molti che avevano qualche conto da rendere alla giustizia del Signore, passavano pieni di paura. Lungo questa strada si incontravano tre chiesine votive; una notte un uomo che veniva da Zogno per andare a casa sua a Poscante, arrivato alla prima cappelletta, vede davanti al cancello un prete che pregava a voce bassa, tenendo in mano un libro. Lui per essere bene educato lo saluta, ma il prete non risponde. L’uomo allora continua la sua strada, ma quando arriva vicino alla seconda cappelletta, sente come un uomo che brontola e si ferma; si guarda da ogni parte, ma non riesce a vedere nessuno. Fa due passi indietro e improvvisamente rivede lo stesso prete che stava davanti alla seconda cappelletta.
Il prete aveva in mano un libro più grande di quello di prima e pregava con voce più forte. Lui lo saluta ancora e però si sente preoccupato per quello che vede e se ne va via subito di buon passo, senza voltarsi indietro a guardare. Allorché’ giunge in vista della terza cappelletta, sente la voce del prete che prega ancora più forte; si ferma di nuovo mentre il cuore gli batte forte; si fa coraggio e si avvia per la strada che passa accanto alla cappelletta. Il prete era li davanti che pregava con voce ancora più alta: il prete ha in mano un grande foglio di carta bianca e lo porge all’uomo. Lui lo guarda in faccia e s’accorge che il prete e’ uno scheletro vestito da prete: l’uomo resta impietrito e fermo a guardare e intanto il prete scheletro se ne va leggero come l’aria, si allontana e poi sparisce del tutto. Il poveretto, spaurito, guarda il foglio che tiene in mano e vede che c’è scritto l’indirizzo del parroco di Poscante: senza perdere tempo corre a portarglielo.
Il foglio era tutto bianco, ma quando il parroco lo ha preso nelle sue mani si son viste comparire parole scritte; ma solo lui era in grado di leggerle. L’uomo che aveva portato il foglio non poteva capirle. Dopo che il prete le lesse fino in fondo, il foglio ritornò bianco. L’uomo era molto spaventato, ma il parroco di Poscante gli disse che non doveva aver paura, spiegò che lo scheletro che aveva visto era quello di un prete che aveva bisogno di bere per lui e per tutti i morti del paese.

L’uomo che parlava coi morti

Giovannino era un uomo grande e grosso e forte di quelli che non hanno paura di nulla, neppure del diavolo. Faceva volentieri tutti quei mestieri che nessuno vuol fare, e in tal modo faceva contenta molta gente. Così anche quando fu chiamato in comune per fare il sotterra morti, lui fu pronto a farlo senza indugio. La prima settimana non andò molto male, perché non era morto nessuno e lui passava il tempo a pulire i viali del camposanto, a strappare le erbacce, a scopare e ripulire le croci. Si recava sotto negli ossari e con uno straccio puliva e lustrava le teste dei morti e puliva i denti con lo spazzolino e rimetteva insieme gli scheletri: insomma il tempo gli passava bene ed era un lavoro piacevole. Un giorno che piovigginava e lui non sapeva proprio che cosa fare, gli venne in mente di alzare il coperchio di una tomba e di calarsi all’interno per vedere che cosa c’era.

 

I morti erano tranquilli, proprio morti. Poi nel muro intravide una porta e l’aprì per vedere. Non appena aperta la porta scorse una luce, un sole splendente: si vedevano dei giardini pieni di vari fiori e piante cariche di frutti d’ogni qualità; e vicino a lui c’era un albero con dei pomi rossi e belli: “io ne ho colto uno e subito al posto del pomo raccolto ne è cresciuto un altro”. Intanto vedeva i morti che passeggiavano, i ragazzi che giocavano, insomma era una scena che nessuno avrebbe creduto, se non l’avesse visto. A un certo punto vede un tale che era appena morto, lo riconosce e tutto emozionato lo chiama per nome; ma quello non risponde e continua a camminare per la sua strada. Lo rincorre e quando gli è vicino fa il gesto di prenderlo per una mano per fermarlo ma la mano non c’è ! Giovannino gli si para davanti come per sbarrargli la strada: il morto ha una faccia né rossa né pallida con un colore incerto e torbido; ma la bocca era sorridente e gli occhi sembravano quelli di persona contenta. Però non parlava mentre poteva scrivere e scriveva per terra.

 

Egli scrisse per terra che la morte è bella e che è soltanto il corpo che muore mentre l’anima dei buoni vive anche sotto terra, vive bene ed è contenta. “Vivo meglio di tè, e più contento; e così passo l’eternità come puoi constatare. E questa è la vera vita”. Così aveva scritto per terra. Giovannino uscì fuori dalla tomba grandemente meravigliato ma contento per quello che aveva visto. Andò di corsa a cercare il prete per raccontare la sua avventura ma il prete non gli presta fede e lo fa passare per matto. Anche la gente e le autorità non gli credono. Ma questo non vuol dire nulla, perché la verità è sottoterra e resterà sempre dove è.

Giovannino era un uomo grande e grosso e forte di quelli che non hanno paura di nulla, neppure del diavolo. Faceva volentieri tutti quei mestieri che nessuno vuol fare, e in tal modo faceva contenta molta gente. Così anche quando fu chiamato in comune per fare il sotterra morti, lui fu pronto a farlo senza indugio. La prima settimana non andò molto male, perché non era morto nessuno e lui passava il tempo a pulire i viali del camposanto, a strappare le erbacce, a scopare e ripulire le croci. Si recava sotto negli ossari e con uno straccio puliva e lustrava le teste dei morti e puliva i denti con lo spazzolino e rimetteva insieme gli scheletri: insomma il tempo gli passava bene ed era un lavoro piacevole. Un giorno che piovigginava e lui non sapeva proprio che cosa fare, gli venne in mente di alzare il coperchio di una tomba e di calarsi all’interno per vedere che cosa c’era.

 

I morti erano tranquilli, proprio morti. Poi nel muro intravide una porta e l’aprì per vedere. Non appena aperta la porta scorse una luce, un sole splendente: si vedevano dei giardini pieni di vari fiori e piante cariche di frutti d’ogni qualità; e vicino a lui c’era un albero con dei pomi rossi e belli: “io ne ho colto uno e subito al posto del pomo raccolto ne è cresciuto un altro”. Intanto vedeva i morti che passeggiavano, i ragazzi che giocavano, insomma era una scena che nessuno avrebbe creduto, se non l’avesse visto. A un certo punto vede un tale che era appena morto, lo riconosce e tutto emozionato lo chiama per nome; ma quello non risponde e continua a camminare per la sua strada. Lo rincorre e quando gli è vicino fa il gesto di prenderlo per una mano per fermarlo ma la mano non c’è ! Giovannino gli si para davanti come per sbarrargli la strada: il morto ha una faccia né rossa né pallida con un colore incerto e torbido; ma la bocca era sorridente e gli occhi sembravano quelli di persona contenta. Però non parlava mentre poteva scrivere e scriveva per terra.

 

Egli scrisse per terra che la morte è bella e che è soltanto il corpo che muore mentre l’anima dei buoni vive anche sotto terra, vive bene ed è contenta. “Vivo meglio di tè, e più contento; e così passo l’eternità come puoi constatare. E questa è la vera vita”. Così aveva scritto per terra. Giovannino uscì fuori dalla tomba grandemente meravigliato ma contento per quello che aveva visto. Andò di corsa a cercare il prete per raccontare la sua avventura ma il prete non gli presta fede e lo fa passare per matto. Anche la gente e le autorità non gli credono. Ma questo non vuol dire nulla, perché la verità è sottoterra e resterà sempre dove è.

Quando i Laghi Gemelli erano proprio gemelli, cioè due limpidi specchi d’acqua circondati da una corona di montagne, appena separati da una stretta lingua di terra, e non erano ancora stati fusi in un solo bacino dalle impellenti esigenze del progresso, attorno alla loro origine sorse una leggenda che per la verità è assai triste, ma forse rispecchia la realtà dei tempi in cui è scaturita dalla fantasia popolare. Si racconta che la figlia di un ricco possidente di Branzi era innamorata di un pastore della Valle Taleggio, dal quale era teneramente ricambiata.
Il loro amore era però risolutamente ostacolato dalla famiglia della ragazza che avrebbe preferito per lei un partito migliore di quanto non costituisse quel modesto pastore, costretto ogni anno ad andare in cerca di lavoro, accudendo a pecore e capre che si faceva affidare da allevatori della zona per portarle a pascolare sulle montagne dell’alta Valle Brembana.
La ragazza era stata da tempo promessa dal padre a un proprietario di fucine della Val Fondra, piuttosto attempato e per nulla piacente, ma assai ricco e influente nella vita politica ed economica della zona. Come si sa, in queste faccende nemmeno le lacrime più strazianti e le suppliche più insistenti possono sortire un qualche effetto, e così l’infelice ragazza, dopo aver inutilmente dato fondo a tutte le sue risorse di convincimento, dovette prendere atto, con il più grande sconforto, che il suo destino era segnato e la condannava a passare il resto della sua vita accanto ad un uomo che non amava e non avrebbe mai amato. Così, mentre si avvicinava il giorno delle nozze, fissate in tutta fretta proprio per togliere di mezzo ogni possibile interferenza nei programmi prestabiliti, l’infelice ragazza trascinava stancamente le sue giornate, monotone e senza speranza, tutta sola, chiusa nella sua cameretta, con le mani abbandonate in grembo e gli occhi persi nello spazio indefinito, sospirando l’amore impossibile per il suo bel pastorello.
Costui nel frattempo si trovava sui monti col suo gregge ed era ben consapevole dei progetti che riguardavano la sua amata, dai quali era stato. drasticamente escluso con la perentoria minaccia di non farsi più vedere dalle parti di Branzi, se ci teneva alla vita. Ma come accade sovente, specie nelle leggende, la ragazza non si rassegnava a perdere il suo amore, così cominciò a non mangiare più e a dar segni di squilibrio mentale, al punto da sembrare uscita di senno.
Il padre ricorse a ogni mezzo per riportare la figlia in buona salute, interpellò tutti i medici della valle e scese fino a Bergamo per consultarsi con i luminari di allora, ma non ottenne nessun risultato. Finalmente un giorno si presentò nella casa della fanciulla un medico che all’apparenza non dava particolari garanzie di professionalità, in quanto oltre che assai giovane era anche vestito in modo piuttosto dimesso e si esprimeva con un linguaggio non proprio all’altezza di un uomo di scienza.
Ma pur di salvare la figlia, il padre accettò anche le prescrizioni di quel mediconzolo che, per la verità, si mostrava assai sollecito e puntuale nel recarsi tutti i giorni a visitare la giovane paziente. Nell’incredulità generale, la ragazza cominciò come per incanto a migliorare: tornò a sorridere e a parlare, riprese a mangiare con gusto e in fretta le suo gote ridivennero rosee e pienotte. Sembrava di nuovo innamorata della vita. Ormai anche il più distratto dei lettori avrà intuito la vera identità di quell’improbabile medico e si sarà fatta un’idea della natura delle cure a cui era sottoposta la ragazza. Infatti egli altri non era se non il pastore che, approfittando dell’equivoco sulla sua identità, non passava giorno che non si incontrasse con la sua bella per trascorrere con lei momenti meravigliosi, coperti dalla scusa della riservatezza di una visita medica. Ma ovviamente il gioco non poteva protrarsi troppo a lungo e se i due innamorati fossero stati scoperti avrebbero pagato caro quell’inganno.
D’altronde essi non erano per nulla disposti a lasciare che le cose tornassero come prima, così decisero di scappare per cercare di coronare il loro sogno d’amore lontano dalla valle. Una notte, dopo aver preparato un fagotto con poche cose, lasciarono di nascosto il paese e, per evitare il rischio di essere scoperti, preferirono non scendere verso il fondovalle, ma scelsero di seguire la strada più difficile delle montagne, che il pastore conosceva bene perché vi portava le sue bestie al pascolo.
Di buona lena salirono lungo il sentiero della Val Borleggia e in fretta arrivarono al Piano delle Casere, ma quando si fermarono per riposare un attimo udirono il suono delle campane a martello proveniente dal campanile di Branzi: la loro fuga era stata scoperta e in paese si stavano organizzando per venire a riprenderli. Più disperati che mai, ripresero il cammino quasi di corsa, ma raggiunte le pendici del monte Farno, la ragazza, nel superare un tratto piuttosto impervio, mise un piede in fallo e scivolò.
Nella caduta batté la testa contro un sasso e rimase a terra svenuta. Il pastore, dopo aver cercato inutilmente di farla rinvenire, udendo in lontananza i richiami delle persone mandate alla loro ricerca, prese la ragazza tra le braccia e si mise a correre su per la montagna, incurante dei pericoli. Per il buio fitto il sentiero era quasi invisibile e così ad un certo punto, ormai allo stremo delle forze, il pastorello perse l’orientamento e si trovò a procedere in un luogo scosceso e impraticabile.
Ancora qualche passo incerto e poi una scivolata sui sassi di un ghiaione. E i due poveri innamorati precipitarono, stretti in un abbraccio estremo e disperato, fino al fondo di un precipizio. Nel luogo dove caddero i loro miseri corpi si aprirono due conche circolari dalle quali cominciarono a sgorgare due limpide polle d’acqua che, zampillando senza sosta, formarono due laghetti quasi della stessa forma e dimensione: i laghi Gemelli. Ai giorni nostri la costruzione della diga ha decisamente trasformato il paesaggio, ma volendo restare nella leggenda si potrebbe affermare che finalmente i laghetti dei due innamorati si sono fusi in uno solo, a coronare per sempre il loro sogno d’amore…