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Categoria: Leggende

Cani parlanti

Sono parecchi i racconti aventi per protagonisti cani feroci o mansueti, a seconda dei casi, che a un certo punto della storia si mettono a parlare lasciando di stucco i loro interlocutori. Quelli che seguono sono solo alcuni esempi di tale razza canina. Un boscaiolo di Alzano stava facendo ritorno a casa dopo una giornata di duro lavoro nei boschi di Gavarno. Camminava lentamente lungo la mulattiera rischiarata un poco dalla fievole luce della luna. Ad un tratto notò davanti a sè un cane bianco che scodinzolava e sembrava desideroso della sua compagnia. Alquanto sorpreso per quella inattesa apparizione, ma abbastanza tranquillo per l’atteggiamento tutt’altro che minaccioso dell’animale, il boscaiolo proseguì il cammino, mentre il nuovo venuto scorrazzava un po’ davanti e un po’ dietro a lui. Arrivato vicino a casa e visto che il cane non accennava ad andarsene, anzi sembrava averlo eletto a suo padrone, il viandante gli si avvicinò e allungò la mano con l’intenzione di accarezzarlo. Ma la sua sorpresa fu grande quando l’animale, arrestatosi di colpo e aperta la bocca, gli chiese: “Che cosa vuoi da me?”. Ciò detto, se ne sparì nel folto del bosco, lasciando il boscaiolo con il braccio ancora proteso in avanti, in preda a un comprensibile terrore. Riavutosi un poco, si precipitò verso casa, ma non ebbe la forza di raggiungerla e cadde svenuto in mezzo alla strada. Qui fu trovato qualche ora più tardi dai parenti, allarmati per il suo insolito ritardo.

Gli ci vollero un paio di mesi per ristabilirsi e dopo di allora il boscaiolo di Alzano non ebbe più il coraggio di passare da solo per quella strada. Anche la storia che segue, intitolata ol cagnì, e raccontata da un’anziana donna della media Valle Brembana, ha per protagonista un cane parlante il quale, a differenza degli altri, si rivela buono e incaricato di una missione di salvezza. La riportiamo nel dialetto dell’informatrice.

Öna ölta gh’era öna tusa che la gh’era öna madrégna catìa, che la ga ülìa miga be. Ü dé la madrégna la ga dis a sta tusa: “‘Ndèm che ‘n va ‘n dèl bosc a per ciclamini!”. Quande chi è stade ‘n dèl bosc, cola scüsa dè ‘nda a èt ü laùr, la madrégna l’a lagà la tusa dè per le e l’è scapàda a ca. La tusa, piena dè pura, l’a cimà töta la sìra e l’a sircà la strada per turnà a ca, ma sensa truàla. Quande l’è sta nòcc, l’a truà öna baita e la gh’è riàda a ‘nda dè dét e l’a cumincià a dormé. La matina la sét chi pica àla porta e töta spaentàda, la ‘a a èrs. ‘L gh’è dè fò ü cagnì, con d’ü fagutì ligà sö al còl, che ‘l ga dis: ” ‘L ma manda ol tò angel cüstòde dèl Paradìs, ta gh’é dè dé sö tre ave Marie che domà ‘l vé la Madona a töt, ‘n chesto fagutì gh’è ét öna fèta dè polénta, ü michét dè pà e ‘n po’ dè formài”. La matina dopo la sét chi ciàma fò dela baita, la ‘a a èt e la èt la Madona che la l’a istìda dè bianc, con d’ü nastro blö e la l’a portàda ‘n ciél.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Sono parecchi i racconti aventi per protagonisti cani feroci o mansueti, a seconda dei casi, che a un certo punto della storia si mettono a parlare lasciando di stucco i loro interlocutori. Quelli che seguono sono solo alcuni esempi di tale razza canina. Un boscaiolo di Alzano stava facendo ritorno a casa dopo una giornata di duro lavoro nei boschi di Gavarno. Camminava lentamente lungo la mulattiera rischiarata un poco dalla fievole luce della luna. Ad un tratto notò davanti a sè un cane bianco che scodinzolava e sembrava desideroso della sua compagnia. Alquanto sorpreso per quella inattesa apparizione, ma abbastanza tranquillo per l’atteggiamento tutt’altro che minaccioso dell’animale, il boscaiolo proseguì il cammino, mentre il nuovo venuto scorrazzava un po’ davanti e un po’ dietro a lui. Arrivato vicino a casa e visto che il cane non accennava ad andarsene, anzi sembrava averlo eletto a suo padrone, il viandante gli si avvicinò e allungò la mano con l’intenzione di accarezzarlo. Ma la sua sorpresa fu grande quando l’animale, arrestatosi di colpo e aperta la bocca, gli chiese: “Che cosa vuoi da me?”. Ciò detto, se ne sparì nel folto del bosco, lasciando il boscaiolo con il braccio ancora proteso in avanti, in preda a un comprensibile terrore. Riavutosi un poco, si precipitò verso casa, ma non ebbe la forza di raggiungerla e cadde svenuto in mezzo alla strada. Qui fu trovato qualche ora più tardi dai parenti, allarmati per il suo insolito ritardo.

Gli ci vollero un paio di mesi per ristabilirsi e dopo di allora il boscaiolo di Alzano non ebbe più il coraggio di passare da solo per quella strada. Anche la storia che segue, intitolata ol cagnì, e raccontata da un’anziana donna della media Valle Brembana, ha per protagonista un cane parlante il quale, a differenza degli altri, si rivela buono e incaricato di una missione di salvezza. La riportiamo nel dialetto dell’informatrice.

Öna ölta gh’era öna tusa che la gh’era öna madrégna catìa, che la ga ülìa miga be. Ü dé la madrégna la ga dis a sta tusa: “‘Ndèm che ‘n va ‘n dèl bosc a per ciclamini!”. Quande chi è stade ‘n dèl bosc, cola scüsa dè ‘nda a èt ü laùr, la madrégna l’a lagà la tusa dè per le e l’è scapàda a ca. La tusa, piena dè pura, l’a cimà töta la sìra e l’a sircà la strada per turnà a ca, ma sensa truàla. Quande l’è sta nòcc, l’a truà öna baita e la gh’è riàda a ‘nda dè dét e l’a cumincià a dormé. La matina la sét chi pica àla porta e töta spaentàda, la ‘a a èrs. ‘L gh’è dè fò ü cagnì, con d’ü fagutì ligà sö al còl, che ‘l ga dis: ” ‘L ma manda ol tò angel cüstòde dèl Paradìs, ta gh’é dè dé sö tre ave Marie che domà ‘l vé la Madona a töt, ‘n chesto fagutì gh’è ét öna fèta dè polénta, ü michét dè pà e ‘n po’ dè formài”. La matina dopo la sét chi ciàma fò dela baita, la ‘a a èt e la èt la Madona che la l’a istìda dè bianc, con d’ü nastro blö e la l’a portàda ‘n ciél.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

In cima al monte c’era una casa che stava in mezzo ad un prato. Pur essendo una bella casa, nessuno la voleva abitare perché già abitata: era la casa degli spiriti. Un inverno, una squadra di uomini che raccoglieva tronchi d’albero in quel luogo, giunti a sera dopo una giornata di lavoro, decisero di andare a dormire proprio in quella casa. Quando hanno aperto la porta, videro sotto il portico topi scappare, rospi saltare da ogni parte, ragni sul muro grossi come il pugno di una mano. Lasciati a terra i loro ferri, corde, scuri, zappe, gli uomini che non avevano paura alcuna, salirono le scale e arrivati al piano superiore, videro nella stanza volare pipistrelli e civette e cornacchie che facevano versi.

Ma la stanchezza era tale, che presa una bracciata di fieno per ciascuno e una coperta, si buttarono a terra e cominciarono a dormire. Giunta la mezzanotte, avvertono che la porta si apre e sentono entrare un gruppo di gente che fa rumore; gridano, piangono ed emettono suoni che non sembrano neppur essere di cristiani; e per di più s’accorgono che questa gente adopera i loro ferri per tagliare la scala di legno; e dopo poco le finestre e le porte cadono a pezzi, e tutto crolla finche’ alla fine rimane soltanto il tetto. Dopo questi fatti la paura ha incominciato a prender l’animo degli uomini e quando il più coraggioso della squadra ha tentato di alzarsi, sé sentito in dosso due mani fredde che gli impedivano di muoversi. Ma lui non convinto, ha fatto per scagliare uno scarpone contro quello che non vedeva: ma in quel momento stesso un manrovescio lo colpiva sui denti. Allora sbalordito e pieno di paura, anche quello che era ritenuto il più coraggioso di tutti, si è stretto vicino ai suoi compagni spaventato. Fra baccano e rumori, la notte non passava più.

Quando è venuto il giorno, tutto s’è quietato e gli uomini più morti che vivi, si sono alzati: con grande meraviglia hanno constatato che le scale le porte e le finestre e i loro ferri, erano tutti al loro posto. Gli uomini ripresero i loro arnesi e, usciti dalla casa, si sono messi a correre giù per il prato, finche’ hanno avuto fiato. Quando furono ben lontani, si voltarono per dare ancora un’occhiata a quella casa, ma con grande stupore s’accorsero che era sparita: al suo posto era rimasto un gran mucchio di spini. Ancor oggi quelli che passano da queste parti, vedono in mezzo al prato il cespuglio di spini e con terrore pensano alla casa degli spiriti.

La leggenda della Val d’Inferno (Ornica)

Una delle zone più frequentate dagli amanti della montagna è la Val d’Inferno, quella lunga e ripida distesa di boschi e pascoli che da Ornica sale fin verso il Pizzo dei Tre Signori. Un tempo la valle non aveva questo nome, ma si chiamava Val Fornasicchio, probabilmente per la presenza, nella sua parte più bassa, di forni e fucine per la lavorazione del minerale ferroso che si estraeva dalle miniere della zona. Il minerale, estratto a fatica dai minatori, veniva trasportato a Ornica a dorso di mulo e sottoposto a procedimento di fusione nei forni, per essere trasformato in verghe di metallo puro, pronte per la lavorazione nelle numerose fucine chiodarole del paese. Fu la presenza di tali impianti ad alimentare nella fantasia popolare l’accostamento dell’immagine del fuoco a quella dell’Inferno, luogo del fuoco per eccellenza. A tale concezione è legata anche una leggenda, per la verità alquanto ingenua, che ancora oggi si racconta a Ornica. Il più grosso di questi forni era gestito in epoca assai remota, da persone forestiere, forse della Valsassina, specialiste del mestiere, che si dedicavano senza sosta a ridurre il minerale in ferro puro.

Questi forestieri, narra la leggenda, non vedevano di buon occhio gli abitanti di Ornica, al punto che, ogni tanto, trovandosi a corto di legna o di carbone, non si facevano scrupolo di prendere qualche ornichese che passava da quelle parti e gettarlo vivo nella fornace per alimentare il fuoco. Una terribile paura assalì allora gli abitanti di Ornica che presero a chiamare quel luogo la “Valle d’Inferno”. Le prepotenze dei forestieri durarono a lungo finché, un bel giorno, i capifamiglia di Ornica, risoluti a porre fine a quelle crudeltà, si riunirono in assemblea e decisero di inviare tre loro rappresentanti a Venezia per chiedere aiuto al governo lagunare. Il viaggio dei tre delegati fu proficuo, infatti dopo un paio di mesi essi se ne tornarono a Ornica portando con sé un carro carico di archibugi e bombarde. Felici per il buon esito della missione, gli ornichesi costruirono un fortino in località Piazze, proprio dirimpetto al forno infernale, vi installarono le armi e rimasero in attesa. Non passò molto tempo che i forestieri si presentarono armati di tutto punto per dar corso alle solite prepotenze, ma questa volta trovarono pane per i loro denti: furono investiti da una valanga di fuoco che li distrusse assieme al loro impianto, facendo sparire in breve ogni cosa. Così del forno maledetto si sono perse le tracce, ma il nome dato alla Valle d’Inferno è rimasto fino ad oggi.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Una delle zone più frequentate dagli amanti della montagna è la Val d’Inferno, quella lunga e ripida distesa di boschi e pascoli che da Ornica sale fin verso il Pizzo dei Tre Signori. Un tempo la valle non aveva questo nome, ma si chiamava Val Fornasicchio, probabilmente per la presenza, nella sua parte più bassa, di forni e fucine per la lavorazione del minerale ferroso che si estraeva dalle miniere della zona. Il minerale, estratto a fatica dai minatori, veniva trasportato a Ornica a dorso di mulo e sottoposto a procedimento di fusione nei forni, per essere trasformato in verghe di metallo puro, pronte per la lavorazione nelle numerose fucine chiodarole del paese. Fu la presenza di tali impianti ad alimentare nella fantasia popolare l’accostamento dell’immagine del fuoco a quella dell’Inferno, luogo del fuoco per eccellenza. A tale concezione è legata anche una leggenda, per la verità alquanto ingenua, che ancora oggi si racconta a Ornica. Il più grosso di questi forni era gestito in epoca assai remota, da persone forestiere, forse della Valsassina, specialiste del mestiere, che si dedicavano senza sosta a ridurre il minerale in ferro puro.

Questi forestieri, narra la leggenda, non vedevano di buon occhio gli abitanti di Ornica, al punto che, ogni tanto, trovandosi a corto di legna o di carbone, non si facevano scrupolo di prendere qualche ornichese che passava da quelle parti e gettarlo vivo nella fornace per alimentare il fuoco. Una terribile paura assalì allora gli abitanti di Ornica che presero a chiamare quel luogo la “Valle d’Inferno”. Le prepotenze dei forestieri durarono a lungo finché, un bel giorno, i capifamiglia di Ornica, risoluti a porre fine a quelle crudeltà, si riunirono in assemblea e decisero di inviare tre loro rappresentanti a Venezia per chiedere aiuto al governo lagunare. Il viaggio dei tre delegati fu proficuo, infatti dopo un paio di mesi essi se ne tornarono a Ornica portando con sé un carro carico di archibugi e bombarde. Felici per il buon esito della missione, gli ornichesi costruirono un fortino in località Piazze, proprio dirimpetto al forno infernale, vi installarono le armi e rimasero in attesa. Non passò molto tempo che i forestieri si presentarono armati di tutto punto per dar corso alle solite prepotenze, ma questa volta trovarono pane per i loro denti: furono investiti da una valanga di fuoco che li distrusse assieme al loro impianto, facendo sparire in breve ogni cosa. Così del forno maledetto si sono perse le tracce, ma il nome dato alla Valle d’Inferno è rimasto fino ad oggi.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Nelle forre profonde della valletta di Poscante, dicono che vivesse una Maga. Queste forre profonde sono quelle che si vedono ancor oggi tra il Passo del Monte di Nese e Perello; ancor si vedono rocce e precipizi, in fondo ai quali c’era una grotta ampia, dove viveva questa Maga. Era una Maga che di notte si aggirava per le contrade e intorno ai casolari sparsi sui pendii. Era cattiva e quando vedeva bambini piccoli se li portava via e più nessuno li vedeva. Un uomo che tornava una sera sul tardi dalla sua stalla alla casa, incontra la Maga che portava sulle spalle un sacco.

Dentro il sacco c’era un bambino che piangeva. L’uomo si nascose ai margini della strada e lascia passare la Maga, si mette a seguirla di nascosto fino alla grotta dove lei viveva. La grotta era piena di bambini piccoli che piangevano e invocavano la mamma. Egli cerca di entrare per vedere meglio, ma si accorge che nella grotta c’è un mago. Era vicino al sacco dove c’era il bambino; il sacco era ancora legato; poi dice alla Maga: < sento odore di piccolo cristiano>, e la Maga risponde: “è bello e grassino e domani lo faremo cuocere come un maialino”. Il mago si frega le mani e continua: “e dopo ci leccheremo i baffi”.

Il mago sciolse il sacco; tira fuori il bambino e lo mette in una gabbia da solo; vicino c’era un altra gabbia con dentro altri bambini che i maghi tenevano per farli ingrassare perché erano troppo magri per essere mangiati. E per non farli scappare il mago aveva messo in dosso una coperta e aveva legato alla frangia tanti piccoli campanelli; così se loro si muovevano, i campanelli si mettevano a suonare, svegliando il mago dal suo sonno. L’uomo che ha visto e sentito tutto, coraggiosamente prende la sua decisione: si toglie la giacca, tira fuori dalla tasca il suo coltello e si mette a tagliare a piccoli pezzetti la sua giacca. Lascia andare a dormire il mago e la Maga, e si mette a otturare tutti i campanelli piano piano per non farli suonare. Poi taglia le corde che tenevano chiuse le gabbie e i bambini scappavano ad uno ad uno di corsa. Guidati da chissà quale istinto corrono a precipizio ciascuno alla propria casa. Arrivano davanti alle loro mamme e ai loro padri che erano disperati, ma quando vedono tornare i bambini di colpo sorridono e diventano tutti contenti.

La dòna del zöch

La donna del gioco è un personaggio che ha popolato la fantasia di intere generazioni di bergamaschi, imperversando un po’ dappertutto con i suoi scherzi impertinenti e i giochetti astuti con i quali si divertiva alle spalle dei malcapitati che avevano la sventura di incontrarla. I comportamenti e le azioni attribuite a questa fantasiosa creatura variano a seconda delle zone, ma alcuni aspetti del carattere e del portamento sono comuni a tutte le tradizioni che la riguardano. In genere, viene rappresentata come una figura alta e allampanata, quasi diafana, con i capelli costantemente arruffati, vestita di lunghe gonne nere e con uno scialle a larghe frange buttato alla meglio sulle spalle. Talvolta era accompagnata da una quarantina di cani bianchi o da sette gatti, ciascuno con appeso al collo un piccolo sonaglio. Poco avvezza ad agire alla luce del sole, si scatenava al primo apparire del crepuscolo e diventava la regina incontrastata della notte. Allora la sua vita si trasformava in un frenetico girovagare sopra i monti e le vallate più impervie, che risaliva con una agilità e una leggerezza da lasciare stupiti. E poi, dall’alto delle vette si allungava prodigiosamente fino al cielo, tentando di giocare con le stelle e di fare l’altalena con la falce della luna calante.

Era un continuo vagabondare in preda a un’indicibile inquietudine, mitigata da rare pause di moderato entusiasmo che esprimeva a modo suo, con sommessi gridolini e stridule risate. Si trasformava continuamente e si dilatava a dismisura, crescendo fino a perdersi nell’atmosfera. Non era facile osservarla, ma ai più mattinieri capitava a volte di notarla, quando le ombre della notte cedevano il passo alla tenue luce dell’aurora, mentre si apprestava a ritirarsi per riposare in attesa che il giorno ultimasse il suo turno. Quanto poi a rivolgerle la parola, nessuno se n’era mai azzardato, perché al temerario che avesse osato farlo sarebbe arrivato in testa un mastello di acqua gelida.

Questo fino a quando un nottambulo di Zorzone di Oltre il Colle, uscito dall’osteria sul far dell’alba, in preda a una solenne sbronza, si sentì rivolgere questa domanda a bruciapelo: “Per chi éla la nòcc?”. Erano parole uscite dalla bocca della dòna del zöch, le prime che un essere umano avesse avuto la ventura di ascoltare. L’ubriaco, reso ardimentoso dall’alcool, ebbe la prontezza di spirito di rispondere: “Per me, per te, per chi che i va miga ‘n tùren del dé!”. Quella risposta fu la sua salvezza, la misteriosa creatura se ne volò via sghignazzando, lasciando di stucco l’inebetito interlocutore che aveva corso il rischio di essere spinto e sbatacchiato per terra dopo aver ricevuto una buona dose di sonanti ceffoni e una valanga di improperi.

Ma sorte peggiore toccò a un tale di Serina, pure lui alquanto alticcio, che la incontrò nel bel mezzo di un ponticello alle prime luci del giorno: ritemprata dall’aura della notte, la donna del gioco era bellissima, tutta sfavillante in un vestito di pizzo e di veli finissimi e trasparenti che le dava un non so che di malizioso e seducente. Questa figura, così allettante e all’apparenza disponibile, fece inebriare ancor di più il buonuomo che pensò subito di correre ad abbracciarla per assaporarne il dolce tepore, ma appena si fu avvicinato, la strana creatura cominciò a crescere vertiginosamente, allungando le gambe, su su fino al cielo, diventando al contempo come l’aria, diafana e impalpabile.

Il malcapitato, che si era slanciato verso di lei a braccia tese, non poté fare altro che passarle sotto le gambe divaricate, in preda a un indicibile spavento, e poi scappar via, mentre la regina della notte se la rideva agitando a mo’ di mulinello un paiolo pieno di monete d’oro e lasciandone cadere ogni tanto una manciata sopra l’ignaro fuggitivo come fossero una preziosa grandinata. La dòna del zöch era dunque assai dispettosa, come ben sapevano le lavandaie che, quando si recavano alla fontana per fare il bucato, rischiavano di essere prese di mira dai suoi scherzi impertinenti. La si poteva incontrare infatti presso la fontana pubblica o in riva al torrente, in tutti quei posti dove le donne, affaccendate attorno ai mastelli pieni d’acqua, lavavano i loro modesti panni con le mani e con la lingua.

Non era raro che, mentre erano intente a tali operazioni, venissero improvvisamente investite da grandi spruzzi d’acqua e bagnate da capo a piedi, mentre l’aria risuonava di striduli risolini di soddisfazione. Capitava che qualche donna durante la notte lasciasse il suo mastello fuori dalla casa con il bucato in ammollo nella lisciva. Era un invito a nozze per la dòna del zöch: a ora tarda tutta la famiglia veniva svegliata da strani rumori, allora, con precauzione e con un certo timore, i mariti si affacciavano alla finestra, non di rado imbracciando un fucile. Ebbene, la dòna del zöch era lì, dentro il mastello, che lavava i suoi panni, sguazzando nell’acqua, felice come una bambina alle prese con il suo primo bucato. Guai ad importunarla! Avrebbe reagito come successe una volta a Zorzone, che distolta dalla sua occupazione, prese a calci il mastello con tale veemenza da farlo volare giù fino in fondo all’orrido della Val Parina.

A proposito di bucato, una donna di Oltre il Colle che doveva recarsi nottetempo a Serina, nell’attraversare un torrente, scorse una figura scura china sull’acqua, intenta a lavare la sua gonna nera. Mentre era incerta se proseguire la sua strada o chiedere a quella persona il perché della sua insolita presenza in quel luogo, si sentì rivolgere la solita domanda: “Per chi éla la nòcc?”. La donna, benchè spaventata, riuscì a risponderle: “Per me, per te, per chi che i va miga ‘n tùren del dé!”. Tanto bastò per placare la misteriosa creatura che si allontanò brontolando: “Fortüna che ta m’ l’è cüntàda giösta, perché se no, poarèta te!”.

Gli uomini la temevano e quando dovevano andare in giro la notte, fossero soli o in gruppo, non mancavano di recitare una preghiera per le anime del Purgatorio, però va detto che in cuor loro avevano un certo desiderio di incontrare quella donna così insolita e diversa dalle loro compagne, semplici e senza grilli per la testa. Una donna stramba ma che, diciamolo pure, a parte qualche burla pazzerella non aveva mai fatto del male a nessuno, anzi, forse quella sua impertinenza era frutto del desiderio inappagato di sfuggire alla solitudine alla quale era stata condannata senza speranza chissà da quanto tempo. Peccato che il frastuono della vita moderna ci abbia adesso tolto il gusto un po’ elettrizzante di incontrare quella creatura, così bella, così misteriosa.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La donna del gioco è un personaggio che ha popolato la fantasia di intere generazioni di bergamaschi, imperversando un po’ dappertutto con i suoi scherzi impertinenti e i giochetti astuti con i quali si divertiva alle spalle dei malcapitati che avevano la sventura di incontrarla. I comportamenti e le azioni attribuite a questa fantasiosa creatura variano a seconda delle zone, ma alcuni aspetti del carattere e del portamento sono comuni a tutte le tradizioni che la riguardano. In genere, viene rappresentata come una figura alta e allampanata, quasi diafana, con i capelli costantemente arruffati, vestita di lunghe gonne nere e con uno scialle a larghe frange buttato alla meglio sulle spalle. Talvolta era accompagnata da una quarantina di cani bianchi o da sette gatti, ciascuno con appeso al collo un piccolo sonaglio. Poco avvezza ad agire alla luce del sole, si scatenava al primo apparire del crepuscolo e diventava la regina incontrastata della notte. Allora la sua vita si trasformava in un frenetico girovagare sopra i monti e le vallate più impervie, che risaliva con una agilità e una leggerezza da lasciare stupiti. E poi, dall’alto delle vette si allungava prodigiosamente fino al cielo, tentando di giocare con le stelle e di fare l’altalena con la falce della luna calante.

Era un continuo vagabondare in preda a un’indicibile inquietudine, mitigata da rare pause di moderato entusiasmo che esprimeva a modo suo, con sommessi gridolini e stridule risate. Si trasformava continuamente e si dilatava a dismisura, crescendo fino a perdersi nell’atmosfera. Non era facile osservarla, ma ai più mattinieri capitava a volte di notarla, quando le ombre della notte cedevano il passo alla tenue luce dell’aurora, mentre si apprestava a ritirarsi per riposare in attesa che il giorno ultimasse il suo turno. Quanto poi a rivolgerle la parola, nessuno se n’era mai azzardato, perché al temerario che avesse osato farlo sarebbe arrivato in testa un mastello di acqua gelida.

Questo fino a quando un nottambulo di Zorzone di Oltre il Colle, uscito dall’osteria sul far dell’alba, in preda a una solenne sbronza, si sentì rivolgere questa domanda a bruciapelo: “Per chi éla la nòcc?”. Erano parole uscite dalla bocca della dòna del zöch, le prime che un essere umano avesse avuto la ventura di ascoltare. L’ubriaco, reso ardimentoso dall’alcool, ebbe la prontezza di spirito di rispondere: “Per me, per te, per chi che i va miga ‘n tùren del dé!”. Quella risposta fu la sua salvezza, la misteriosa creatura se ne volò via sghignazzando, lasciando di stucco l’inebetito interlocutore che aveva corso il rischio di essere spinto e sbatacchiato per terra dopo aver ricevuto una buona dose di sonanti ceffoni e una valanga di improperi.

Ma sorte peggiore toccò a un tale di Serina, pure lui alquanto alticcio, che la incontrò nel bel mezzo di un ponticello alle prime luci del giorno: ritemprata dall’aura della notte, la donna del gioco era bellissima, tutta sfavillante in un vestito di pizzo e di veli finissimi e trasparenti che le dava un non so che di malizioso e seducente. Questa figura, così allettante e all’apparenza disponibile, fece inebriare ancor di più il buonuomo che pensò subito di correre ad abbracciarla per assaporarne il dolce tepore, ma appena si fu avvicinato, la strana creatura cominciò a crescere vertiginosamente, allungando le gambe, su su fino al cielo, diventando al contempo come l’aria, diafana e impalpabile.

Il malcapitato, che si era slanciato verso di lei a braccia tese, non poté fare altro che passarle sotto le gambe divaricate, in preda a un indicibile spavento, e poi scappar via, mentre la regina della notte se la rideva agitando a mo’ di mulinello un paiolo pieno di monete d’oro e lasciandone cadere ogni tanto una manciata sopra l’ignaro fuggitivo come fossero una preziosa grandinata. La dòna del zöch era dunque assai dispettosa, come ben sapevano le lavandaie che, quando si recavano alla fontana per fare il bucato, rischiavano di essere prese di mira dai suoi scherzi impertinenti. La si poteva incontrare infatti presso la fontana pubblica o in riva al torrente, in tutti quei posti dove le donne, affaccendate attorno ai mastelli pieni d’acqua, lavavano i loro modesti panni con le mani e con la lingua.

Non era raro che, mentre erano intente a tali operazioni, venissero improvvisamente investite da grandi spruzzi d’acqua e bagnate da capo a piedi, mentre l’aria risuonava di striduli risolini di soddisfazione. Capitava che qualche donna durante la notte lasciasse il suo mastello fuori dalla casa con il bucato in ammollo nella lisciva. Era un invito a nozze per la dòna del zöch: a ora tarda tutta la famiglia veniva svegliata da strani rumori, allora, con precauzione e con un certo timore, i mariti si affacciavano alla finestra, non di rado imbracciando un fucile. Ebbene, la dòna del zöch era lì, dentro il mastello, che lavava i suoi panni, sguazzando nell’acqua, felice come una bambina alle prese con il suo primo bucato. Guai ad importunarla! Avrebbe reagito come successe una volta a Zorzone, che distolta dalla sua occupazione, prese a calci il mastello con tale veemenza da farlo volare giù fino in fondo all’orrido della Val Parina.

A proposito di bucato, una donna di Oltre il Colle che doveva recarsi nottetempo a Serina, nell’attraversare un torrente, scorse una figura scura china sull’acqua, intenta a lavare la sua gonna nera. Mentre era incerta se proseguire la sua strada o chiedere a quella persona il perché della sua insolita presenza in quel luogo, si sentì rivolgere la solita domanda: “Per chi éla la nòcc?”. La donna, benchè spaventata, riuscì a risponderle: “Per me, per te, per chi che i va miga ‘n tùren del dé!”. Tanto bastò per placare la misteriosa creatura che si allontanò brontolando: “Fortüna che ta m’ l’è cüntàda giösta, perché se no, poarèta te!”.

Gli uomini la temevano e quando dovevano andare in giro la notte, fossero soli o in gruppo, non mancavano di recitare una preghiera per le anime del Purgatorio, però va detto che in cuor loro avevano un certo desiderio di incontrare quella donna così insolita e diversa dalle loro compagne, semplici e senza grilli per la testa. Una donna stramba ma che, diciamolo pure, a parte qualche burla pazzerella non aveva mai fatto del male a nessuno, anzi, forse quella sua impertinenza era frutto del desiderio inappagato di sfuggire alla solitudine alla quale era stata condannata senza speranza chissà da quanto tempo. Peccato che il frastuono della vita moderna ci abbia adesso tolto il gusto un po’ elettrizzante di incontrare quella creatura, così bella, così misteriosa.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

In un’imprecisata valle bergamasca viveva un ragazzo di nome Giovannino o, per meglio dire, Gioanì. Era il figlio unico di una povera vedova che aveva perduto il marito, travolto da una catasta di legname mentre era intento al difficile e faticoso lavoro della fluitazione dei tronchi, lungo l’impetuoso corso del fiume. Mamma e figliolo abitavano in una casupola alquanto malandata, situata fuori paese, in prossimità di una verde valletta circondata da un fitto bosco di abeti. Questo era il regno del Gioanì che fin da piccolo aveva imparato ad amare la natura, adeguandosi ai suoi ritmi solenni e immutabili. Fattosi più grandicello, aveva trovato nella natura il sostentamento per sé e per la povera madre, alternando le cure del suo gregge allo stesso lavoro del boscaiolo che era stato del padre: una vita monotona, senza prospettive, se non quella di trovare, in paese o nel circondario, una ragazza semplice e operosa, disposta a condividere la fatica di una vita assai avara di consolazioni. Unico svago, qualche serata trascorsa nella piccola osteria del paese, a giocare a carte o alla morra con altri giovanotti, bere vino senza eccedere, al suono sommesso di una fisarmonica. Fu in una di queste serate che prese l’avvio la vicenda destinata a mutare per sempre la sua vita. Tra gli avventori nacque un’accesa discussione su un argomento assai di moda a quei tempi: l’esistenza di fantasmi, streghe e folletti che popolavano i boschi e le montagne della zona, terrorizzando nelle ore notturne quanti avevano la malaugurata idea di andarsene in giro da soli, magari con la coscienza non proprio tranquilla.

Il Gioanì, che in tutta la sua vita trascorsa a stretto contatto con la natura aveva imparato ad amarla e a considerarla come una sorella, sosteneva con forza di non aver mai incontrato nessuno di quegli strani esseri che avrebbero dovuto spaventarlo a morte ed era il più acceso sostenitore della loro inesistenza. “Töte bale di nos vècc chi ga cüntàa sö di storie de pura ai tusècc per tegnéi quècc! – andava dicendo con convinzione – Cos’éla pò sta pura? Me so egnì che g’o pura de nig e de négott!”. Dai e poi dai, la discussione si accese e il Gioanì si trovò ben presto solo a sostenere la propria tesi. E così ebbe contro tutti gli avventori. “Se davvero non hai paura – lo sfidò a un certo punto uno dei più accesi sostenitori della tesi contraria – perché non ce lo dimostri coi fatti? Scommettiamo che non sei capace di passare un’intera notte da solo in cima alla montagna?”. “Accetto la scommessa – fece il Gioanì – anzi, ci vado questa notte stessa e, per dimostrarvelo, quando arriverò in cima al vallone accenderò un falò e lo terrò acceso fino all’alba, così capirete che sono lassù, mentre voi sarete qui a farvela addosso!”. La posta della scommessa dovette essere alquanto alta, ma noi non la conosciamo. È certo invece che poco dopo il Gioanì, vuotato d’un fiato l’ultimo bicchiere, uscì dall’osteria accompagnato dai lazzi degli avventori e, avvolto nel suo scuro pastrano con in testa un cappellaccio dello stesso colore, si inoltrò nella notte, facendosi strada con la fioca luce di una lanterna a olio. Il cielo sereno di quella notte di fine inverno era un tripudio di stelle, le bianche vette delle montagne erano rischiarate dalla luce diafana della luna piena. L’aria fredda e umida sciolse in fretta tutti i fumi dell’alcol nel Gioanì che cominciò a provare una certa uggia per l’incertezza dell’impresa, avviata senza un minimo di riflessione, e si pentì di aver accettato la scommessa.

Per non far caso alle mostruose figure che gli alberi e gli spuntoni di roccia disegnavano intorno a lui per effetto della luce lunare, prese a salire verso la vetta quasi di corsa. Ben presto il suo respiro si fece veloce e ansimante, il suo corpo si riscaldò e cominciò a sudare leggermente. Ormai badava solo alla salita e provava un senso di soddisfazione nel rendersi conto della facilità con cui percorreva l’erto e stretto sentiero che lo stava portando in fretta verso la meta prescelta. Camminava da quasi due ore, ne ebbe conferma dai deboli rintocchi della mezzanotte provenienti dal campanile del suo paese. Individuata un’altura aperta sulla vallata, che pareva adatta a segnalare la sua presenza, decise di fermarsi, accatastò un piccolo fascio di legna secca che aveva raccolto nell’ultimo tratto di strada, poi se ne procurò dell’altra vagando tra le sterpaglie secche dei dintorni. Ci mise un bel po’ ad attizzare il fuoco, ma alla fine la fiamma si alzò, calda e scoppiettante. Vi dispose tutta la legna raccolta e si sedette su una pietra a gustarsi il tepore che placava in fretta il freddo pungente subentrato al sudore della salita. La fatica della lunga camminata, l’ora tarda e il caldo della fiamma ebbero ben presto il sopravvento sul Gioanì che si appisolò. Doveva essere passata almeno un’ora, quando gli parve di udire un debole suono di flauto. Aprì gli occhi e alla tenue fiamma che ancora avvolgeva la sterpaglia, scorse tre ragazze, avvolte in delicati indumenti colorati. Quella vestita di rosso, che gli parve la più graziosa, suonava il flauto e guidava le compagne in una leggera danza attorno al falò; quando passava davanti a lui, gli sorrideva, dolce e invitante. La scena andò avanti per alcuni minuti, poi, finita la melodia, le tre fanciulle svanirono nel buio, non prima però di aver rivolto un cortese inchino al giovane pastore.

Così almeno parve al Gioanì, perché dopo la visione si addormentò di nuovo e si svegliò quando ormai il sole stava spuntando dietro le montagne innevate. Il ricordo della visione gli si presentò subito nitido in ogni particolare. Non poteva essere stato un sogno. Tornato a casa, riprese le sue abituali occupazioni, ma l’immagine della ragazza non lo lasciava un minuto, il volto allegro, gli occhi vivaci, il sorriso pieno di promesse di quella leggiadra creatura erano stampati nella sua mente e riempivano le sue giornate e i suoi sogni. Così si decise a raccontare l’avventura alla madre, la quale, dopo averci riflettuto a lungo gli propose: “Perché non torni lassù una di queste notti? Forse la tua misteriosa ragazza potrebbe tornare. E se così fosse, attento a non fartela scappare, invitala a ballare, conoscila portala a casa”. Il Gioanì seguì il consiglio materno e quella notte stessa tornò sulla montagna, accese il falò e rimase in attesa. Ed ecco che, passata la mezzanotte, udì il suono del flauto che si avvicinava veloce e poi apparvero le tre ragazze che si misero a danzare attorno al fuoco. Allora si alzò e rivolse il saluto a quella che suonava il flauto. Questa si fermò, smise di suonare e gli sorrise. Poi passò il flauto alla compagna che la seguiva e porse il braccio al giovane e un po’ impacciato cavaliere, il quale dopo aver fatto un grande inchino la guidò in una delicata danza, a cui ne seguirono molte altre, finché i due giovani, dimentichi di tutto, si scoprirono follemente innamorati. E così, al mattino, quando le due damigelle se ne furono andate, la fanciulla rosso vestita non esitò a seguire il Gioanì fino a casa sua.

La storia potrebbe anche finire qui, ma per completezza d’informazione resta da dire che i due innamorati coronarono ben presto il loro sogno con un bel matrimonio a cui seguirono anni d’amore e uno stuolo di bambini. E vissero felici e contenti. Questo dicono i più, ma qualcuno, a cui sembra dispiacere che possano esistere delle persone pienamente felici, ha insinuato un’altra conclusione. Si mormora, infatti, che la felicità del Gioanì e della sua amata sia durata solo qualche anno, poi un brutto giorno, durante una vivace discussione, il marito avrebbe osato colpire con uno schiaffo la bella moglie. Non l’avesse mai fatto! La donna, indignata, se ne scappò di casa, corse su per la montagna e sparì per sempre. Lui, incapace di sopportare la sua mancanza e in preda al rimorso per averla offesa, la cercò a lungo per ogni dove, trascorrendo intere notti sul luogo dove l’aveva incontrata. Tutto inutile. E una notte, durante una della tante affannose ricerche, precipitò in un burrone e morì, invocando il nome dell’amata.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Ol Gioanì sénsa pura

In un’imprecisata valle bergamasca viveva un ragazzo di nome Giovannino o, per meglio dire, Gioanì. Era il figlio unico di una povera vedova che aveva perduto il marito, travolto da una catasta di legname mentre era intento al difficile e faticoso lavoro della fluitazione dei tronchi, lungo l’impetuoso corso del fiume. Mamma e figliolo abitavano in una casupola alquanto malandata, situata fuori paese, in prossimità di una verde valletta circondata da un fitto bosco di abeti. Questo era il regno del Gioanì che fin da piccolo aveva imparato ad amare la natura, adeguandosi ai suoi ritmi solenni e immutabili. Fattosi più grandicello, aveva trovato nella natura il sostentamento per sé e per la povera madre, alternando le cure del suo gregge allo stesso lavoro del boscaiolo che era stato del padre: una vita monotona, senza prospettive, se non quella di trovare, in paese o nel circondario, una ragazza semplice e operosa, disposta a condividere la fatica di una vita assai avara di consolazioni. Unico svago, qualche serata trascorsa nella piccola osteria del paese, a giocare a carte o alla morra con altri giovanotti, bere vino senza eccedere, al suono sommesso di una fisarmonica. Fu in una di queste serate che prese l’avvio la vicenda destinata a mutare per sempre la sua vita. Tra gli avventori nacque un’accesa discussione su un argomento assai di moda a quei tempi: l’esistenza di fantasmi, streghe e folletti che popolavano i boschi e le montagne della zona, terrorizzando nelle ore notturne quanti avevano la malaugurata idea di andarsene in giro da soli, magari con la coscienza non proprio tranquilla.

Il Gioanì, che in tutta la sua vita trascorsa a stretto contatto con la natura aveva imparato ad amarla e a considerarla come una sorella, sosteneva con forza di non aver mai incontrato nessuno di quegli strani esseri che avrebbero dovuto spaventarlo a morte ed era il più acceso sostenitore della loro inesistenza. “Töte bale di nos vècc chi ga cüntàa sö di storie de pura ai tusècc per tegnéi quècc! – andava dicendo con convinzione – Cos’éla pò sta pura? Me so egnì che g’o pura de nig e de négott!”. Dai e poi dai, la discussione si accese e il Gioanì si trovò ben presto solo a sostenere la propria tesi. E così ebbe contro tutti gli avventori. “Se davvero non hai paura – lo sfidò a un certo punto uno dei più accesi sostenitori della tesi contraria – perché non ce lo dimostri coi fatti? Scommettiamo che non sei capace di passare un’intera notte da solo in cima alla montagna?”. “Accetto la scommessa – fece il Gioanì – anzi, ci vado questa notte stessa e, per dimostrarvelo, quando arriverò in cima al vallone accenderò un falò e lo terrò acceso fino all’alba, così capirete che sono lassù, mentre voi sarete qui a farvela addosso!”. La posta della scommessa dovette essere alquanto alta, ma noi non la conosciamo. È certo invece che poco dopo il Gioanì, vuotato d’un fiato l’ultimo bicchiere, uscì dall’osteria accompagnato dai lazzi degli avventori e, avvolto nel suo scuro pastrano con in testa un cappellaccio dello stesso colore, si inoltrò nella notte, facendosi strada con la fioca luce di una lanterna a olio. Il cielo sereno di quella notte di fine inverno era un tripudio di stelle, le bianche vette delle montagne erano rischiarate dalla luce diafana della luna piena. L’aria fredda e umida sciolse in fretta tutti i fumi dell’alcol nel Gioanì che cominciò a provare una certa uggia per l’incertezza dell’impresa, avviata senza un minimo di riflessione, e si pentì di aver accettato la scommessa.

Per non far caso alle mostruose figure che gli alberi e gli spuntoni di roccia disegnavano intorno a lui per effetto della luce lunare, prese a salire verso la vetta quasi di corsa. Ben presto il suo respiro si fece veloce e ansimante, il suo corpo si riscaldò e cominciò a sudare leggermente. Ormai badava solo alla salita e provava un senso di soddisfazione nel rendersi conto della facilità con cui percorreva l’erto e stretto sentiero che lo stava portando in fretta verso la meta prescelta. Camminava da quasi due ore, ne ebbe conferma dai deboli rintocchi della mezzanotte provenienti dal campanile del suo paese. Individuata un’altura aperta sulla vallata, che pareva adatta a segnalare la sua presenza, decise di fermarsi, accatastò un piccolo fascio di legna secca che aveva raccolto nell’ultimo tratto di strada, poi se ne procurò dell’altra vagando tra le sterpaglie secche dei dintorni. Ci mise un bel po’ ad attizzare il fuoco, ma alla fine la fiamma si alzò, calda e scoppiettante. Vi dispose tutta la legna raccolta e si sedette su una pietra a gustarsi il tepore che placava in fretta il freddo pungente subentrato al sudore della salita. La fatica della lunga camminata, l’ora tarda e il caldo della fiamma ebbero ben presto il sopravvento sul Gioanì che si appisolò. Doveva essere passata almeno un’ora, quando gli parve di udire un debole suono di flauto. Aprì gli occhi e alla tenue fiamma che ancora avvolgeva la sterpaglia, scorse tre ragazze, avvolte in delicati indumenti colorati. Quella vestita di rosso, che gli parve la più graziosa, suonava il flauto e guidava le compagne in una leggera danza attorno al falò; quando passava davanti a lui, gli sorrideva, dolce e invitante. La scena andò avanti per alcuni minuti, poi, finita la melodia, le tre fanciulle svanirono nel buio, non prima però di aver rivolto un cortese inchino al giovane pastore.

Così almeno parve al Gioanì, perché dopo la visione si addormentò di nuovo e si svegliò quando ormai il sole stava spuntando dietro le montagne innevate. Il ricordo della visione gli si presentò subito nitido in ogni particolare. Non poteva essere stato un sogno. Tornato a casa, riprese le sue abituali occupazioni, ma l’immagine della ragazza non lo lasciava un minuto, il volto allegro, gli occhi vivaci, il sorriso pieno di promesse di quella leggiadra creatura erano stampati nella sua mente e riempivano le sue giornate e i suoi sogni. Così si decise a raccontare l’avventura alla madre, la quale, dopo averci riflettuto a lungo gli propose: “Perché non torni lassù una di queste notti? Forse la tua misteriosa ragazza potrebbe tornare. E se così fosse, attento a non fartela scappare, invitala a ballare, conoscila portala a casa”. Il Gioanì seguì il consiglio materno e quella notte stessa tornò sulla montagna, accese il falò e rimase in attesa. Ed ecco che, passata la mezzanotte, udì il suono del flauto che si avvicinava veloce e poi apparvero le tre ragazze che si misero a danzare attorno al fuoco. Allora si alzò e rivolse il saluto a quella che suonava il flauto. Questa si fermò, smise di suonare e gli sorrise. Poi passò il flauto alla compagna che la seguiva e porse il braccio al giovane e un po’ impacciato cavaliere, il quale dopo aver fatto un grande inchino la guidò in una delicata danza, a cui ne seguirono molte altre, finché i due giovani, dimentichi di tutto, si scoprirono follemente innamorati. E così, al mattino, quando le due damigelle se ne furono andate, la fanciulla rosso vestita non esitò a seguire il Gioanì fino a casa sua.

La storia potrebbe anche finire qui, ma per completezza d’informazione resta da dire che i due innamorati coronarono ben presto il loro sogno con un bel matrimonio a cui seguirono anni d’amore e uno stuolo di bambini. E vissero felici e contenti. Questo dicono i più, ma qualcuno, a cui sembra dispiacere che possano esistere delle persone pienamente felici, ha insinuato un’altra conclusione. Si mormora, infatti, che la felicità del Gioanì e della sua amata sia durata solo qualche anno, poi un brutto giorno, durante una vivace discussione, il marito avrebbe osato colpire con uno schiaffo la bella moglie. Non l’avesse mai fatto! La donna, indignata, se ne scappò di casa, corse su per la montagna e sparì per sempre. Lui, incapace di sopportare la sua mancanza e in preda al rimorso per averla offesa, la cercò a lungo per ogni dove, trascorrendo intere notti sul luogo dove l’aveva incontrata. Tutto inutile. E una notte, durante una della tante affannose ricerche, precipitò in un burrone e morì, invocando il nome dell’amata.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

In un’imprecisata valle bergamasca viveva un ragazzo di nome Giovannino o, per meglio dire, Gioanì. Era il figlio unico di una povera vedova che aveva perduto il marito, travolto da una catasta di legname mentre era intento al difficile e faticoso lavoro della fluitazione dei tronchi, lungo l’impetuoso corso del fiume. Mamma e figliolo abitavano in una casupola alquanto malandata, situata fuori paese, in prossimità di una verde valletta circondata da un fitto bosco di abeti. Questo era il regno del Gioanì che fin da piccolo aveva imparato ad amare la natura, adeguandosi ai suoi ritmi solenni e immutabili. Fattosi più grandicello, aveva trovato nella natura il sostentamento per sé e per la povera madre, alternando le cure del suo gregge allo stesso lavoro del boscaiolo che era stato del padre: una vita monotona, senza prospettive, se non quella di trovare, in paese o nel circondario, una ragazza semplice e operosa, disposta a condividere la fatica di una vita assai avara di consolazioni. Unico svago, qualche serata trascorsa nella piccola osteria del paese, a giocare a carte o alla morra con altri giovanotti, bere vino senza eccedere, al suono sommesso di una fisarmonica. Fu in una di queste serate che prese l’avvio la vicenda destinata a mutare per sempre la sua vita. Tra gli avventori nacque un’accesa discussione su un argomento assai di moda a quei tempi: l’esistenza di fantasmi, streghe e folletti che popolavano i boschi e le montagne della zona, terrorizzando nelle ore notturne quanti avevano la malaugurata idea di andarsene in giro da soli, magari con la coscienza non proprio tranquilla.

Il Gioanì, che in tutta la sua vita trascorsa a stretto contatto con la natura aveva imparato ad amarla e a considerarla come una sorella, sosteneva con forza di non aver mai incontrato nessuno di quegli strani esseri che avrebbero dovuto spaventarlo a morte ed era il più acceso sostenitore della loro inesistenza. “Töte bale di nos vècc chi ga cüntàa sö di storie de pura ai tusècc per tegnéi quècc! – andava dicendo con convinzione – Cos’éla pò sta pura? Me so egnì che g’o pura de nig e de négott!”. Dai e poi dai, la discussione si accese e il Gioanì si trovò ben presto solo a sostenere la propria tesi. E così ebbe contro tutti gli avventori. “Se davvero non hai paura – lo sfidò a un certo punto uno dei più accesi sostenitori della tesi contraria – perché non ce lo dimostri coi fatti? Scommettiamo che non sei capace di passare un’intera notte da solo in cima alla montagna?”. “Accetto la scommessa – fece il Gioanì – anzi, ci vado questa notte stessa e, per dimostrarvelo, quando arriverò in cima al vallone accenderò un falò e lo terrò acceso fino all’alba, così capirete che sono lassù, mentre voi sarete qui a farvela addosso!”. La posta della scommessa dovette essere alquanto alta, ma noi non la conosciamo. È certo invece che poco dopo il Gioanì, vuotato d’un fiato l’ultimo bicchiere, uscì dall’osteria accompagnato dai lazzi degli avventori e, avvolto nel suo scuro pastrano con in testa un cappellaccio dello stesso colore, si inoltrò nella notte, facendosi strada con la fioca luce di una lanterna a olio. Il cielo sereno di quella notte di fine inverno era un tripudio di stelle, le bianche vette delle montagne erano rischiarate dalla luce diafana della luna piena. L’aria fredda e umida sciolse in fretta tutti i fumi dell’alcol nel Gioanì che cominciò a provare una certa uggia per l’incertezza dell’impresa, avviata senza un minimo di riflessione, e si pentì di aver accettato la scommessa.

Per non far caso alle mostruose figure che gli alberi e gli spuntoni di roccia disegnavano intorno a lui per effetto della luce lunare, prese a salire verso la vetta quasi di corsa. Ben presto il suo respiro si fece veloce e ansimante, il suo corpo si riscaldò e cominciò a sudare leggermente. Ormai badava solo alla salita e provava un senso di soddisfazione nel rendersi conto della facilità con cui percorreva l’erto e stretto sentiero che lo stava portando in fretta verso la meta prescelta. Camminava da quasi due ore, ne ebbe conferma dai deboli rintocchi della mezzanotte provenienti dal campanile del suo paese. Individuata un’altura aperta sulla vallata, che pareva adatta a segnalare la sua presenza, decise di fermarsi, accatastò un piccolo fascio di legna secca che aveva raccolto nell’ultimo tratto di strada, poi se ne procurò dell’altra vagando tra le sterpaglie secche dei dintorni. Ci mise un bel po’ ad attizzare il fuoco, ma alla fine la fiamma si alzò, calda e scoppiettante. Vi dispose tutta la legna raccolta e si sedette su una pietra a gustarsi il tepore che placava in fretta il freddo pungente subentrato al sudore della salita. La fatica della lunga camminata, l’ora tarda e il caldo della fiamma ebbero ben presto il sopravvento sul Gioanì che si appisolò. Doveva essere passata almeno un’ora, quando gli parve di udire un debole suono di flauto. Aprì gli occhi e alla tenue fiamma che ancora avvolgeva la sterpaglia, scorse tre ragazze, avvolte in delicati indumenti colorati. Quella vestita di rosso, che gli parve la più graziosa, suonava il flauto e guidava le compagne in una leggera danza attorno al falò; quando passava davanti a lui, gli sorrideva, dolce e invitante. La scena andò avanti per alcuni minuti, poi, finita la melodia, le tre fanciulle svanirono nel buio, non prima però di aver rivolto un cortese inchino al giovane pastore.

Così almeno parve al Gioanì, perché dopo la visione si addormentò di nuovo e si svegliò quando ormai il sole stava spuntando dietro le montagne innevate. Il ricordo della visione gli si presentò subito nitido in ogni particolare. Non poteva essere stato un sogno. Tornato a casa, riprese le sue abituali occupazioni, ma l’immagine della ragazza non lo lasciava un minuto, il volto allegro, gli occhi vivaci, il sorriso pieno di promesse di quella leggiadra creatura erano stampati nella sua mente e riempivano le sue giornate e i suoi sogni. Così si decise a raccontare l’avventura alla madre, la quale, dopo averci riflettuto a lungo gli propose: “Perché non torni lassù una di queste notti? Forse la tua misteriosa ragazza potrebbe tornare. E se così fosse, attento a non fartela scappare, invitala a ballare, conoscila portala a casa”. Il Gioanì seguì il consiglio materno e quella notte stessa tornò sulla montagna, accese il falò e rimase in attesa. Ed ecco che, passata la mezzanotte, udì il suono del flauto che si avvicinava veloce e poi apparvero le tre ragazze che si misero a danzare attorno al fuoco. Allora si alzò e rivolse il saluto a quella che suonava il flauto. Questa si fermò, smise di suonare e gli sorrise. Poi passò il flauto alla compagna che la seguiva e porse il braccio al giovane e un po’ impacciato cavaliere, il quale dopo aver fatto un grande inchino la guidò in una delicata danza, a cui ne seguirono molte altre, finché i due giovani, dimentichi di tutto, si scoprirono follemente innamorati. E così, al mattino, quando le due damigelle se ne furono andate, la fanciulla rosso vestita non esitò a seguire il Gioanì fino a casa sua.

La storia potrebbe anche finire qui, ma per completezza d’informazione resta da dire che i due innamorati coronarono ben presto il loro sogno con un bel matrimonio a cui seguirono anni d’amore e uno stuolo di bambini. E vissero felici e contenti. Questo dicono i più, ma qualcuno, a cui sembra dispiacere che possano esistere delle persone pienamente felici, ha insinuato un’altra conclusione. Si mormora, infatti, che la felicità del Gioanì e della sua amata sia durata solo qualche anno, poi un brutto giorno, durante una vivace discussione, il marito avrebbe osato colpire con uno schiaffo la bella moglie. Non l’avesse mai fatto! La donna, indignata, se ne scappò di casa, corse su per la montagna e sparì per sempre. Lui, incapace di sopportare la sua mancanza e in preda al rimorso per averla offesa, la cercò a lungo per ogni dove, trascorrendo intere notti sul luogo dove l’aveva incontrata. Tutto inutile. E una notte, durante una della tante affannose ricerche, precipitò in un burrone e morì, invocando il nome dell’amata.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Ai nostri giorni ci pensa la televisione a riempire le serate di racconti più o meno avvincenti e intriganti, non per questo è venuta meno la predisposizione della gente comune a dar vita a suggestioni collettive che fanno capolino qua e là nei modi più impensati. Si tratta, ad esempio, delle famose leggende metropolitane, trasposizione moderna delle incredibili vicende di una volta, che prendono corpo, anche e soprattutto negli ambienti giovanili, e si alimentano sull’onda del passaparola, finendo talvolta per acquistare un’improbabile quanto effimera veridicità. Non estranea a queste tendenze è la Valle Brembana, dove pure si assiste con sorpresa al riproporsi di questi temi cari alle generazioni passate.

E’ il caso, ad esempio, della leggenda dell’autostoppista fantasma che circola da tempo tra i giovani della valle ed ora è di dominio pubblico, anche per merito della professoressa Stefania Fumagalli che ne ha fatto oggetto di un interessante studio antropologico. La serata non era stata delle più elettrizzanti. Il disk jockey dello Snoopy di Serina ce l’aveva messa tutta per tenere alta l’atmosfera, ma la musica, le luci e gli amici non erano riusciti a dargli la solita carica e così Luca, superata da un bel po’ la mezzanotte, si era deciso di lasciare la compagnia e tornarsene a casa a smaltire il sonno arretrato, anche perché il pomeriggio del giorno dopo l’attendeva una impegnativa gara di atletica, in vista della quale si era preparato ben bene per tutta la settimana. Vuotò il bicchiere di birra, salutò gli amici e uscì all’aperto, respirando di gusto l’aria fresca e umida della notte. Raggiunse la sua piccola auto sportiva, mise in moto e uscì dal parcheggio, districandosi non senza difficoltà nella selva di veicoli parcheggiati alla rinfusa. Fu allora che scorse sul margine della strada la figura minuta di una ragazza che col braccio teso chiedeva un passaggio.

Doveva essere uscita da poco dalla discoteca, per quanto il suo abbigliamento, una giacchetta bianca attillata e una gonnellina blu a pieghe, lunga fino al ginocchio e di taglio piuttosto antiquato, apparisse poco intonato con la moda degli abituali frequentatori del locale, decisamente sul casual e con tonalità in prevalenza scure e poco appariscenti. Come era sua abitudine, alla vista dell’autostoppista, Luca bloccò l’automobile, che stridette sulla sabbia del ciglio stradale. “Vuoi un passaggio?” chiese abbassando il finestrino di destra. “Mi porti fino a Zogno?” annuì la ragazza con voce incolore, aprendo la portiera e accomodandosi sul sedile. “Ciao, sono Luca” fece lui, ripartendo di gran carriera. “Cristina” biascicò la ragazza, sistemandosi i capelli con le mani “Eri allo Snoopy? Non ti ho notato in tutta la serata”. “Per la verità sono stata seduta in un angolo tutta la serata. Sempre la stessa musica, monotona e assordante. E poi ho dovuto tenere a bada un rompiscatole che mi ha importunata fin dall’inizio”. “Hai ragione, la musica che passa qui non è il massimo. Sempre la solita storia, è per questo che ci vengo di rado.

A me piace ben altro”. Così dicendo accese lo stereo e subito l’abitacolo fu inondato dalle note limpide e cristalline dell’ultimo disco di Vasco Rossi. “Che ne dici?” chiese il ragazzo alzando un po’ il volume e canticchiando il motivo sopra la voce roca del cantautore. “Mai sentita” rispose la ragazza assorta in chissà quali pensieri. L’automobile procedeva veloce lungo i tornanti e le strettoie della Val Serina. Erano quasi arrivati nell’orrido di Bracca e i fanali illuminavano le alte e nere pareti strapiombanti sulla strada, conferendo alla roccia un aspetto inquietante. “Non mi sembra di averti mai vista. Sei di Zogno? – riprese Luca con la vaga intenzione di imbastire con la ragazza una parvenza di dialogo – non ti ho mai notata nemmeno a scuola. Io sono stato fino all’anno scorso a Camanghé”.

“Anch’io ho frequentato quella scuola per un po’, ma adesso manco dalla valle da parecchio tempo” rispose stancamente la ragazza, dando a vedere che non aveva la minima intenzione di continuare la conversazione. L’automobile uscì dall’orrido e imboccò rombando il rettilineo antistante lo stabilimento della Fonte Bracca. “Lasciami qui – fece all’improvviso la ragazza – sono arrivata”. Luca accostò l’auto al marciapiedi e si fermò, ma non poté fare a meno di manifestare la propria sorpresa: in quella zona, a parte lo stabilimento, non c’erano costruzioni, nessuna casa d’abitazione, lui lo sapeva bene, perché ci aveva lavorato, alla Bracca, per un paio di estati, tra un anno scolastico e l’altro. Nessun altro edificio, salvo il piccolo cimitero di Ambria, quasi soffocato dall’impianto industriale. “Ma dove abiti? Qui non ci sono case. Non è che ti sei sbagliata?”. “Ciao, buona notte” fece la ragazza per tutta risposta, scendendo dall’auto con un sospiro e accostando stancamente la portiera. “Ma vai al Diavolo!” mormorò tra sé Luca, ripartendo come un razzo e dando volume al suo Clarion che lo ripagò con le superbe note del concerto di Imola di Vasco. Dovette ripensare a quello strano incontro la mattina del giorno dopo, quando tirò fuori l’auto dal box per andare in paese.

Notò infatti che da sotto sedile laterale sporgevano i manici di una piccola borsetta nera, certamente dimenticata dalla ragazza della sera prima. Per niente entusiasta della prospettiva di dover consegnare la borsetta alla legittima proprietaria, cercò tra gli oggetti che vi erano contenuti i documenti, li trovò e così poté risalire all’identità e al domicilio della ragazza. Ma quello che vide sulla carta di identità non mancò di sorprenderlo un’altra volta: Cristina era nata il 10 agosto 1965, aveva quindi trentaquattro anni e questo gli sembrava incomprensibile, dato che all’apparenza la ragazza ne dimostrava a malapena venti. Con fastidio ripose i documenti nella borsetta, la gettò in malo modo sul sedile della vettura, mise in moto, uscì dal box e partì con la sua solita irruenza, suscitando l’immancabile commento isterico della madre che dal terrazzo aveva osservato i suoi movimenti, ma non aveva avuto il tempo di chiedere spiegazioni e informarsi sul perché di quella improvvisa partenza, né tanto meno di somministrare al figlio le solite, inascoltate, raccomandazioni alla prudenza. Pochi minuti dopo l’auto si arrestò davanti a una villetta unifamiliare di Ambria, circondata da un bel giardino delimitato da una bassa inferriata. Luca scese dall’auto tenendo in mano la borsetta, si diresse verso il cancello, premette il pulsante del citofono e rimase in attesa. Dopo un attimo si affacciò alla porta una donna di bassa statura, dalla folta capigliatura brizzolata e dall’aria interrogativa. “Buongiorno, signora, abita qui Cristina? Ieri sera mi ha chiesto un passaggio e ha dimenticato la borsetta sulla mia macchina, eccola, gliel’ho riportata”.

“Arda che me gh’o miga òia de schersà! Va’ a ca tò, vilàno, e laga sta la me tusa”. Questa fu la risposta risentita e angosciata della donna che subito rientrò in casa sbattendo la porta. Convinto di essere incappato in una famiglia di matti, ma comunque desideroso di chiudere questa faccenda, Luca premette di nuovo e a lungo il pulsante. Questa volta apparvero sul pianerottolo due uomini, uno magro, sulla sessantina, certamente il marito della donna di prima, e l’altro giovane e robusto, probabilmente il figlio. I due raggiunsero quasi correndo il cancello, l’aprirono e si avvicinarono con fare minaccioso a Luca. “De che banda ègnela chèla bursèta? Famla ‘mpó èt a me!” chiese bruscamente quello che sembrava il padre. Luca, alquanto preoccupato per la piega che stava prendendo quello strano incontro, fece del suo meglio per apparire credibile e raccontò come la sera precedente avesse dato un passaggio a una ragazza di nome Cristina, descrivendone meticolosamente l’aspetto e l’abbigliamento e come costei si fosse poi bruscamente congedata all’altezza del cimitero di Ambria senza dare spiegazioni, infine mostrò la borsetta dimenticata in macchina.

“Io sono venuto solo per restituire la borsetta e ho dovuto aprirla per trovare l’indirizzo di quella che penso sia vostra figlia, chiedete a lei se non è vero. Ecco, prendete – proseguì porgendo la borsetta all’uomo più anziano – verificate che non manchi niente”. “Mi ricordo che aveva una borsetta come questa – singhiozzò la madre che nel frattempo si era avvicinata ai tre ed era rimasta ad ascoltare in silenzio il racconto di Luca – ma non può essere sua, comunque la ragazza non poteva certo essere la mia Cristina”. Poi prese la borsetta dalle mani del marito e cominciò a rovistarne affannosamente il contenuto, quindi, trovata la carta d’identità, la aprì con le mani tremanti per l’emozione. Impallidì e quasi perse l’equilibrio, poi, appoggiandosi al marito, esclamò con un filo di voce: “Madóna me, l’è pròpe le Arda ‘n po a’ te. Com’el pusìbel se la me Cristina l’è morta quìndes àgn fa?”. E così Luca venne a sapere che la misteriosa ragazza era morta quindici anni prima in un incidente stradale, verificatosi proprio all’uscita dell’orrido di Bracca, mentre stava rincasando in autostop dopo una serata trascorsa nella discoteca Snoopy di Serina. E la sua tomba era nel piccolo cimitero davanti al quale aveva chiesto di scendere dall’auto.

 

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La leggenda dei Laghi Gemelli

Quando i Laghi Gemelli erano proprio gemelli, cioè due limpidi specchi d’acqua circondati da una corona di montagne, appena separati da una stretta lingua di terra, e non erano ancora stati fusi in un solo bacino dalle impellenti esigenze del progresso, attorno alla loro origine sorse una leggenda che per la verità è assai triste, ma forse rispecchia la realtà dei tempi in cui è scaturita dalla fantasia popolare. Si racconta che la figlia di un ricco possidente di Branzi era innamorata di un pastore della Valle Taleggio, dal quale era teneramente ricambiata.

Il loro amore era però risolutamente ostacolato dalla famiglia della ragazza che avrebbe preferito per lei un partito migliore di quanto non costituisse quel modesto pastore, costretto ogni anno ad andare in cerca di lavoro, accudendo a pecore e capre che si faceva affidare da allevatori della zona per portarle a pascolare sulle montagne dell’alta Valle Brembana.

La ragazza era stata da tempo promessa dal padre a un proprietario di fucine della Val Fondra, piuttosto attempato e per nulla piacente, ma assai ricco e influente nella vita politica ed economica della zona. Come si sa, in queste faccende nemmeno le lacrime più strazianti e le suppliche più insistenti possono sortire un qualche effetto, e così l’infelice ragazza, dopo aver inutilmente dato fondo a tutte le sue risorse di convincimento, dovette prendere atto, con il più grande sconforto, che il suo destino era segnato e la condannava a passare il resto della sua vita accanto ad un uomo che non amava e non avrebbe mai amato. Così, mentre si avvicinava il giorno delle nozze, fissate in tutta fretta proprio per togliere di mezzo ogni possibile interferenza nei programmi prestabiliti, l’infelice ragazza trascinava stancamente le sue giornate, monotone e senza speranza, tutta sola, chiusa nella sua cameretta, con le mani abbandonate in grembo e gli occhi persi nello spazio indefinito, sospirando l’amore impossibile per il suo bel pastorello.

Costui nel frattempo si trovava sui monti col suo gregge ed era ben consapevole dei progetti che riguardavano la sua amata, dai quali era stato. drasticamente escluso con la perentoria minaccia di non farsi più vedere dalle parti di Branzi, se ci teneva alla vita. Ma come accade sovente, specie nelle leggende, la ragazza non si rassegnava a perdere il suo amore, così cominciò a non mangiare più e a dar segni di squilibrio mentale, al punto da sembrare uscita di senno.

Il padre ricorse a ogni mezzo per riportare la figlia in buona salute, interpellò tutti i medici della valle e scese fino a Bergamo per consultarsi con i luminari di allora, ma non ottenne nessun risultato. Finalmente un giorno si presentò nella casa della fanciulla un medico che all’apparenza non dava particolari garanzie di professionalità, in quanto oltre che assai giovane era anche vestito in modo piuttosto dimesso e si esprimeva con un linguaggio non proprio all’altezza di un uomo di scienza.

Ma pur di salvare la figlia, il padre accettò anche le prescrizioni di quel mediconzolo che, per la verità, si mostrava assai sollecito e puntuale nel recarsi tutti i giorni a visitare la giovane paziente. Nell’incredulità generale, la ragazza cominciò come per incanto a migliorare: tornò a sorridere e a parlare, riprese a mangiare con gusto e in fretta le suo gote ridivennero rosee e pienotte. Sembrava di nuovo innamorata della vita. Ormai anche il più distratto dei lettori avrà intuito la vera identità di quell’improbabile medico e si sarà fatta un’idea della natura delle cure a cui era sottoposta la ragazza. Infatti egli altri non era se non il pastore che, approfittando dell’equivoco sulla sua identità, non passava giorno che non si incontrasse con la sua bella per trascorrere con lei momenti meravigliosi, coperti dalla scusa della riservatezza di una visita medica. Ma ovviamente il gioco non poteva protrarsi troppo a lungo e se i due innamorati fossero stati scoperti avrebbero pagato caro quell’inganno.

D’altronde essi non erano per nulla disposti a lasciare che le cose tornassero come prima, così decisero di scappare per cercare di coronare il loro sogno d’amore lontano dalla valle. Una notte, dopo aver preparato un fagotto con poche cose, lasciarono di nascosto il paese e, per evitare il rischio di essere scoperti, preferirono non scendere verso il fondovalle, ma scelsero di seguire la strada più difficile delle montagne, che il pastore conosceva bene perché vi portava le sue bestie al pascolo.

Di buona lena salirono lungo il sentiero della Val Borleggia e in fretta arrivarono al Piano delle Casere, ma quando si fermarono per riposare un attimo udirono il suono delle campane a martello proveniente dal campanile di Branzi: la loro fuga era stata scoperta e in paese si stavano organizzando per venire a riprenderli. Più disperati che mai, ripresero il cammino quasi di corsa, ma raggiunte le pendici del monte Farno, la ragazza, nel superare un tratto piuttosto impervio, mise un piede in fallo e scivolò.

Nella caduta batté la testa contro un sasso e rimase a terra svenuta. Il pastore, dopo aver cercato inutilmente di farla rinvenire, udendo in lontananza i richiami delle persone mandate alla loro ricerca, prese la ragazza tra le braccia e si mise a correre su per la montagna, incurante dei pericoli. Per il buio fitto il sentiero era quasi invisibile e così ad un certo punto, ormai allo stremo delle forze, il pastorello perse l’orientamento e si trovò a procedere in un luogo scosceso e impraticabile.

Ancora qualche passo incerto e poi una scivolata sui sassi di un ghiaione. E i due poveri innamorati precipitarono, stretti in un abbraccio estremo e disperato, fino al fondo di un precipizio. Nel luogo dove caddero i loro miseri corpi si aprirono due conche circolari dalle quali cominciarono a sgorgare due limpide polle d’acqua che, zampillando senza sosta, formarono due laghetti quasi della stessa forma e dimensione: i laghi Gemelli. Ai giorni nostri la costruzione della diga ha decisamente trasformato il paesaggio, ma volendo restare nella leggenda si potrebbe affermare che finalmente i laghetti dei due innamorati si sono fusi in uno solo, a coronare per sempre il loro sogno d’amore…

Quando i Laghi Gemelli erano proprio gemelli, cioè due limpidi specchi d’acqua circondati da una corona di montagne, appena separati da una stretta lingua di terra, e non erano ancora stati fusi in un solo bacino dalle impellenti esigenze del progresso, attorno alla loro origine sorse una leggenda che per la verità è assai triste, ma forse rispecchia la realtà dei tempi in cui è scaturita dalla fantasia popolare. Si racconta che la figlia di un ricco possidente di Branzi era innamorata di un pastore della Valle Taleggio, dal quale era teneramente ricambiata.

Il loro amore era però risolutamente ostacolato dalla famiglia della ragazza che avrebbe preferito per lei un partito migliore di quanto non costituisse quel modesto pastore, costretto ogni anno ad andare in cerca di lavoro, accudendo a pecore e capre che si faceva affidare da allevatori della zona per portarle a pascolare sulle montagne dell’alta Valle Brembana.

La ragazza era stata da tempo promessa dal padre a un proprietario di fucine della Val Fondra, piuttosto attempato e per nulla piacente, ma assai ricco e influente nella vita politica ed economica della zona. Come si sa, in queste faccende nemmeno le lacrime più strazianti e le suppliche più insistenti possono sortire un qualche effetto, e così l’infelice ragazza, dopo aver inutilmente dato fondo a tutte le sue risorse di convincimento, dovette prendere atto, con il più grande sconforto, che il suo destino era segnato e la condannava a passare il resto della sua vita accanto ad un uomo che non amava e non avrebbe mai amato. Così, mentre si avvicinava il giorno delle nozze, fissate in tutta fretta proprio per togliere di mezzo ogni possibile interferenza nei programmi prestabiliti, l’infelice ragazza trascinava stancamente le sue giornate, monotone e senza speranza, tutta sola, chiusa nella sua cameretta, con le mani abbandonate in grembo e gli occhi persi nello spazio indefinito, sospirando l’amore impossibile per il suo bel pastorello.

Costui nel frattempo si trovava sui monti col suo gregge ed era ben consapevole dei progetti che riguardavano la sua amata, dai quali era stato. drasticamente escluso con la perentoria minaccia di non farsi più vedere dalle parti di Branzi, se ci teneva alla vita. Ma come accade sovente, specie nelle leggende, la ragazza non si rassegnava a perdere il suo amore, così cominciò a non mangiare più e a dar segni di squilibrio mentale, al punto da sembrare uscita di senno.

Il padre ricorse a ogni mezzo per riportare la figlia in buona salute, interpellò tutti i medici della valle e scese fino a Bergamo per consultarsi con i luminari di allora, ma non ottenne nessun risultato. Finalmente un giorno si presentò nella casa della fanciulla un medico che all’apparenza non dava particolari garanzie di professionalità, in quanto oltre che assai giovane era anche vestito in modo piuttosto dimesso e si esprimeva con un linguaggio non proprio all’altezza di un uomo di scienza.

Ma pur di salvare la figlia, il padre accettò anche le prescrizioni di quel mediconzolo che, per la verità, si mostrava assai sollecito e puntuale nel recarsi tutti i giorni a visitare la giovane paziente. Nell’incredulità generale, la ragazza cominciò come per incanto a migliorare: tornò a sorridere e a parlare, riprese a mangiare con gusto e in fretta le suo gote ridivennero rosee e pienotte. Sembrava di nuovo innamorata della vita. Ormai anche il più distratto dei lettori avrà intuito la vera identità di quell’improbabile medico e si sarà fatta un’idea della natura delle cure a cui era sottoposta la ragazza. Infatti egli altri non era se non il pastore che, approfittando dell’equivoco sulla sua identità, non passava giorno che non si incontrasse con la sua bella per trascorrere con lei momenti meravigliosi, coperti dalla scusa della riservatezza di una visita medica. Ma ovviamente il gioco non poteva protrarsi troppo a lungo e se i due innamorati fossero stati scoperti avrebbero pagato caro quell’inganno.

D’altronde essi non erano per nulla disposti a lasciare che le cose tornassero come prima, così decisero di scappare per cercare di coronare il loro sogno d’amore lontano dalla valle. Una notte, dopo aver preparato un fagotto con poche cose, lasciarono di nascosto il paese e, per evitare il rischio di essere scoperti, preferirono non scendere verso il fondovalle, ma scelsero di seguire la strada più difficile delle montagne, che il pastore conosceva bene perché vi portava le sue bestie al pascolo.

Di buona lena salirono lungo il sentiero della Val Borleggia e in fretta arrivarono al Piano delle Casere, ma quando si fermarono per riposare un attimo udirono il suono delle campane a martello proveniente dal campanile di Branzi: la loro fuga era stata scoperta e in paese si stavano organizzando per venire a riprenderli. Più disperati che mai, ripresero il cammino quasi di corsa, ma raggiunte le pendici del monte Farno, la ragazza, nel superare un tratto piuttosto impervio, mise un piede in fallo e scivolò.

Nella caduta batté la testa contro un sasso e rimase a terra svenuta. Il pastore, dopo aver cercato inutilmente di farla rinvenire, udendo in lontananza i richiami delle persone mandate alla loro ricerca, prese la ragazza tra le braccia e si mise a correre su per la montagna, incurante dei pericoli. Per il buio fitto il sentiero era quasi invisibile e così ad un certo punto, ormai allo stremo delle forze, il pastorello perse l’orientamento e si trovò a procedere in un luogo scosceso e impraticabile.

Ancora qualche passo incerto e poi una scivolata sui sassi di un ghiaione. E i due poveri innamorati precipitarono, stretti in un abbraccio estremo e disperato, fino al fondo di un precipizio. Nel luogo dove caddero i loro miseri corpi si aprirono due conche circolari dalle quali cominciarono a sgorgare due limpide polle d’acqua che, zampillando senza sosta, formarono due laghetti quasi della stessa forma e dimensione: i laghi Gemelli. Ai giorni nostri la costruzione della diga ha decisamente trasformato il paesaggio, ma volendo restare nella leggenda si potrebbe affermare che finalmente i laghetti dei due innamorati si sono fusi in uno solo, a coronare per sempre il loro sogno d’amore…

Una leggenda assai popolare in varie località della Bergamasca è quella della caccia selvatica detta anche cacciamorta. In certe ore della notte si potevano sentire su per le montagne delle mute di cani che scorrazzavano, abbaiando rabbiosamente di qua e di là, come se stessero inseguendo la selvaggina. Nessuno li aveva mai visti, si potevano solo sentire i loro latrati, ma si assicura che chi si trovava a passare da quelle parti poteva anche imbattersi sul loro percorso e doveva scansarsi precipitosamente se non voleva essere travolto dalla furia famelica di quei segugi indiavolati. Per la verità non si trattava di cani, ma di anime confinate. Precisamente erano le anime dannate di quei cacciatori del paese che per coltivare la loro passione trascuravano di andare a messa la domenica e così, dopo la morte, erano condannati a vagare su per i monti, dando vita a un’incessante quanto sterile caccia. Un efficace esempio di pena del contrappasso, degna di figurare in qualche infernale girone dantesco, tanto più che da qualche parte si sussurrava addirittura che alla guida di quella canaglia scatenata ci fosse nientemeno che il Demonio in persona. I racconti sulla caccia selvatica erano abituali a OrnicaValtortaCusioSanta Brigida, ambientati sulle impervie pendici della Val d’Inferno o del Salmurano, ma non mancavano in altre località, ad esempio a Spino al Brembo, dove la tradizione descriveva i segugi guidati dal Demonio sui dossi della squallida altura della Mughera, alle prese con una cagna nera, orribile, con gli occhi fiammeggianti, in un contesto di urla infernali e strider di catene Con una leggera variante analoghi episodi venivano raccontati a San Pietro d’Orzio, dove la muta di cani, anziché correre per la montagna, girovagava qua e là per aria, riempiendola di impetuose folate e dei consueti latrati.

Altrove si sussurra di brutte avventure capitate a chi osava intromettersi nella caccia. E’ il caso di Costa Serina dove pare che un viandante, imbattutosi in una di queste orde urlanti, avesse osato richiamare i segugi perché si quietassero. Non l’avesse mai fatto: rientrando a casa aveva trovato appesa alla porta una gamba umana, una sinistra premonizione di tragedia, dalla quale l’aveva scampato il suo parroco, consigliandogli di riportare nottetempo l’ingombrante reperto anatomico sul luogo dell’incontro con la caccia selvatica, affinché i cani potessero riprendersela. Cosa che egli fece, benché in preda ad un indicibile senso di terrore, riuscendo a cavarsi d’impaccio, ma giurando a se stesso che non si sarebbe mai più intromesso in affari di tal genere. Pressoché analogo è il racconto della caccia morta a Valgoglio, dove si dice che una donna, abitante in località Dödömal, osservando quei dannati in corsa sfrenata formulò una bizzarra richiesta: “Portatemi un po’ della vostra selvaggina con cui potrei sfamare i miei bambini”. Fu subito accontentata: il mattino dopo trovò appesa fuori della sua baita una gamba umana. Atterrita, la donna corse a raccontare l’accaduto al suo parroco il quale la consigliò di stare in guardia e le suggerì per la notte seguente di chiudersi bene in casa e di coricarsi assieme ai suoi bambini. Così fece, e fu la sua salvezza, infatti, nel colmo della notte la cacciamorta tornò e dalla canea vociante si alzò un grido d’oltretomba, rivolto proprio a lei: “Buon per te che sei in mezzo all’innocenza, altrimenti l’avresti pagata cara per aver osato parlare alla cacciamorta!”.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La leggenda del Monte Avaro di Cusio

Parecchi anni fa il monte apparteneva a un tale di Cusio, un Paleni o forse un Rovelli, o un altro di quegli abitanti della piccola comunità posta alla sommità della Valle Averara. Una cosa è certa: quel tale era una persona assai gretta e taccagna ed era conosciuto in tutta la valle, e anche fuori, proprio per la sua non comune avarizia, al punto che la gente aveva preso a chiamarlo “Avaro” o peggio, “Avarù” e lo segnava a dito perché faceva i salti mortali per non pagare le tasse e per giunta non sganciava mai un soldo per contribuire alle necessità della parrocchia, anzi, per paura di dover fare l’elemosina al sagrestano, si era ridotto a non andare nemmeno più in chiesa, cosa che suscitava le critiche severe del parroco e i commenti scandalizzati dei compaesani che cominciarono a non rivolgergli più la parola e ad evitarlo, costringendolo a vivere da solo come un eremita tra le sue ricchezze.

L’avaro era proprietario di un alpeggio dove portava ogni anno la sua mandria, ma il pascolo era piuttosto sterile, essendo ricoperto di grossi macigni sparsi dappertutto, tanto da assomigliare quasi a una vasta pietraia in cui facevano capolino, qua e là, radi ciuffi d’erba. La gente, che conosceva lo stato non proprio florido di quel monte, ne parlava spesso, in termini non certo compassionevoli, quasi a voler sottolineare la rivincita dell’alpeggio sulla taccagneria del suo proprietario. “Chèl che s’ fa ‘l vé rendì” esclamavano furtivamente gli altri mandriani con malcelata soddisfazione quando vedevano tornare dal monte le bestie dell’avaro, stanche e ridotte a pelle e ossa. Col passare degli anni, per analogia con l’indole del suo proprietario, i cusiesi presero a chiamare quell’alpeggio “il monte avaro” avaro come il suo padrone. Un’estate nella quale l’erba era più scarsa del solito e le mucche avevano grosse difficoltà a nutrirsi, il mandriano fu preso dalla disperazione e una sera, seduto fuori dalla sua baita, più avvilito che mai, mormorò fra sé: “Darei la mia anima al Diavolo se in cambio potessi ripulire la montagna da tutto questo pietrame”.

Non aveva nemmeno finito di pronunciare queste parole che sentì un forte boato accompagnato da un terremoto. Vicino a lui si aprì un profondo cratere da cui uscì, avvolto in una densa nuvola nera, il Diavolo in persona, sotto le sembianze di un rosso caprone, tutto peloso, con le corna acuminate e la lunga coda attorcigliata, dalla punta a forma di freccia. “Ai tuoi ordini – gridò con voce cavernosa rivolto all’avaro, impietrito per lo stupore e lo spavento – dammi la tua anima e io ti ripulisco il monte così bene da farlo diventare il pascolo più bello di tutta la vallata. L’avaro, che fino a un attimo prima avrebbe accettato di scendere a patti col Diavolo, adesso, di fronte alla prospettiva di vedere concretizzato il suo sogno, fu preso dal panico. In fin dei conti la sua anima, sul punto di diventare merce di scambio per una banale questione di interesse, doveva pure avere il suo valore se il principe delle tenebre era disposto a sobbarcarsi una fatica così improba per averla. E poi si ricordò che il suo parroco, quelle poche volte che aveva avuto l’occasione di sentirlo, durante la messa o la dottrina, ripeteva sempre che l’anima è infinitamente più preziosa del corpo, vale molto di più di tutte le ricchezze terrene e per giunta è immortale: “Chi perde l’anima andrà all’Inferno, dove dovrà bruciare per tutta l’eternità!”. E adesso lui stava addirittura cedendo volontariamente la propria anima al Diavolo, per accrescere la ricchezza terrena”. Ma l’anima è importante, non voglio perderla, non voglio andare a bruciare all’Inferno” Il suo interlocutore, vedendolo titubante, lo incalzò: “Ma va’ là, non dare ascolto a tutto quello che ti dicono. E’ tutta una scusa inventata dai preti per carpirti i tuoi soldi e impedirti di godere appieno delle gioie della vita”. E stuzzicando la sua avidità, soggiunse: “E’ un affare da non perdere, pensa ai soldi che ne potrai ricavare, prova ad immaginare quanti anni ti ci vorrebbero per fare questo lavoro da solo, considera invece che già da questa estate tu potrai far pascolare le tue bestie su un terreno tutto dissodato e fertile”.

L’uomo si voltò ad osservare il vasto pianoro disseminato di macigni e lo immaginò per un momento tutto coperto d’erba verde e di fiori, con la sua mandria intenta a pascolare al suono dei campanacci. Questa visione fu talmente convincente che alla fine l’avaro cedette e accettò il patto col Diavolo. Però pose una condizione: “Il lavoro dovrà essere svolto questa notte e portato a termine prima che dal campanile di Cusio giungano i rintocchi dell’Ave Maria del mattino, altrimenti tu non avrai alcun diritto sulla mia anima”. Egli era infatti convinto che sarebbe stato impossibile, non dico finire, ma anche solo arrivare a metà di un lavoro così improbo, per cui, alla fine gli sarebbe rimasta la sua anima e avrebbe avuto il monte almeno in parte ripulito. Era meglio che niente. Ma non aveva fatto i conti con l’astuzia del Diavolo che non aveva precisato in quanti sarebbero stati a svolgere questo lavoro. Così, appena furono calate le tenebre, il Monte Avaro si riempì di ombre che si misero al lavoro di buona lena e in assoluto silenzio. Erano decine di diavoli tutti rossi e pelosi, colleghi di quello che aveva fatto la proposta all’avaro, dai loro occhi emanava una luce diafana che illuminava sinistramente la notte. I macigni venivano sradicati uno dopo l’altro dalle braccia muscolose dei diavoli e fatti rotolare giù per la montagna. Il lavoro procedeva speditamente e l’avaro cominciò a temere che sarebbe stato portato a termine entro il tempo concordato. Infatti sul far dell’alba l’impresa era quasi ultimata: mancava solo un enorme macigno, il più grosso di tutti, piantato in mezzo al pianoro. I diavoli gli si fecero intorno e unirono gli sforzi per toglierlo di mezzo. Dai e dai, spingi di qua, tira di là, il macigno cominciò a muoversi, prima impercettibilmente e poi in modo via via sempre più deciso: presto avrebbe fatto la stessa fine di tutti gli altri.

L’avaro si sentì perduto. Ripensò con terrore alle parole del suo parroco e si vide dannato tra le fiamme dell’Inferno. Allora si pentì di avere stretto quel patto scellerato col Diavolo, ma forse era troppo tardi. Mentre il macigno, ormai del tutto divelto, veniva faticosamente trasportato verso i margini del pianoro per essere precipitato giù nella valle, il mandriano fece un ultimo tentativo per salvarsi, si segnò, si raccomandò l’anima al Signore e recitò un’Ave Maria. Poi, colto da un’improvvisa ispirazione, prese a correre alla disperata giù per la montagna, nell’estremo tentativo di arrivare a Cusio e suonare la campane prima che l’opera dei diavoli fosse terminata. Una corsa affannosa per sentieri impervi e fitti boschi, e finalmente il paese, l’abitazione del sagrestano, un’altra breve corsa verso la chiesa, il campanile, le campane. Appena in tempo: ecco levarsi dal campanile di Cusio il primo rintocco dell’Ave Maria. Ancora pochi secondi e il lavoro sarebbe stato compiuto, invece il macigno era ancora lì, ai margini del pianoro. Il Diavolo dovette ammettere la propria sconfitta e se ne tornò infuriato all’Inferno, lasciando le impronte delle sue zampe caprine su quell’ultima pietra. Da quel momento il monte divenne un bel pascolo ricco d’erba e di fiori, con due laghetti di acqua limpida adatti ad abbeverare le mandrie.

Non si sa invece che fine abbia fatto l’avaro, qualcuno afferma che, pentitosi della sua vita gretta e senza senso, diventò un benefattore della sua comunità, ma è probabile che, divenuto ancora più tirchio ed egoista, abbia finito i suoi giorni solo ed abbandonato, senza poter gustare appieno la bellezza della fertile montagna. Forse il suo spirito si aggira ancora oggi, insoddisfatto, cercando inutilmente di disturbare con la sua presenza l’allegria degli escursionisti e degli sciatori che d’estate e d’inverno godono la bellezza di quella montagna.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Parecchi anni fa il monte apparteneva a un tale di Cusio, un Paleni o forse un Rovelli, o un altro di quegli abitanti della piccola comunità posta alla sommità della Valle Averara. Una cosa è certa: quel tale era una persona assai gretta e taccagna ed era conosciuto in tutta la valle, e anche fuori, proprio per la sua non comune avarizia, al punto che la gente aveva preso a chiamarlo “Avaro” o peggio, “Avarù” e lo segnava a dito perché faceva i salti mortali per non pagare le tasse e per giunta non sganciava mai un soldo per contribuire alle necessità della parrocchia, anzi, per paura di dover fare l’elemosina al sagrestano, si era ridotto a non andare nemmeno più in chiesa, cosa che suscitava le critiche severe del parroco e i commenti scandalizzati dei compaesani che cominciarono a non rivolgergli più la parola e ad evitarlo, costringendolo a vivere da solo come un eremita tra le sue ricchezze.

L’avaro era proprietario di un alpeggio dove portava ogni anno la sua mandria, ma il pascolo era piuttosto sterile, essendo ricoperto di grossi macigni sparsi dappertutto, tanto da assomigliare quasi a una vasta pietraia in cui facevano capolino, qua e là, radi ciuffi d’erba. La gente, che conosceva lo stato non proprio florido di quel monte, ne parlava spesso, in termini non certo compassionevoli, quasi a voler sottolineare la rivincita dell’alpeggio sulla taccagneria del suo proprietario. “Chèl che s’ fa ‘l vé rendì” esclamavano furtivamente gli altri mandriani con malcelata soddisfazione quando vedevano tornare dal monte le bestie dell’avaro, stanche e ridotte a pelle e ossa. Col passare degli anni, per analogia con l’indole del suo proprietario, i cusiesi presero a chiamare quell’alpeggio “il monte avaro” avaro come il suo padrone. Un’estate nella quale l’erba era più scarsa del solito e le mucche avevano grosse difficoltà a nutrirsi, il mandriano fu preso dalla disperazione e una sera, seduto fuori dalla sua baita, più avvilito che mai, mormorò fra sé: “Darei la mia anima al Diavolo se in cambio potessi ripulire la montagna da tutto questo pietrame”.

Non aveva nemmeno finito di pronunciare queste parole che sentì un forte boato accompagnato da un terremoto. Vicino a lui si aprì un profondo cratere da cui uscì, avvolto in una densa nuvola nera, il Diavolo in persona, sotto le sembianze di un rosso caprone, tutto peloso, con le corna acuminate e la lunga coda attorcigliata, dalla punta a forma di freccia. “Ai tuoi ordini – gridò con voce cavernosa rivolto all’avaro, impietrito per lo stupore e lo spavento – dammi la tua anima e io ti ripulisco il monte così bene da farlo diventare il pascolo più bello di tutta la vallata. L’avaro, che fino a un attimo prima avrebbe accettato di scendere a patti col Diavolo, adesso, di fronte alla prospettiva di vedere concretizzato il suo sogno, fu preso dal panico. In fin dei conti la sua anima, sul punto di diventare merce di scambio per una banale questione di interesse, doveva pure avere il suo valore se il principe delle tenebre era disposto a sobbarcarsi una fatica così improba per averla. E poi si ricordò che il suo parroco, quelle poche volte che aveva avuto l’occasione di sentirlo, durante la messa o la dottrina, ripeteva sempre che l’anima è infinitamente più preziosa del corpo, vale molto di più di tutte le ricchezze terrene e per giunta è immortale: “Chi perde l’anima andrà all’Inferno, dove dovrà bruciare per tutta l’eternità!”. E adesso lui stava addirittura cedendo volontariamente la propria anima al Diavolo, per accrescere la ricchezza terrena”. Ma l’anima è importante, non voglio perderla, non voglio andare a bruciare all’Inferno” Il suo interlocutore, vedendolo titubante, lo incalzò: “Ma va’ là, non dare ascolto a tutto quello che ti dicono. E’ tutta una scusa inventata dai preti per carpirti i tuoi soldi e impedirti di godere appieno delle gioie della vita”. E stuzzicando la sua avidità, soggiunse: “E’ un affare da non perdere, pensa ai soldi che ne potrai ricavare, prova ad immaginare quanti anni ti ci vorrebbero per fare questo lavoro da solo, considera invece che già da questa estate tu potrai far pascolare le tue bestie su un terreno tutto dissodato e fertile”.

L’uomo si voltò ad osservare il vasto pianoro disseminato di macigni e lo immaginò per un momento tutto coperto d’erba verde e di fiori, con la sua mandria intenta a pascolare al suono dei campanacci. Questa visione fu talmente convincente che alla fine l’avaro cedette e accettò il patto col Diavolo. Però pose una condizione: “Il lavoro dovrà essere svolto questa notte e portato a termine prima che dal campanile di Cusio giungano i rintocchi dell’Ave Maria del mattino, altrimenti tu non avrai alcun diritto sulla mia anima”. Egli era infatti convinto che sarebbe stato impossibile, non dico finire, ma anche solo arrivare a metà di un lavoro così improbo, per cui, alla fine gli sarebbe rimasta la sua anima e avrebbe avuto il monte almeno in parte ripulito. Era meglio che niente. Ma non aveva fatto i conti con l’astuzia del Diavolo che non aveva precisato in quanti sarebbero stati a svolgere questo lavoro. Così, appena furono calate le tenebre, il Monte Avaro si riempì di ombre che si misero al lavoro di buona lena e in assoluto silenzio. Erano decine di diavoli tutti rossi e pelosi, colleghi di quello che aveva fatto la proposta all’avaro, dai loro occhi emanava una luce diafana che illuminava sinistramente la notte. I macigni venivano sradicati uno dopo l’altro dalle braccia muscolose dei diavoli e fatti rotolare giù per la montagna. Il lavoro procedeva speditamente e l’avaro cominciò a temere che sarebbe stato portato a termine entro il tempo concordato. Infatti sul far dell’alba l’impresa era quasi ultimata: mancava solo un enorme macigno, il più grosso di tutti, piantato in mezzo al pianoro. I diavoli gli si fecero intorno e unirono gli sforzi per toglierlo di mezzo. Dai e dai, spingi di qua, tira di là, il macigno cominciò a muoversi, prima impercettibilmente e poi in modo via via sempre più deciso: presto avrebbe fatto la stessa fine di tutti gli altri.

L’avaro si sentì perduto. Ripensò con terrore alle parole del suo parroco e si vide dannato tra le fiamme dell’Inferno. Allora si pentì di avere stretto quel patto scellerato col Diavolo, ma forse era troppo tardi. Mentre il macigno, ormai del tutto divelto, veniva faticosamente trasportato verso i margini del pianoro per essere precipitato giù nella valle, il mandriano fece un ultimo tentativo per salvarsi, si segnò, si raccomandò l’anima al Signore e recitò un’Ave Maria. Poi, colto da un’improvvisa ispirazione, prese a correre alla disperata giù per la montagna, nell’estremo tentativo di arrivare a Cusio e suonare la campane prima che l’opera dei diavoli fosse terminata. Una corsa affannosa per sentieri impervi e fitti boschi, e finalmente il paese, l’abitazione del sagrestano, un’altra breve corsa verso la chiesa, il campanile, le campane. Appena in tempo: ecco levarsi dal campanile di Cusio il primo rintocco dell’Ave Maria. Ancora pochi secondi e il lavoro sarebbe stato compiuto, invece il macigno era ancora lì, ai margini del pianoro. Il Diavolo dovette ammettere la propria sconfitta e se ne tornò infuriato all’Inferno, lasciando le impronte delle sue zampe caprine su quell’ultima pietra. Da quel momento il monte divenne un bel pascolo ricco d’erba e di fiori, con due laghetti di acqua limpida adatti ad abbeverare le mandrie.

Non si sa invece che fine abbia fatto l’avaro, qualcuno afferma che, pentitosi della sua vita gretta e senza senso, diventò un benefattore della sua comunità, ma è probabile che, divenuto ancora più tirchio ed egoista, abbia finito i suoi giorni solo ed abbandonato, senza poter gustare appieno la bellezza della fertile montagna. Forse il suo spirito si aggira ancora oggi, insoddisfatto, cercando inutilmente di disturbare con la sua presenza l’allegria degli escursionisti e degli sciatori che d’estate e d’inverno godono la bellezza di quella montagna.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Sul Monte di Zogno viveva una ragazza che si chiamava Teresina; la gente la chiamava Dispettina per i dispetti che faceva a tutti. Suo padre era in Francia a lavorare nei boschi e tagliare le piante; sua madre era in casa ma era mezza malata e camminava con le stampelle e aveva 2 figli ancora piccoli cui dare da mangiare. Teresina era la più grande dei figli e aveva quindici anni. E invece di essere quella che aiutava in casa, era quella che rispondeva male a sua madre e a tutti coloro che le dicevano qualche cosa; scappava spesso di casa per andare a giocare e fare scherzi alla gente che stava lavorando.

Andava nei campi a far dispetti; scuoteva gli alberi e faceva cadere le mele ancora verdi; strappava i cespi di cavoli ; tirava giù i baccelli dei fagioli e andava dove c’erano le cassette delle api e con un bastone le faceva scappare e poi fuggiva e le api pungevano la gente che passava da quelle parti. Un giorno sua madre dal balcone di casa la chiamava: “Teresinaaaa, Teresinaaa” ; ma lei pur essendo vicina, non rispondeva. In quel momento stava passando un vecchio con una gran barba: il vecchio disse: “Teresina, tua madre ti chiama”. Lei ribatte “Interessati delle tue faccende brutto pitocco” e prende dei sassi e li scaglia sulla testa del vecchio. Lui si ferma e dice: < Sei una ragazza cattiva, villana e dispettosa; ricordati che quando sarò morto verrò a tirarti le gambe >. Il vecchio venne a morire poco tempo dopo. Una sera mentre s’era già fatto buio, Teresina era ancora fuori casa; ha l’impressione che qualcuno la chiami per nome: “Teresina” e non vede nulla. Molto impressionata da quella strana voce, se ne va di corsa e senza dir nulla a nessuno, si mette a letto piena di paura. Ma quella sera non accadde più nulla. Sere dopo, sente ancora la voce che dice: “Teresina, sono qui sotto il portico” .

La notte seguente ecco ancora la voce che dice: < Teresina, sono qui sotto il portico >. La notte seguente ecco ancora la voce che < Teresina sono sul primo gradino > e di li’ a un momento “Teresina sono al secondo gradino” e di lì a poco “Teresina sono al terzo gradino”. La ragazza era a letto nella sua stanza, tremante di paura; batteva i denti come se avesse un gran freddo. Poi ecco che battono alla porta; e poi la porta si apre e poi la voce più vicina che dice: “Teresina ora ci sei”. E lei sente che qualcuno invisibile le gambe e tira e tira: così sviene per lo spavento. Rinvenne molto tempo dopo, ricordando tutto con spavento; fu allora che promise a se stessa a alla Madonna di essere savia; così suo padre e sua madre vissero contenti.

Il prete della Valle di Poscante

Si va indietro molti anni: a quel tempo quelli che passavano per la Valle di Poscante di notte e da soli, vedevano o sentivano gli spiriti; e molti che avevano qualche conto da rendere alla giustizia del Signore, passavano pieni di paura. Lungo questa strada si incontravano tre chiesine votive; una notte un uomo che veniva da Zogno per andare a casa sua a Poscante, arrivato alla prima cappelletta, vede davanti al cancello un prete che pregava a voce bassa, tenendo in mano un libro. Lui per essere bene educato lo saluta, ma il prete non risponde. L’uomo allora continua la sua strada, ma quando arriva vicino alla seconda cappelletta, sente come un uomo che brontola e si ferma; si guarda da ogni parte, ma non riesce a vedere nessuno. Fa due passi indietro e improvvisamente rivede lo stesso prete che stava davanti alla seconda cappelletta.

Il prete aveva in mano un libro più grande di quello di prima e pregava con voce più forte. Lui lo saluta ancora e però si sente preoccupato per quello che vede e se ne va via subito di buon passo, senza voltarsi indietro a guardare. Allorché’ giunge in vista della terza cappelletta, sente la voce del prete che prega ancora più forte; si ferma di nuovo mentre il cuore gli batte forte; si fa coraggio e si avvia per la strada che passa accanto alla cappelletta. Il prete era li davanti che pregava con voce ancora più alta: il prete ha in mano un grande foglio di carta bianca e lo porge all’uomo. Lui lo guarda in faccia e s’accorge che il prete e’ uno scheletro vestito da prete: l’uomo resta impietrito e fermo a guardare e intanto il prete scheletro se ne va leggero come l’aria, si allontana e poi sparisce del tutto. Il poveretto, spaurito, guarda il foglio che tiene in mano e vede che c’è scritto l’indirizzo del parroco di Poscante: senza perdere tempo corre a portarglielo.

Il foglio era tutto bianco, ma quando il parroco lo ha preso nelle sue mani si son viste comparire parole scritte; ma solo lui era in grado di leggerle. L’uomo che aveva portato il foglio non poteva capirle. Dopo che il prete le lesse fino in fondo, il foglio ritornò bianco. L’uomo era molto spaventato, ma il parroco di Poscante gli disse che non doveva aver paura, spiegò che lo scheletro che aveva visto era quello di un prete che aveva bisogno di bere per lui e per tutti i morti del paese.

Si va indietro molti anni: a quel tempo quelli che passavano per la Valle di Poscante di notte e da soli, vedevano o sentivano gli spiriti; e molti che avevano qualche conto da rendere alla giustizia del Signore, passavano pieni di paura. Lungo questa strada si incontravano tre chiesine votive; una notte un uomo che veniva da Zogno per andare a casa sua a Poscante, arrivato alla prima cappelletta, vede davanti al cancello un prete che pregava a voce bassa, tenendo in mano un libro. Lui per essere bene educato lo saluta, ma il prete non risponde. L’uomo allora continua la sua strada, ma quando arriva vicino alla seconda cappelletta, sente come un uomo che brontola e si ferma; si guarda da ogni parte, ma non riesce a vedere nessuno. Fa due passi indietro e improvvisamente rivede lo stesso prete che stava davanti alla seconda cappelletta.

Il prete aveva in mano un libro più grande di quello di prima e pregava con voce più forte. Lui lo saluta ancora e però si sente preoccupato per quello che vede e se ne va via subito di buon passo, senza voltarsi indietro a guardare. Allorché’ giunge in vista della terza cappelletta, sente la voce del prete che prega ancora più forte; si ferma di nuovo mentre il cuore gli batte forte; si fa coraggio e si avvia per la strada che passa accanto alla cappelletta. Il prete era li davanti che pregava con voce ancora più alta: il prete ha in mano un grande foglio di carta bianca e lo porge all’uomo. Lui lo guarda in faccia e s’accorge che il prete e’ uno scheletro vestito da prete: l’uomo resta impietrito e fermo a guardare e intanto il prete scheletro se ne va leggero come l’aria, si allontana e poi sparisce del tutto. Il poveretto, spaurito, guarda il foglio che tiene in mano e vede che c’è scritto l’indirizzo del parroco di Poscante: senza perdere tempo corre a portarglielo.

Il foglio era tutto bianco, ma quando il parroco lo ha preso nelle sue mani si son viste comparire parole scritte; ma solo lui era in grado di leggerle. L’uomo che aveva portato il foglio non poteva capirle. Dopo che il prete le lesse fino in fondo, il foglio ritornò bianco. L’uomo era molto spaventato, ma il parroco di Poscante gli disse che non doveva aver paura, spiegò che lo scheletro che aveva visto era quello di un prete che aveva bisogno di bere per lui e per tutti i morti del paese.

Non è raro ancora oggi imbattersi lungo i sentieri di montagna in resti fossili di grosse conchiglie bivalvi, i concodon, che hanno una forma curiosamente simile a grossi zoccoli bovini. La credenza popolare attribuiva queste strane orme alla presenza del Diavolo che avrebbe lasciato le sue “peste” impresse nella roccia, in segno del suo passaggio. Attorno a questi segni sono nate nel corso dei secoli delle curiose leggende che interessano varie località delle nostre vallate. La più nota è quella ambientata in Val Serina, nella zona tra Miragolo e Perello, dove si stende il vasto bosco della Val Pagana, nome adatto ad evocare inquietanti presenze. Qui viveva una ragazza bellissima che trascorreva gran parte del suo tempo libero dedicandosi al ballo più sfrenato. Non si sapeva bene chi frequentasse e dove in particolare si recasse per dare sfogo al suo divertimento preferito.

I genitori e i fratelli la ostacolavano con tutte le loro forze, il padre addirittura, quando la vedeva tornare a tarda ora, tutta sudata e scarmigliata, con le scarpe consumate a furia di giravolte, la picchiava di santa ragione con la cintura dei pantaloni, lasciandole sulle gambe certe fiacche da far pietà. L’avevano anche chiusa in casa, ma lei non “portava botta” e continuava imperterrita a scappare di casa per dare libero sfogo alla sua grande passione ballerina, anzi, consigliava pure le amiche di seguirla, così avrebbero potuto conoscere nuove persone e magari trovare un buon partito. Nessuno sapeva dove andasse a ballare, perché si inoltrava in certi luoghi impervi e rocciosi situati sotto il santuario del Perello e in fretta faceva perdere le sue tracce. Più volte i fratelli avevano provato a seguirla, ma dopo un po’, improvvisamente, la ragazza spariva e i suoi inseguitori non potevano fare altro che ascoltare le note di una musichetta allegra provenienti da un luogo indeterminato.

Una sera il padre, esasperato per il comportamento della figlia e angosciato per la prospettiva di vederla partire ancora una volta per la consueta notte di follia, decise di adottare provvedimenti drastici: la portò in cantina e la legò stretta alla gamba di un tavolo, sprangando poi in modo impenetrabile la porta e la finestra del locale. Ma quando arrivò la mezzanotte, si udirono rumori spaventosi e risate agghiaccianti provenienti dall’esterno della casa. Tutti rimasero impietriti e non ebbero il coraggio di uscire a vedere quello che stava succedendo. Sbirciando da dietro le imposte, poterono scorgere un misterioso giovanotto, alto e aitante, che si era avvicinato alla finestra della cantina e stava scardinandola. In un batter d’occhio lo sconosciuto riuscì ad abbattere ogni protezione e a penetrare nel locale. Quindi, liberata la ragazza, se ne uscì portandola con sé ed avviandosi per la strada che si inoltrava nel bosco. Fatti pochi passi, mentre la ragazza si stringeva a lui affettuosamente, il giovane si voltò un attimo per controllare se qualcuno li stesse seguendo. Fu allora che i familiari della ragazza, che erano rimasti alla finestra, poterono notare la spaventosa trasformazione che si era verificata nella fisionomia dello sconosciuto: gli occhi si erano dilatati diventando dei grossi cerchi fiammeggianti, sulla testa erano spuntate due piccole corna aguzze e tutto il corpo si era ricoperto di un lungo pelo fulvo, al posto delle scarpe c’erano due poderosi zoccoli bovini e una coda lunga e attorcigliata fendeva l’aria senza sosta. Era il Diavolo!

Il padre e i fratelli della ragazza si precipitarono fuori di casa, nel disperato tentativo di portare soccorso alla loro cara, ma il Diavolo correva velocissimo, tenendo quasi sollevata la sua preda. Anche la ragazza si rese conto con spavento della orribile natura del suo accompagnatore e si mise a urlare, chiedendo aiuto e cercando di liberarsi da quell’abbraccio che era diventato improvvisamente mortale, ma il Diavolo, dopo qualche altro passo di corsa, prese il volo buttandosi nello strapiombo che si apre sotto il santuario del Perello. Sul fondo si spalancò una voragine e il Diavolo vi entrò, portando con sé la sventurata ragazza, che venne avvolta dalle fiamme dell’Inferno. I parenti che arrivarono trafelati sull’orlo dello strapiombo non poterono far altro che osservare, con orrore, una grossa nuvola di fumo nero e denso proveniente dal fondo. E per terra, sull’orlo del precipizio, impresse nella roccia, alcune grandi orme bovine, lasciate dal Diavolo al momento di spiccare il folle volo. Quelle orme sono ancora lì e possono essere osservate da chi si affaccia sullo strapiombo per ammirare la selvaggia bellezza della Val Pagana. E può anche capitare, in certe serate buie e misteriose, di udire i flebili e disperati lamenti della sventurata fanciulla provenienti dal fondo dell’abisso.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La casa degli spiriti

In cima al monte c’era una casa che stava in mezzo ad un prato. Pur essendo una bella casa, nessuno la voleva abitare perché già abitata: era la casa degli spiriti. Un inverno, una squadra di uomini che raccoglieva tronchi d’albero in quel luogo, giunti a sera dopo una giornata di lavoro, decisero di andare a dormire proprio in quella casa. Quando hanno aperto la porta, videro sotto il portico topi scappare, rospi saltare da ogni parte, ragni sul muro grossi come il pugno di una mano. Lasciati a terra i loro ferri, corde, scuri, zappe, gli uomini che non avevano paura alcuna, salirono le scale e arrivati al piano superiore, videro nella stanza volare pipistrelli e civette e cornacchie che facevano versi.

Ma la stanchezza era tale, che presa una bracciata di fieno per ciascuno e una coperta, si buttarono a terra e cominciarono a dormire. Giunta la mezzanotte, avvertono che la porta si apre e sentono entrare un gruppo di gente che fa rumore; gridano, piangono ed emettono suoni che non sembrano neppur essere di cristiani; e per di più s’accorgono che questa gente adopera i loro ferri per tagliare la scala di legno; e dopo poco le finestre e le porte cadono a pezzi, e tutto crolla finche’ alla fine rimane soltanto il tetto. Dopo questi fatti la paura ha incominciato a prender l’animo degli uomini e quando il più coraggioso della squadra ha tentato di alzarsi, sé sentito in dosso due mani fredde che gli impedivano di muoversi. Ma lui non convinto, ha fatto per scagliare uno scarpone contro quello che non vedeva: ma in quel momento stesso un manrovescio lo colpiva sui denti. Allora sbalordito e pieno di paura, anche quello che era ritenuto il più coraggioso di tutti, si è stretto vicino ai suoi compagni spaventato. Fra baccano e rumori, la notte non passava più.

Quando è venuto il giorno, tutto s’è quietato e gli uomini più morti che vivi, si sono alzati: con grande meraviglia hanno constatato che le scale le porte e le finestre e i loro ferri, erano tutti al loro posto. Gli uomini ripresero i loro arnesi e, usciti dalla casa, si sono messi a correre giù per il prato, finche’ hanno avuto fiato. Quando furono ben lontani, si voltarono per dare ancora un’occhiata a quella casa, ma con grande stupore s’accorsero che era sparita: al suo posto era rimasto un gran mucchio di spini. Ancor oggi quelli che passano da queste parti, vedono in mezzo al prato il cespuglio di spini e con terrore pensano alla casa degli spiriti.

In cima al monte c’era una casa che stava in mezzo ad un prato. Pur essendo una bella casa, nessuno la voleva abitare perché già abitata: era la casa degli spiriti. Un inverno, una squadra di uomini che raccoglieva tronchi d’albero in quel luogo, giunti a sera dopo una giornata di lavoro, decisero di andare a dormire proprio in quella casa. Quando hanno aperto la porta, videro sotto il portico topi scappare, rospi saltare da ogni parte, ragni sul muro grossi come il pugno di una mano. Lasciati a terra i loro ferri, corde, scuri, zappe, gli uomini che non avevano paura alcuna, salirono le scale e arrivati al piano superiore, videro nella stanza volare pipistrelli e civette e cornacchie che facevano versi.

Ma la stanchezza era tale, che presa una bracciata di fieno per ciascuno e una coperta, si buttarono a terra e cominciarono a dormire. Giunta la mezzanotte, avvertono che la porta si apre e sentono entrare un gruppo di gente che fa rumore; gridano, piangono ed emettono suoni che non sembrano neppur essere di cristiani; e per di più s’accorgono che questa gente adopera i loro ferri per tagliare la scala di legno; e dopo poco le finestre e le porte cadono a pezzi, e tutto crolla finche’ alla fine rimane soltanto il tetto. Dopo questi fatti la paura ha incominciato a prender l’animo degli uomini e quando il più coraggioso della squadra ha tentato di alzarsi, sé sentito in dosso due mani fredde che gli impedivano di muoversi. Ma lui non convinto, ha fatto per scagliare uno scarpone contro quello che non vedeva: ma in quel momento stesso un manrovescio lo colpiva sui denti. Allora sbalordito e pieno di paura, anche quello che era ritenuto il più coraggioso di tutti, si è stretto vicino ai suoi compagni spaventato. Fra baccano e rumori, la notte non passava più.

Quando è venuto il giorno, tutto s’è quietato e gli uomini più morti che vivi, si sono alzati: con grande meraviglia hanno constatato che le scale le porte e le finestre e i loro ferri, erano tutti al loro posto. Gli uomini ripresero i loro arnesi e, usciti dalla casa, si sono messi a correre giù per il prato, finche’ hanno avuto fiato. Quando furono ben lontani, si voltarono per dare ancora un’occhiata a quella casa, ma con grande stupore s’accorsero che era sparita: al suo posto era rimasto un gran mucchio di spini. Ancor oggi quelli che passano da queste parti, vedono in mezzo al prato il cespuglio di spini e con terrore pensano alla casa degli spiriti.

In un’imprecisata valle bergamasca viveva un ragazzo di nome Giovannino o, per meglio dire, Gioanì. Era il figlio unico di una povera vedova che aveva perduto il marito, travolto da una catasta di legname mentre era intento al difficile e faticoso lavoro della fluitazione dei tronchi, lungo l’impetuoso corso del fiume. Mamma e figliolo abitavano in una casupola alquanto malandata, situata fuori paese, in prossimità di una verde valletta circondata da un fitto bosco di abeti. Questo era il regno del Gioanì che fin da piccolo aveva imparato ad amare la natura, adeguandosi ai suoi ritmi solenni e immutabili. Fattosi più grandicello, aveva trovato nella natura il sostentamento per sé e per la povera madre, alternando le cure del suo gregge allo stesso lavoro del boscaiolo che era stato del padre: una vita monotona, senza prospettive, se non quella di trovare, in paese o nel circondario, una ragazza semplice e operosa, disposta a condividere la fatica di una vita assai avara di consolazioni. Unico svago, qualche serata trascorsa nella piccola osteria del paese, a giocare a carte o alla morra con altri giovanotti, bere vino senza eccedere, al suono sommesso di una fisarmonica. Fu in una di queste serate che prese l’avvio la vicenda destinata a mutare per sempre la sua vita. Tra gli avventori nacque un’accesa discussione su un argomento assai di moda a quei tempi: l’esistenza di fantasmi, streghe e folletti che popolavano i boschi e le montagne della zona, terrorizzando nelle ore notturne quanti avevano la malaugurata idea di andarsene in giro da soli, magari con la coscienza non proprio tranquilla.

Il Gioanì, che in tutta la sua vita trascorsa a stretto contatto con la natura aveva imparato ad amarla e a considerarla come una sorella, sosteneva con forza di non aver mai incontrato nessuno di quegli strani esseri che avrebbero dovuto spaventarlo a morte ed era il più acceso sostenitore della loro inesistenza. “Töte bale di nos vècc chi ga cüntàa sö di storie de pura ai tusècc per tegnéi quècc! – andava dicendo con convinzione – Cos’éla pò sta pura? Me so egnì che g’o pura de nig e de négott!”. Dai e poi dai, la discussione si accese e il Gioanì si trovò ben presto solo a sostenere la propria tesi. E così ebbe contro tutti gli avventori. “Se davvero non hai paura – lo sfidò a un certo punto uno dei più accesi sostenitori della tesi contraria – perché non ce lo dimostri coi fatti? Scommettiamo che non sei capace di passare un’intera notte da solo in cima alla montagna?”. “Accetto la scommessa – fece il Gioanì – anzi, ci vado questa notte stessa e, per dimostrarvelo, quando arriverò in cima al vallone accenderò un falò e lo terrò acceso fino all’alba, così capirete che sono lassù, mentre voi sarete qui a farvela addosso!”. La posta della scommessa dovette essere alquanto alta, ma noi non la conosciamo. È certo invece che poco dopo il Gioanì, vuotato d’un fiato l’ultimo bicchiere, uscì dall’osteria accompagnato dai lazzi degli avventori e, avvolto nel suo scuro pastrano con in testa un cappellaccio dello stesso colore, si inoltrò nella notte, facendosi strada con la fioca luce di una lanterna a olio. Il cielo sereno di quella notte di fine inverno era un tripudio di stelle, le bianche vette delle montagne erano rischiarate dalla luce diafana della luna piena. L’aria fredda e umida sciolse in fretta tutti i fumi dell’alcol nel Gioanì che cominciò a provare una certa uggia per l’incertezza dell’impresa, avviata senza un minimo di riflessione, e si pentì di aver accettato la scommessa.

Per non far caso alle mostruose figure che gli alberi e gli spuntoni di roccia disegnavano intorno a lui per effetto della luce lunare, prese a salire verso la vetta quasi di corsa. Ben presto il suo respiro si fece veloce e ansimante, il suo corpo si riscaldò e cominciò a sudare leggermente. Ormai badava solo alla salita e provava un senso di soddisfazione nel rendersi conto della facilità con cui percorreva l’erto e stretto sentiero che lo stava portando in fretta verso la meta prescelta. Camminava da quasi due ore, ne ebbe conferma dai deboli rintocchi della mezzanotte provenienti dal campanile del suo paese. Individuata un’altura aperta sulla vallata, che pareva adatta a segnalare la sua presenza, decise di fermarsi, accatastò un piccolo fascio di legna secca che aveva raccolto nell’ultimo tratto di strada, poi se ne procurò dell’altra vagando tra le sterpaglie secche dei dintorni. Ci mise un bel po’ ad attizzare il fuoco, ma alla fine la fiamma si alzò, calda e scoppiettante. Vi dispose tutta la legna raccolta e si sedette su una pietra a gustarsi il tepore che placava in fretta il freddo pungente subentrato al sudore della salita. La fatica della lunga camminata, l’ora tarda e il caldo della fiamma ebbero ben presto il sopravvento sul Gioanì che si appisolò. Doveva essere passata almeno un’ora, quando gli parve di udire un debole suono di flauto. Aprì gli occhi e alla tenue fiamma che ancora avvolgeva la sterpaglia, scorse tre ragazze, avvolte in delicati indumenti colorati. Quella vestita di rosso, che gli parve la più graziosa, suonava il flauto e guidava le compagne in una leggera danza attorno al falò; quando passava davanti a lui, gli sorrideva, dolce e invitante. La scena andò avanti per alcuni minuti, poi, finita la melodia, le tre fanciulle svanirono nel buio, non prima però di aver rivolto un cortese inchino al giovane pastore.

Così almeno parve al Gioanì, perché dopo la visione si addormentò di nuovo e si svegliò quando ormai il sole stava spuntando dietro le montagne innevate. Il ricordo della visione gli si presentò subito nitido in ogni particolare. Non poteva essere stato un sogno. Tornato a casa, riprese le sue abituali occupazioni, ma l’immagine della ragazza non lo lasciava un minuto, il volto allegro, gli occhi vivaci, il sorriso pieno di promesse di quella leggiadra creatura erano stampati nella sua mente e riempivano le sue giornate e i suoi sogni. Così si decise a raccontare l’avventura alla madre, la quale, dopo averci riflettuto a lungo gli propose: “Perché non torni lassù una di queste notti? Forse la tua misteriosa ragazza potrebbe tornare. E se così fosse, attento a non fartela scappare, invitala a ballare, conoscila portala a casa”. Il Gioanì seguì il consiglio materno e quella notte stessa tornò sulla montagna, accese il falò e rimase in attesa. Ed ecco che, passata la mezzanotte, udì il suono del flauto che si avvicinava veloce e poi apparvero le tre ragazze che si misero a danzare attorno al fuoco. Allora si alzò e rivolse il saluto a quella che suonava il flauto. Questa si fermò, smise di suonare e gli sorrise. Poi passò il flauto alla compagna che la seguiva e porse il braccio al giovane e un po’ impacciato cavaliere, il quale dopo aver fatto un grande inchino la guidò in una delicata danza, a cui ne seguirono molte altre, finché i due giovani, dimentichi di tutto, si scoprirono follemente innamorati. E così, al mattino, quando le due damigelle se ne furono andate, la fanciulla rosso vestita non esitò a seguire il Gioanì fino a casa sua.

La storia potrebbe anche finire qui, ma per completezza d’informazione resta da dire che i due innamorati coronarono ben presto il loro sogno con un bel matrimonio a cui seguirono anni d’amore e uno stuolo di bambini. E vissero felici e contenti. Questo dicono i più, ma qualcuno, a cui sembra dispiacere che possano esistere delle persone pienamente felici, ha insinuato un’altra conclusione. Si mormora, infatti, che la felicità del Gioanì e della sua amata sia durata solo qualche anno, poi un brutto giorno, durante una vivace discussione, il marito avrebbe osato colpire con uno schiaffo la bella moglie. Non l’avesse mai fatto! La donna, indignata, se ne scappò di casa, corse su per la montagna e sparì per sempre. Lui, incapace di sopportare la sua mancanza e in preda al rimorso per averla offesa, la cercò a lungo per ogni dove, trascorrendo intere notti sul luogo dove l’aveva incontrata. Tutto inutile. E una notte, durante una della tante affannose ricerche, precipitò in un burrone e morì, invocando il nome dell’amata.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La strega nel fenile della pastora di Poscante

Il Fienile della Pastora, è la prima stalla al di là del Ponte di Poscante e la gente diceva che lì dentro abitava una strega. E quando passavano da quel luogo, mettevano il ditone della mano destra tra l’indice e il medio, perché quello era un segno contro l’influenza maligna di quella strega che abitava nella stalla. Questa strega si aggirava per le vallette con in mano un tridente per acchiappare sirgagnole e topi per mangiare; e come frutta mangiava pastura di sabucco e pungitopo e beveva acqua marcia di stagno e quando si fermava, tutte le mosche le volavano addosso per l’odore che emanava.

S’aggirava per prati, dietro alle stalle e intorno alle case per stregare vacche cavalli porcelli e tutti gli animali domestici che vedeva. E andava anche nei boschi e tutti i nidi di uccelli che vedeva li abbatteva a sassate e uccideva tutte le bestie che trovava vaganti libere sulla madre terra. Un inverno un mandriano venuto dal Monte di Nese a Poscante per dar del fieno alle sue mucche, non sapeva che in quei posti girava la strega. Per di più il mandriano non aveva toccato il quadro del Sant’Antonio Abbandonato, che stava sulla porta della stalla e che è il protettore degli animali. La strega arriva sulla porta, e poi va dentro: e rapidamente tocca la pancia alle vacche che devono partorire. Arriva il mandriano nella stalla, s’accorge della strega e subito chiude la porta per non lasciarla scappare.

Prende in mano il tridente e, a colpi, batte e batte fin che l’ammazza. Ma le sue mucche, quelle da latte, son rimaste asciutte e ha dovuto abbatterle. E quelle che dovevano partorire sono morte nel parto. La gente di Poscante che e’ buona e di cuore, sia per il coraggio, sia per premiarlo perché li aveva liberati della strega, fece una raccolta di danaro in modo da ricompensarlo per il bestiame che aveva perduto. E la strega morta l’hanno trascinata giù dal pendio nel fondo della Valle e lì è stata coperta di ortiche e di spine.

Il Fienile della Pastora, è la prima stalla al di là del Ponte di Poscante e la gente diceva che lì dentro abitava una strega. E quando passavano da quel luogo, mettevano il ditone della mano destra tra l’indice e il medio, perché quello era un segno contro l’influenza maligna di quella strega che abitava nella stalla. Questa strega si aggirava per le vallette con in mano un tridente per acchiappare sirgagnole e topi per mangiare; e come frutta mangiava pastura di sabucco e pungitopo e beveva acqua marcia di stagno e quando si fermava, tutte le mosche le volavano addosso per l’odore che emanava.

S’aggirava per prati, dietro alle stalle e intorno alle case per stregare vacche cavalli porcelli e tutti gli animali domestici che vedeva. E andava anche nei boschi e tutti i nidi di uccelli che vedeva li abbatteva a sassate e uccideva tutte le bestie che trovava vaganti libere sulla madre terra. Un inverno un mandriano venuto dal Monte di Nese a Poscante per dar del fieno alle sue mucche, non sapeva che in quei posti girava la strega. Per di più il mandriano non aveva toccato il quadro del Sant’Antonio Abbandonato, che stava sulla porta della stalla e che è il protettore degli animali. La strega arriva sulla porta, e poi va dentro: e rapidamente tocca la pancia alle vacche che devono partorire. Arriva il mandriano nella stalla, s’accorge della strega e subito chiude la porta per non lasciarla scappare.

Prende in mano il tridente e, a colpi, batte e batte fin che l’ammazza. Ma le sue mucche, quelle da latte, son rimaste asciutte e ha dovuto abbatterle. E quelle che dovevano partorire sono morte nel parto. La gente di Poscante che e’ buona e di cuore, sia per il coraggio, sia per premiarlo perché li aveva liberati della strega, fece una raccolta di danaro in modo da ricompensarlo per il bestiame che aveva perduto. E la strega morta l’hanno trascinata giù dal pendio nel fondo della Valle e lì è stata coperta di ortiche e di spine.

Come se non bastassero i serpenti a rovinare la vita ai nostri antenati, ci si mettevano anche i gatti. Si racconta che un contadino, di ritorno dal lavoro nei campi, cominciò ad essere seguito da un grosso gatto, che non lo abbandonava finché non metteva piede in casa. Una sera, stanco di vedere questo gatto, gli diede una bastonata, colpendolo a una zampa e il gatto se ne fuggì zoppicando e miagolando mestamente. Il contadino, arrivato a casa, venne a sapere che poco prima la sua moglie era stata colpita da un pezzo di legna caduto da una catasta e aveva riportato la frattura di una gamba. Allora non poté fare a meno di pensare che quel gatto vendicativo altri non era se non la moglie che, sotto sembianze feline, lo seguiva chissà poi per quale strano motivo! A volte, però, i gatti tornavano anche utili all’uomo, come accadde a un giovane di Oltre il Colle che stava rientrando dal lavoro dopo aver ricevuto la paga mensile. Arrivato presso il ponte della Val Parina, il giovane vide in mezzo alla strada un grosso gatto che sembrava intenzionato a impedirgli di passare. Prima con le buone e poi con le cattive, cercò allora di scansare l’animale, ma questo rimaneva lì, imperterrito, con fare minaccioso, ben deciso a non arretrare di un passo. Il giovane, incapace di venire a capo di questa insolita situazione, finì col sedersi a lato della strada, sperando che il gatto decidesse finalmente di andarsene.

Aspetta e aspetta, passò parecchio tempo, ma il gatto non si muoveva. E fu un bene, perché di là dal ponte, appostati dietro un cespuglio, c’erano due briganti armati di bastoni, che attendevano il giovane per aggredirlo e derubarlo. Stanchi di aspettare e visto che la situazione non si sarebbe sbloccata, i due malfattori dovettero venire allo scoperto e il gatto si avventò contro di loro con tale furia da costringerli alla fuga nel fitto del bosco. Così il giovane poté riprendere il cammino e tornare a casa sano e salvo, convincendosi in cuor suo che quel gatto in verità non era altro che l’anima di un suo caro defunto, tornato sulla terra ad aiutarlo. Assai strano è anche il gatto parlante, protagonista di una storiella che si racconta a Casnigo. Si dice che una ragazza, mentre stava facendo ritorno a casa dopo una giornata di lavoro in filanda, incontrò un gatto che si diede a seguirla docilmente come un cagnolino. Arrivata fuori la ragazza si accostò alla fontanella che stava nel suo giardino e, dopo aver bevuto un sorso d’acqua, si mise a spogliarsi e a lavarsi, senza curarsi di chicchessia. Mentre era intenta a tale disinvolta operazione, la giovane notò che il gatto se ne stava lì vicino e la osservava con interesse ridendo di gusto! Infastidita dall’impertinenza del felino e stupefatta per quel singolare sorriso, la ragazza esclamò: “Toh, adesso mi tocca anche di vedere un gatto che ride!”. E prontamente il gatto, che non solo sapeva ridere, ma anche parlare, rispose: “E a me tocca di vedere una ragazza scostumata che si toglie i vestiti all’aria aperta!”.

Ed eccoci alla gatta cornia, detta da altri la gatta carogna e da altri ancora la gratta corna. Proprio quest’ultima accezione sembra meglio definire il senso che si vuole attribuire a questo essere difficilmente definibile, il cui ruolo sarebbe stato di corrodere le montagne, riempiendole di grotte e caverne, quasi che fosse una sorta di topo alle prese con una forma di cacio. La gatta cornia era un felino molto grosso, famelico e dal pelo nero, dotato di un paio di poderose corna, ed era solita uscire dalla sua tana nelle notti di luna piena per aggirarsi tra i boschi e le montagne nel vano tentativo di saziare il suo insaziabile appetito. Era difficile, se non impossibile sorprenderla, ma si potevano facilmente trovare i segni della sua presenza quando, andando a spasso tra i boschi, si notavano caverne sempre più profonde scavate nelle rocce calcaree. Questi scavi erano il frutto del lungo grattare della gatta cornia, la quale del resto non era cattiva e non aveva mai fatto male a nessuno, salvo recarsi nottetempo nelle camere dei bambini disubbidienti, sorprenderli nel sonno e grattare i loro morbidi piedini, facendoli svegliare di soprassalto per il fastidioso solletico.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Il morto che tirava le gambe di notte

Sul Monte di Zogno viveva una ragazza che si chiamava Teresina; la gente la chiamava Dispettina per i dispetti che faceva a tutti. Suo padre era in Francia a lavorare nei boschi e tagliare le piante; sua madre era in casa ma era mezza malata e camminava con le stampelle e aveva 2 figli ancora piccoli cui dare da mangiare. Teresina era la più grande dei figli e aveva quindici anni. E invece di essere quella che aiutava in casa, era quella che rispondeva male a sua madre e a tutti coloro che le dicevano qualche cosa; scappava spesso di casa per andare a giocare e fare scherzi alla gente che stava lavorando.

Andava nei campi a far dispetti; scuoteva gli alberi e faceva cadere le mele ancora verdi; strappava i cespi di cavoli ; tirava giù i baccelli dei fagioli e andava dove c’erano le cassette delle api e con un bastone le faceva scappare e poi fuggiva e le api pungevano la gente che passava da quelle parti. Un giorno sua madre dal balcone di casa la chiamava: “Teresinaaaa, Teresinaaa” ; ma lei pur essendo vicina, non rispondeva. In quel momento stava passando un vecchio con una gran barba: il vecchio disse: “Teresina, tua madre ti chiama”. Lei ribatte “Interessati delle tue faccende brutto pitocco” e prende dei sassi e li scaglia sulla testa del vecchio. Lui si ferma e dice: < Sei una ragazza cattiva, villana e dispettosa; ricordati che quando sarò morto verrò a tirarti le gambe >. Il vecchio venne a morire poco tempo dopo. Una sera mentre s’era già fatto buio, Teresina era ancora fuori casa; ha l’impressione che qualcuno la chiami per nome: “Teresina” e non vede nulla. Molto impressionata da quella strana voce, se ne va di corsa e senza dir nulla a nessuno, si mette a letto piena di paura. Ma quella sera non accadde più nulla. Sere dopo, sente ancora la voce che dice: “Teresina, sono qui sotto il portico” .

La notte seguente ecco ancora la voce che dice: < Teresina, sono qui sotto il portico >. La notte seguente ecco ancora la voce che < Teresina sono sul primo gradino > e di li’ a un momento “Teresina sono al secondo gradino” e di lì a poco “Teresina sono al terzo gradino”. La ragazza era a letto nella sua stanza, tremante di paura; batteva i denti come se avesse un gran freddo. Poi ecco che battono alla porta; e poi la porta si apre e poi la voce più vicina che dice: “Teresina ora ci sei”. E lei sente che qualcuno invisibile le gambe e tira e tira: così sviene per lo spavento. Rinvenne molto tempo dopo, ricordando tutto con spavento; fu allora che promise a se stessa a alla Madonna di essere savia; così suo padre e sua madre vissero contenti.

Sul Monte di Zogno viveva una ragazza che si chiamava Teresina; la gente la chiamava Dispettina per i dispetti che faceva a tutti. Suo padre era in Francia a lavorare nei boschi e tagliare le piante; sua madre era in casa ma era mezza malata e camminava con le stampelle e aveva 2 figli ancora piccoli cui dare da mangiare. Teresina era la più grande dei figli e aveva quindici anni. E invece di essere quella che aiutava in casa, era quella che rispondeva male a sua madre e a tutti coloro che le dicevano qualche cosa; scappava spesso di casa per andare a giocare e fare scherzi alla gente che stava lavorando.

Andava nei campi a far dispetti; scuoteva gli alberi e faceva cadere le mele ancora verdi; strappava i cespi di cavoli ; tirava giù i baccelli dei fagioli e andava dove c’erano le cassette delle api e con un bastone le faceva scappare e poi fuggiva e le api pungevano la gente che passava da quelle parti. Un giorno sua madre dal balcone di casa la chiamava: “Teresinaaaa, Teresinaaa” ; ma lei pur essendo vicina, non rispondeva. In quel momento stava passando un vecchio con una gran barba: il vecchio disse: “Teresina, tua madre ti chiama”. Lei ribatte “Interessati delle tue faccende brutto pitocco” e prende dei sassi e li scaglia sulla testa del vecchio. Lui si ferma e dice: < Sei una ragazza cattiva, villana e dispettosa; ricordati che quando sarò morto verrò a tirarti le gambe >. Il vecchio venne a morire poco tempo dopo. Una sera mentre s’era già fatto buio, Teresina era ancora fuori casa; ha l’impressione che qualcuno la chiami per nome: “Teresina” e non vede nulla. Molto impressionata da quella strana voce, se ne va di corsa e senza dir nulla a nessuno, si mette a letto piena di paura. Ma quella sera non accadde più nulla. Sere dopo, sente ancora la voce che dice: “Teresina, sono qui sotto il portico” .

La notte seguente ecco ancora la voce che dice: < Teresina, sono qui sotto il portico >. La notte seguente ecco ancora la voce che < Teresina sono sul primo gradino > e di li’ a un momento “Teresina sono al secondo gradino” e di lì a poco “Teresina sono al terzo gradino”. La ragazza era a letto nella sua stanza, tremante di paura; batteva i denti come se avesse un gran freddo. Poi ecco che battono alla porta; e poi la porta si apre e poi la voce più vicina che dice: “Teresina ora ci sei”. E lei sente che qualcuno invisibile le gambe e tira e tira: così sviene per lo spavento. Rinvenne molto tempo dopo, ricordando tutto con spavento; fu allora che promise a se stessa a alla Madonna di essere savia; così suo padre e sua madre vissero contenti.

Storie di briganti, più o meno famose e romanzesche, sono assai diffuse in tutta la Bergamasca, al punto che la loro narrazione potrebbe occupare un intero libro. In questa sede ci limitiamo a presentare solo alcuni esempi significativi, riferendo anche i casi documentati di due brigantesse che dimostrarono di non essere da meno dei loro più noti compari maschi. A metà dell’Ottocento imperversò in Val Taleggio il brigante Angelo Pessina, detto Tarfù. dal nome dialettale di una grossa larva che si annida nei tronchi degli alberi, di preferenza giovani noci, e si nutre della loro polpa, scavando lunghi cunicoli che arrecano danni gravi e talvolta irreparabili alla pianta. Essendo praticamente impossibile snidare il parassita senza danneggiare il legno, i contadini lo combattono introducendo nel cunicolo un tratto di miccia o uno stoppino imbevuto di liquido infiammabile a cui danno fuoco. Il Tarfù era arrivato in valle all’inizio del 1849, disertore dall’esercito austriaco, nelle cui fila aveva militato fino alla conclusione della guerra contro il Piemonte. L’esercito era in procinto di smobilitare e lui, come tanti altri, di fronte alla prospettiva di un lungo e ostile soggiorno in terra austriaca aveva preferito darsi alla macchia, cosa che del resto aveva già fatto, seppur per un breve periodo, tempo addietro. La Valle Taleggio parve al Pessina il luogo ideale per sfuggire alle ricerche delle forze dell’ordine: guai a farsi mettere le mani addosso dai gendarmi austriaci: essendo disertore recidivo, e per di più in stato di guerra, avrebbe rischiato la fucilazione.

All’inizio si era arrangiato alla meglio, in tutta solitudine, rubando nelle cascine lo stretto necessario per sopravvivere o dandosi alla cattura di uccelli, rane, lumache e quant’altro offrivano i boschi della valle. Ben presto, però, si accorse che ci poteva essere un altro e più redditizio mezzo per campare. Gli era capitato più volte di incontrare, nascosti nelle baite dell’Alben o del Baciamorti, degli sbandati o disertori suoi pari, gente che per un motivo o per l’altro aveva tutte le ragioni per stare alla larga dalla comunità civile, alcuni già dediti al brigantaggio organizzato, altri in procinto di aggregarsi in banda. Che cosa poteva rischiare il Pessina, diventando un brigante, oltre alla pena di morte già meritata con la diserzione? Tanto valeva vivere alla grande più a lungo che poteva, nella remota speranza che qualcosa potesse prima o poi cambiare. La prima rapina fu compiuta ai danni del parroco della Pianca, il quale fu aggredito nella sua canonica e derubato dei soldi e di altri oggetti di valore per l’importo di un migliaio di lire. Probabilmente il Tarfù ebbe in quella prima azione un ruolo subalterno, ma le sue doti di coraggio, l’abilità organizzativa e soprattutto la forte personalità lo portarono quasi subito alla guida del gruppo che verrà poi identificato col suo nome. Questa nuova leadership segnò un salto di qualità nelle successive imprese banditesche. Pochi giorni dopo l’aggressione al parroco della Pianca, la banda fu protagonista di un episodio clamoroso che ebbe per teatro il paese di Sottochiesa. Alla guida di una dozzina di briganti ben armati, il Tarfù penetrò nel municipio e sequestrò il sindaco Locatelli, chiedendo un riscatto di ben tredicimila lire.

Per tutta la giornata il paese rimase in balia dei malviventi che, per convincere la popolazione a consegnare il denaro, sottoposero il sequestrato a ripetuti maltrattamenti e minacce di morte. Alla fine le pretese dei sequestratori si ridussero a poco meno di duemila lire, che vennero effettivamente sborsate. Non senza che il Tarfù si prendesse un interesse supplementare, facendosi consegnare due marenghi d’oro dal vicesindaco, in cambio della garanzia che avrebbe usato la propria autorevole influenza sui compagni nel convincerli a ridimensionare le pretese. Ormai la banda era uscita allo scoperto: l’azione di Sottochiesa aveva rivelato l’identità dei suoi componenti e la polizia aveva spiccato mandati di cattura per ciascuno. Ma di tali mandati la banda Tarfù parve non tener minimamente conto, tanto è vero che mise a segno subito dopo un altro colpo. Calati su Cassiglio, in alta Valle Brembana, i malviventi assalirono l’abitazione di un commerciante e lo rapinarono di sedici talleri. Pochi giorni dopo fu la volta del santuario di Salzana, presso Pizzino, il cui cappellano fu fermato sul sagrato mentre era intento a leggere il breviario e costretto a consegnare i cinque franchi che aveva con sé. Dopo un periodo di oltre un anno, durante il quale dovettero cambiare aria per sfuggire alle attive ricerche dei gendarmi, il Tarfù e i suoi si rifecero vivi nell’agosto del 1850, a spese del parroco di Sottochiesa. Non che i preti, specie da quelle parti, fossero particolarmente ricchi, ma perché non erano pochi i parrocchiani che consegnavano al loro parroco i loro modesti gioielli di famiglia, ritenendo che nella canonica fossero al sicuro, senza contare poi le offerte che venivano fatte in chiesa.

Il parroco fece però in tempo a barricarsi in casa e i banditi non furono in grado di sfondare il robusto portone d’ingresso. Dopo aver cercato a lungo, ma inutilmente un’altra entrata, se ne dovettero andare, non prima però di aver fracassato a sassate alcuni vetri delle finestre. Poi la cattura, avvenuta verso l’autunno di quello stesso anno. La corte marziale lo dichiarò colpevole di duplice diserzione, oltre a rapine, furti e violenze e lo condannò a morte per impiccagione. La sentenza, confermata dal comando militare di Verona, venne eseguita a Bergamo il 28 gennaio 1851. Unica concessione del comando militare, la commutazione delle modalità di esecuzione: alla forca venne sostituita la fucilazione. Un tempo la mulattiera che da Zogno porta al Monte di Nese era assai praticata perché era uno dei percorsi più agevoli per raggiungere la Valle Seriana e Bergamo dalla Valle Brembana. Quanti si recavano da una valle all’altra per trasportare, a dorso di asino o mulo, i loro prodotti, erano soliti sostare in località Gromasnì, un piccolo spiazzo erboso vicino ad una fresca sorgente che sgorga ancora oggi abbondante. Non di rado quello spiazzo era luogo d’incontro e scambio di merci tra mercanti, una specie di mercato dove i prodotti portati dalla città venivano scambiati con quelli delle vallate. Nel 1848 quel luogo fu teatro di un sanguinosa rapina compiuta da una banda di briganti capeggiati da una donna. Vittima della rapina, conclusasi tragicamente, fu Giovan Battista Calvi, un contadino di Poscante il quale si era recato a Bergamo, attraverso la strada del Monte di Nese, per vendere una sua mucca. Passando per Valtesse, era stato notato dalla levatrice del paese, la stessa che faceva servizio anche a Poscante. Costei, appurato che il contadino sarebbe stato di ritorno in serata, senza la mucca, ma con un bel gruzzolo di almeno duecento lire, corse ad avvertire i briganti dell’imminente possibilità di fare un po’ di soldi senza troppe complicazioni. Fu così che levatrice e briganti si appostarono nei pressi della sorgente di Gromasnì, in attesa del ritorno del Calvi, il quale infatti a tarda sera aveva preso la strada di casa, assieme a un compaesano.

Giunto al luogo dell’agguato, il Calvi fu facilmente immobilizzato dai briganti, che erano mascherati e per di più protetti dal buio. Lasciato andare il compagno, si diedero a perquisire il Calvi per sottrargli il denaro, ma il malcapitato, nel tentativo di sottrarsi alla rapina, strappò la maschera alla levatrice e la riconobbe. Costei, allora, per non farsi denunciare, cavò di tasca un lungo coltello e glielo conficcò in un fianco, poi si diede alla fuga con il resto della compagnia, convinta di averlo ucciso. Nel frattempo il compagno di viaggio era giunto a Poscante ed aveva dato l’allarme. I parenti e gli amici del rapinato si precipitarono a prestargli soccorso, ma lo trovarono ormai dissanguato e in fin di vita. Prima di spirare il poveretto ebbe però il tempo di denunciare la colpevole, che pochi giorni dopo venne arrestata, condannata a morte ed impiccata sugli spalti della Fara a Bergamo. Fu l’ultima esecuzione della giustizia austriaca prima delle rivolte patriottiche del 1848. La storia di un’altra brigantessa è ambientata nella media Valle Seriana e precisamente ad Abbazia di Albino dove c’era un’osteria gestita da un’ostessa talmente bella e gentile da richiamare nel locale la migliore clientela della zona. L’ostessa si intratteneva volentieri a chiacchierare con gli avventori e sempre si dimostrava disponibile verso ogni loro esigenza, ma sotto l’apparenza così a modo si celava una ben diversa realtà: la donna era niente meno che a capo di una banda di briganti i quali imperversavano nella media valle e tenevano la base operativa in una caverna del monte Misma, dove nascondevano il bottino e si riunivano per progettare nuove aggressioni ai danni dei malcapitati viandanti che percorrevano le buie strade della zona.

L’ostessa, di notte, si travestiva da uomo e con i capelli che le coprivano le guance simulava una lunga barba biondiccia. Tuttavia non era proprio così malvagia come potrebbe sembrare, infatti, quando nella sua osteria capitava qualche individuo che le andava a genio, faceva di tutto per convincerlo a non inoltrarsi di notte lungo strade deserte e sconosciute e in tal modo gli evitava di cadere nelle mani dei briganti. Ovviamente questo strano comportamento dell’ostessa riguardava solo gli avventori a lei simpatici e solitamente persone giovani ed eleganti, mentre per tutti gli altri non c’era scampo. Fortunato fu quel giovane medico che si era fermato all’osteria per bersi un bicchiere di vino ed essendo ormai prossima la notte fu più volte avvertito dalla donna di non mettersi in viaggio a quell’ora, perché correva il rischio di brutti incontri. Ma siccome il medico non voleva saperne e insisteva per riprendere il viaggio, avendo urgenza di visitare alcuni suoi pazienti, l’ostessa volle a tutti i costi farlo accompagnare da un suo figliolo. La mattina dopo giunse notizia di una sanguinosa aggressione compiuta dalla solita banda ai danni di alcuni mercanti di ritorno dalla fiera di Bergamo. La rapina era stata compiuta proprio lungo la strada dove era da poco transitato anche il giovane medico, il quale ne era però uscito incolume proprio perché in compagnia del ragazzo. Le preziose informazioni fornite alla polizia da alcuni viandanti che erano riusciti a fuggire consentirono di arrestare il marito e il fratello della bella ostessa, la quale risultò pure implicata nell’azione e nel processo che ne seguì si beccò dieci anni di galera.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001