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Categoria: Leggende

Ifuochi di Sant’Antonio

Molti anni fa, a Poscante, c’era una famiglia i cui componenti si dilettavano a suonare gli strumenti musicali ed in particolare il baghèt, o piva delle Alpi, con il quale erano soliti allietare le feste popolari, recandosi nelle contrade dei dintorni per offrire ai paesani quelle rare occasioni di svago consentite dai rigidi costumi di allora. Andavano nei paesi senza altro scopo che di festeggiare e fare baldoria, portando al seguito un asinello carico di una botticella di vino da vendere alle allegre compagnie che li aspettavano per concludere in bellezza una giornata vissuta all’insegna del divertimento, prima di riprendere all’indomani le consuete fatiche quotidiane. Una sera questi suonatori erano partiti, come al solito, col loro carico di vino e strumenti musicali e si erano diretti al Monte di Nese per la festa di Sant’Antonio abate. Arrivati nei pressi della Forcella, dalla quale si scollina per scendere lungo il versante opposto, fecero una breve sosta e, volgendosi verso Poscante, notarono con spavento che una casa del paese era avvolta nelle fiamme. Guardarono meglio e si accorsero che la casa incendiata era proprio la loro. In preda ad una forte preoccupazione, tornarono di corsa verso Poscante, nel disperato tentativo di spegnere le fiamme e salvare almeno qualcosa delle loro masserizie; ma arrivati in prossimità del paese si avvidero, con grande stupore, che non c’era nessun incendio: tutto era tranquillo e le famiglie erano ormai andate a dormire. Ripresero allora la strada verso il Monte di Nese, ma ecco che, giunti alla Forcella, si ripeté lo stesso fenomeno di poco prima e la loro casa apparve nitidamente avvolta dalle fiamme.

Altra corsa precipitosa verso Poscante ed altro stupore nel notare che non era in corso nessun incendio. Però, per meglio sincerarsi, questa volta raggiunsero la loro casa dove trovarono i parenti tranquillamente addormentati. Di nuovo risalirono, pur con malavoglia, verso la Forcella dove per la terza volta si ripeté la visione della loro casa in preda ad un furioso incendio. Questa volta il ritorno verso Poscante fu meno precipitoso, ma accompagnato da un’attenta riflessione sul possibile significato di quel fenomeno, che la compagnia interpretò, alla fine, come un monito di Sant’Antonio a rimanersene a casa e smettere di portare nei paesi vicini occasioni di festa peccaminosa, perché basata sul ballo e sulle abbondanti bevute. Quella sera i suonatori fecero voto a Sant’Antonio di porre fine alla loro festosa attività e di dedicare l’intera giornata della festa del santo abate ad onorarne la memoria. La festa fu rispettata anche negli anni seguenti e da allora pare che i Cornolti, questo era il casato dei suonatori, abbiano sempre mantenuto la promessa.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Molti anni fa, a Poscante, c’era una famiglia i cui componenti si dilettavano a suonare gli strumenti musicali ed in particolare il baghèt, o piva delle Alpi, con il quale erano soliti allietare le feste popolari, recandosi nelle contrade dei dintorni per offrire ai paesani quelle rare occasioni di svago consentite dai rigidi costumi di allora. Andavano nei paesi senza altro scopo che di festeggiare e fare baldoria, portando al seguito un asinello carico di una botticella di vino da vendere alle allegre compagnie che li aspettavano per concludere in bellezza una giornata vissuta all’insegna del divertimento, prima di riprendere all’indomani le consuete fatiche quotidiane. Una sera questi suonatori erano partiti, come al solito, col loro carico di vino e strumenti musicali e si erano diretti al Monte di Nese per la festa di Sant’Antonio abate. Arrivati nei pressi della Forcella, dalla quale si scollina per scendere lungo il versante opposto, fecero una breve sosta e, volgendosi verso Poscante, notarono con spavento che una casa del paese era avvolta nelle fiamme. Guardarono meglio e si accorsero che la casa incendiata era proprio la loro. In preda ad una forte preoccupazione, tornarono di corsa verso Poscante, nel disperato tentativo di spegnere le fiamme e salvare almeno qualcosa delle loro masserizie; ma arrivati in prossimità del paese si avvidero, con grande stupore, che non c’era nessun incendio: tutto era tranquillo e le famiglie erano ormai andate a dormire. Ripresero allora la strada verso il Monte di Nese, ma ecco che, giunti alla Forcella, si ripeté lo stesso fenomeno di poco prima e la loro casa apparve nitidamente avvolta dalle fiamme.

Altra corsa precipitosa verso Poscante ed altro stupore nel notare che non era in corso nessun incendio. Però, per meglio sincerarsi, questa volta raggiunsero la loro casa dove trovarono i parenti tranquillamente addormentati. Di nuovo risalirono, pur con malavoglia, verso la Forcella dove per la terza volta si ripeté la visione della loro casa in preda ad un furioso incendio. Questa volta il ritorno verso Poscante fu meno precipitoso, ma accompagnato da un’attenta riflessione sul possibile significato di quel fenomeno, che la compagnia interpretò, alla fine, come un monito di Sant’Antonio a rimanersene a casa e smettere di portare nei paesi vicini occasioni di festa peccaminosa, perché basata sul ballo e sulle abbondanti bevute. Quella sera i suonatori fecero voto a Sant’Antonio di porre fine alla loro festosa attività e di dedicare l’intera giornata della festa del santo abate ad onorarne la memoria. La festa fu rispettata anche negli anni seguenti e da allora pare che i Cornolti, questo era il casato dei suonatori, abbiano sempre mantenuto la promessa.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Si va indietro molti anni: a quel tempo quelli che passavano per la Valle di Poscante di notte e da soli, vedevano o sentivano gli spiriti; e molti che avevano qualche conto da rendere alla giustizia del Signore, passavano pieni di paura. Lungo questa strada si incontravano tre chiesine votive; una notte un uomo che veniva da Zogno per andare a casa sua a Poscante, arrivato alla prima cappelletta, vede davanti al cancello un prete che pregava a voce bassa, tenendo in mano un libro. Lui per essere bene educato lo saluta, ma il prete non risponde. L’uomo allora continua la sua strada, ma quando arriva vicino alla seconda cappelletta, sente come un uomo che brontola e si ferma; si guarda da ogni parte, ma non riesce a vedere nessuno. Fa due passi indietro e improvvisamente rivede lo stesso prete che stava davanti alla seconda cappelletta.

Il prete aveva in mano un libro più grande di quello di prima e pregava con voce più forte. Lui lo saluta ancora e però si sente preoccupato per quello che vede e se ne va via subito di buon passo, senza voltarsi indietro a guardare. Allorché’ giunge in vista della terza cappelletta, sente la voce del prete che prega ancora più forte; si ferma di nuovo mentre il cuore gli batte forte; si fa coraggio e si avvia per la strada che passa accanto alla cappelletta. Il prete era li davanti che pregava con voce ancora più alta: il prete ha in mano un grande foglio di carta bianca e lo porge all’uomo. Lui lo guarda in faccia e s’accorge che il prete e’ uno scheletro vestito da prete: l’uomo resta impietrito e fermo a guardare e intanto il prete scheletro se ne va leggero come l’aria, si allontana e poi sparisce del tutto. Il poveretto, spaurito, guarda il foglio che tiene in mano e vede che c’è scritto l’indirizzo del parroco di Poscante: senza perdere tempo corre a portarglielo.

Il foglio era tutto bianco, ma quando il parroco lo ha preso nelle sue mani si son viste comparire parole scritte; ma solo lui era in grado di leggerle. L’uomo che aveva portato il foglio non poteva capirle. Dopo che il prete le lesse fino in fondo, il foglio ritornò bianco. L’uomo era molto spaventato, ma il parroco di Poscante gli disse che non doveva aver paura, spiegò che lo scheletro che aveva visto era quello di un prete che aveva bisogno di bere per lui e per tutti i morti del paese.

Il carbonaio impazzito

Si narra che in certe giornate di pioggia, nei fitti boschi che ricoprono le pendici dell’Alben, può capitare di sentire il pianto inconsolabile di un bambino, accompagnato dalla lamentosa ninna nanna della sua mamma, che cerca invano di farlo addormentare. Secondo qualcuno, il fenomeno ha una precisa spiegazione e si riferisce a un tragico episodio di parecchi anni fa, al tempo in cui non pochi abitanti di Serina e dei paesi limitrofi campavano facendo il boscaiolo o il carbonaio. Uno di questi viveva con la moglie e il figlioletto in una baita posta nel sito detto Caàgna róta. Era un individuo irascibile e violento, un attaccabrighe sempre pronto a passare a vie di fatto con chiunque e specie con la moglie, e non era per niente tenero nemmeno col bambino. Madre e figlio erano tranquilli solo quando il taglialegna era fuori, alle prese con robusti alberi da abbattere e da ridurre in ceppi minuti, atti ad alimentare il grosso poiàt che fumava senza sosta al centro della piatta aiàl situata nei pressi della baita. Dovendo tenere costantemente d’occhio il poiàt, per alimentarlo con nuovi ceppi o regolare l’intensità della combustione, aprendo o chiudendo ad arte i fori del tiraggio praticati nello spesso strato di fango secco che rivestiva la catasta, il carbonaio non poteva starsene a lungo nella baita, neppure di notte, ma vi entrava solo per mangiare, rimproverando aspramente la moglie se il cibo non era pronto o non era di suo gradimento.

Nemmeno i momenti per il riposo erano frequenti, così, tra alberi abbattuti e ceppi da spaccare e ridurre in carbone, il poveruomo era sempre stanco e scontento. Guai a disturbarlo quando si appisolava, appoggiando la testa sulla tavola, subito dopo aver divorato una fetta di polenta e stracchino e tracannato un paio di bicchieri di vino! Capitò che una sera, tornato a baita al termine di una giornata piovosa che l’aveva fatto dannare, tra lampi e tuoni, senza consentirgli di concludere un gran che, invece della solita cena pronta in tavola, trovò la moglie intenta a cullare il bambino che si lamentava e piangeva in preda a forti dolori di pancia. È a questo punto che la storia assume toni grotteschi e truculenti, mostrandoci la folle natura di un uomo che, per la verità, non trova rispondenza in generazioni di operosi montanari brembani. Per farla breve, si racconta che il boscaiolo, stanco e affamato e irritato perché la moglie non gli prestava attenzione e il figlioletto lo infastidiva con il suo pianto incessante, fu assalito da una collera incontrollabile: non più padrone di sé, abbrancò il bambino, uscì fuori dalla baita urlando, corse fino all’aiàl e lo infilò nella bocca del poiàt, facendolo bruciare tra orribili tormenti. Quindi prese la moglie che gli si era avventata contro urlante, nel vano tentativo di impedirgli questo gesto efferato, e scaraventò anche lei nel poiàt. Consumato l’orrendo duplice delitto e resosi conto della gravità del suo gesto, si diede a correre nel bosco, urlando e invocando il nome della moglie e del figlio. Lo trovarono alcuni giorni dopo le guardie inviate alla sua ricerca, morto sfracellato in fondo a un dirupo. Ecco quindi che anche la montagna, come commossa dall’atroce scena a cui aveva assistito impotente, sembra aver serbato il ricordo del dolore di una mamma e del suo bambino, facendo riecheggiare nei secoli le loro voci disperate.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Si narra che in certe giornate di pioggia, nei fitti boschi che ricoprono le pendici dell’Alben, può capitare di sentire il pianto inconsolabile di un bambino, accompagnato dalla lamentosa ninna nanna della sua mamma, che cerca invano di farlo addormentare. Secondo qualcuno, il fenomeno ha una precisa spiegazione e si riferisce a un tragico episodio di parecchi anni fa, al tempo in cui non pochi abitanti di Serina e dei paesi limitrofi campavano facendo il boscaiolo o il carbonaio. Uno di questi viveva con la moglie e il figlioletto in una baita posta nel sito detto Caàgna róta. Era un individuo irascibile e violento, un attaccabrighe sempre pronto a passare a vie di fatto con chiunque e specie con la moglie, e non era per niente tenero nemmeno col bambino. Madre e figlio erano tranquilli solo quando il taglialegna era fuori, alle prese con robusti alberi da abbattere e da ridurre in ceppi minuti, atti ad alimentare il grosso poiàt che fumava senza sosta al centro della piatta aiàl situata nei pressi della baita. Dovendo tenere costantemente d’occhio il poiàt, per alimentarlo con nuovi ceppi o regolare l’intensità della combustione, aprendo o chiudendo ad arte i fori del tiraggio praticati nello spesso strato di fango secco che rivestiva la catasta, il carbonaio non poteva starsene a lungo nella baita, neppure di notte, ma vi entrava solo per mangiare, rimproverando aspramente la moglie se il cibo non era pronto o non era di suo gradimento.

Nemmeno i momenti per il riposo erano frequenti, così, tra alberi abbattuti e ceppi da spaccare e ridurre in carbone, il poveruomo era sempre stanco e scontento. Guai a disturbarlo quando si appisolava, appoggiando la testa sulla tavola, subito dopo aver divorato una fetta di polenta e stracchino e tracannato un paio di bicchieri di vino! Capitò che una sera, tornato a baita al termine di una giornata piovosa che l’aveva fatto dannare, tra lampi e tuoni, senza consentirgli di concludere un gran che, invece della solita cena pronta in tavola, trovò la moglie intenta a cullare il bambino che si lamentava e piangeva in preda a forti dolori di pancia. È a questo punto che la storia assume toni grotteschi e truculenti, mostrandoci la folle natura di un uomo che, per la verità, non trova rispondenza in generazioni di operosi montanari brembani. Per farla breve, si racconta che il boscaiolo, stanco e affamato e irritato perché la moglie non gli prestava attenzione e il figlioletto lo infastidiva con il suo pianto incessante, fu assalito da una collera incontrollabile: non più padrone di sé, abbrancò il bambino, uscì fuori dalla baita urlando, corse fino all’aiàl e lo infilò nella bocca del poiàt, facendolo bruciare tra orribili tormenti. Quindi prese la moglie che gli si era avventata contro urlante, nel vano tentativo di impedirgli questo gesto efferato, e scaraventò anche lei nel poiàt. Consumato l’orrendo duplice delitto e resosi conto della gravità del suo gesto, si diede a correre nel bosco, urlando e invocando il nome della moglie e del figlio. Lo trovarono alcuni giorni dopo le guardie inviate alla sua ricerca, morto sfracellato in fondo a un dirupo. Ecco quindi che anche la montagna, come commossa dall’atroce scena a cui aveva assistito impotente, sembra aver serbato il ricordo del dolore di una mamma e del suo bambino, facendo riecheggiare nei secoli le loro voci disperate.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Quando i Laghi Gemelli erano proprio gemelli, cioè due limpidi specchi d’acqua circondati da una corona di montagne, appena separati da una stretta lingua di terra, e non erano ancora stati fusi in un solo bacino dalle impellenti esigenze del progresso, attorno alla loro origine sorse una leggenda che per la verità è assai triste, ma forse rispecchia la realtà dei tempi in cui è scaturita dalla fantasia popolare. Si racconta che la figlia di un ricco possidente di Branzi era innamorata di un pastore della Valle Taleggio, dal quale era teneramente ricambiata.

Il loro amore era però risolutamente ostacolato dalla famiglia della ragazza che avrebbe preferito per lei un partito migliore di quanto non costituisse quel modesto pastore, costretto ogni anno ad andare in cerca di lavoro, accudendo a pecore e capre che si faceva affidare da allevatori della zona per portarle a pascolare sulle montagne dell’alta Valle Brembana.

La ragazza era stata da tempo promessa dal padre a un proprietario di fucine della Val Fondra, piuttosto attempato e per nulla piacente, ma assai ricco e influente nella vita politica ed economica della zona. Come si sa, in queste faccende nemmeno le lacrime più strazianti e le suppliche più insistenti possono sortire un qualche effetto, e così l’infelice ragazza, dopo aver inutilmente dato fondo a tutte le sue risorse di convincimento, dovette prendere atto, con il più grande sconforto, che il suo destino era segnato e la condannava a passare il resto della sua vita accanto ad un uomo che non amava e non avrebbe mai amato. Così, mentre si avvicinava il giorno delle nozze, fissate in tutta fretta proprio per togliere di mezzo ogni possibile interferenza nei programmi prestabiliti, l’infelice ragazza trascinava stancamente le sue giornate, monotone e senza speranza, tutta sola, chiusa nella sua cameretta, con le mani abbandonate in grembo e gli occhi persi nello spazio indefinito, sospirando l’amore impossibile per il suo bel pastorello.

Costui nel frattempo si trovava sui monti col suo gregge ed era ben consapevole dei progetti che riguardavano la sua amata, dai quali era stato. drasticamente escluso con la perentoria minaccia di non farsi più vedere dalle parti di Branzi, se ci teneva alla vita. Ma come accade sovente, specie nelle leggende, la ragazza non si rassegnava a perdere il suo amore, così cominciò a non mangiare più e a dar segni di squilibrio mentale, al punto da sembrare uscita di senno.

Il padre ricorse a ogni mezzo per riportare la figlia in buona salute, interpellò tutti i medici della valle e scese fino a Bergamo per consultarsi con i luminari di allora, ma non ottenne nessun risultato. Finalmente un giorno si presentò nella casa della fanciulla un medico che all’apparenza non dava particolari garanzie di professionalità, in quanto oltre che assai giovane era anche vestito in modo piuttosto dimesso e si esprimeva con un linguaggio non proprio all’altezza di un uomo di scienza.

Ma pur di salvare la figlia, il padre accettò anche le prescrizioni di quel mediconzolo che, per la verità, si mostrava assai sollecito e puntuale nel recarsi tutti i giorni a visitare la giovane paziente. Nell’incredulità generale, la ragazza cominciò come per incanto a migliorare: tornò a sorridere e a parlare, riprese a mangiare con gusto e in fretta le suo gote ridivennero rosee e pienotte. Sembrava di nuovo innamorata della vita. Ormai anche il più distratto dei lettori avrà intuito la vera identità di quell’improbabile medico e si sarà fatta un’idea della natura delle cure a cui era sottoposta la ragazza. Infatti egli altri non era se non il pastore che, approfittando dell’equivoco sulla sua identità, non passava giorno che non si incontrasse con la sua bella per trascorrere con lei momenti meravigliosi, coperti dalla scusa della riservatezza di una visita medica. Ma ovviamente il gioco non poteva protrarsi troppo a lungo e se i due innamorati fossero stati scoperti avrebbero pagato caro quell’inganno.

D’altronde essi non erano per nulla disposti a lasciare che le cose tornassero come prima, così decisero di scappare per cercare di coronare il loro sogno d’amore lontano dalla valle. Una notte, dopo aver preparato un fagotto con poche cose, lasciarono di nascosto il paese e, per evitare il rischio di essere scoperti, preferirono non scendere verso il fondovalle, ma scelsero di seguire la strada più difficile delle montagne, che il pastore conosceva bene perché vi portava le sue bestie al pascolo.

Di buona lena salirono lungo il sentiero della Val Borleggia e in fretta arrivarono al Piano delle Casere, ma quando si fermarono per riposare un attimo udirono il suono delle campane a martello proveniente dal campanile di Branzi: la loro fuga era stata scoperta e in paese si stavano organizzando per venire a riprenderli. Più disperati che mai, ripresero il cammino quasi di corsa, ma raggiunte le pendici del monte Farno, la ragazza, nel superare un tratto piuttosto impervio, mise un piede in fallo e scivolò.

Nella caduta batté la testa contro un sasso e rimase a terra svenuta. Il pastore, dopo aver cercato inutilmente di farla rinvenire, udendo in lontananza i richiami delle persone mandate alla loro ricerca, prese la ragazza tra le braccia e si mise a correre su per la montagna, incurante dei pericoli. Per il buio fitto il sentiero era quasi invisibile e così ad un certo punto, ormai allo stremo delle forze, il pastorello perse l’orientamento e si trovò a procedere in un luogo scosceso e impraticabile.

Ancora qualche passo incerto e poi una scivolata sui sassi di un ghiaione. E i due poveri innamorati precipitarono, stretti in un abbraccio estremo e disperato, fino al fondo di un precipizio. Nel luogo dove caddero i loro miseri corpi si aprirono due conche circolari dalle quali cominciarono a sgorgare due limpide polle d’acqua che, zampillando senza sosta, formarono due laghetti quasi della stessa forma e dimensione: i laghi Gemelli. Ai giorni nostri la costruzione della diga ha decisamente trasformato il paesaggio, ma volendo restare nella leggenda si potrebbe affermare che finalmente i laghetti dei due innamorati si sono fusi in uno solo, a coronare per sempre il loro sogno d’amore…

Una messa sacrilega in Val Vedra di Oltre il Colle

La Val Vedra è un’ampia conca verde che si estende a monte di Zorzone, in quel di Oltre il Colle, fino all’omonimo passo, in prossimità del lago Branchino. Nella parte più settentrionale è delimitata dalle cime calcaree del monte Vetro e della Corna Piana, habitat naturale di camosci e caprioli e regno delle stelle alpine. Oggi questa zona è una delle più interessanti dal punto di vista naturalistico dell’intera Valle Brembana: a due passi si snoda il “Sentiero dei Fiori” che guida gli amanti della natura alla scoperta della flora spontanea orobica, sottoponendo alla loro attenzione numerose specie assai rare e alcune addirittura endemiche, cioè esclusive di questa zona. I monti circostanti e il lago Branchino sono la meta preferita degli escursionisti che desiderano trascorrere alcune ore all’aria aperta. I verdi pascoli della vallata risuonano, durante la stagione estiva, dei campanacci delle mandrie portate in alpeggio. Eppure a questa valle è legata una tradizione assai sinistra: si racconta, infatti, che nella verde distesa delle malghe esiste un’area sulla quale è impossibile far pascolare le mandrie o le greggi, un’area stregata, che tiene lontani gli animali, come se fossero respinti da una forza oscura e misteriosa. La ragione c’è, almeno nella leggenda, e deriva da un atto sacrilego commesso tanti anni fa da un mandriano.

Che la vita degli alpeggiatori sia piuttosto difficile e non abbia molto da spartire con il risvolto bucolico che qualche profano di città ha voluto ricamarci attorno è un dato di fatto, almeno per chi ha frequentato da vicino l’ambiente. Giornate monotone, costellate dalle immutabili occupazioni quotidiane: la mattina sveglia all’alba e subito al lavoro, la sera non è mai ora di tornare a baita. Poco male quando splende il sole, la natura è allegra, le bestie sono tranquille, ma si sa che l’estate sui monti è avara di bel tempo. E lassù quando piove è davvero un guaio: i temporali fanno paura, lampi e tuoni sono vicinissimi e continuano minacciosi per ore, il vento sembra squarciare il tetto della baita e non di rado cade la grandine. Eppure bisogna andare: riparati da grossi tabarri e da pesanti e variopinti ombrelli, si corre a radunare la mandria spaventata, sistemare i recinti, abbeverare, mungere, curare i capi ammalati, e poi, portare il latte nella casera, preparare il formaggio, riparare gli attrezzi. Sempre lo stesso lavoro, giorno dopo giorno, da giugno a settembre. Ai nostri giorni qualcosa è cambiato: qualche diversivo è offerto dall’arrivo abituale degli escursionisti che si fermano volentieri fuori della baita a scambiare quattro chiacchiere con i malgari, oppure si può anche imbastire una certa turnazione che consente di scendere ogni tanto a valle, approfittando anche dei tracciati carrozzabili che ormai raggiungono buona parte degli alpeggi. Ma un tempo non c’erano nemmeno queste piccole alternative: la stagione estiva era una specie di esilio montano per i mandriani e le loro famiglie. C’era però un dovere sacrosanto per tutti gli adulti: quello di scendere ogni domenica nel paese più vicino per assistere alla messa che per forza di cose non poteva che essere quella delle ore antelucane. E guai a trasgredire il precetto!

Era un impegno non indifferente, che costringeva a levatacce proibitive per scendere a valle e risalire dopo qualche ora, in tempo per avviare la consueta giornata d’alpeggio. Fu così che un certo giorno un mandriano che non ne poteva più di queste continue discese e risalite domenicali ebbe l’originale pensata di sostituirsi al parroco e di celebrare lui stesso la messa, convincendo i suoi colleghi a parteciparvi. Costruito con dei sassi un altare, presa una tazza piena di latte, indossate come paramenti alcune coperte stracce, diede inizio alla funzione. Assistito da due compari che fungevano da chierichetti, attorniato dagli altri alpeggiatori, il mandriano promotore dell’iniziativa iniziò a scimmiottare i riti propri della messa, storpiando le preghiere in latino, imitando alla meglio i canti liturgici e rivolgendo ai presenti perfino due parole di omelia. Ma proprio mentre il sacrilego si accingeva a pronunciare la sacra formula della consacrazione, ecco che l’aria fu squarciata da un tuono spaventoso, accompagnato da una bufera impetuosa che oscurò il sole e annebbiò tutta la vallata. Poi sotto i piedi di quel gruppo di disgraziati si spalancò una profonda voragine che inghiottì l’altare e tutti i presenti, tra urla spaventose. Le fiamme dell’Inferno lambirono per un attimo la voragine, che in breve si richiuse lasciando la vallata deserta e animata solo dai muggiti lamentosi delle mucche nei loro recinti. Ancora oggi c’è qualche mandriano o cacciatore che di tanto in tanto, passando da quelle parti, asserisce di avvertire l’eco di voci supplicanti, al punto che, memore della leggenda, corre ad avvertire qualche prete perché salga a benedire la vallata.

Ma c’è dell’altro. Poco lontano da quella valle, si trova la conca del Pradello, tra i monti Arera e Grem. Questa zona è teatro di un altro fenomeno difficilmente spiegabile. Si narra che a qualche mandriano capita ogni tanto di assistere a una strana processione. Accompagnato da un sommesso salmodiare, si svolge un lungo e solenne corteo di disciplini che, vestiti della loro tunica bianca e della mantellina rossa, con in mano un grosso cero, fanno lunghi giri tra rocce e dirupi, arrivando fin presso le baite e passando tra le mucche e le persone, incuranti di tutto, finché raggiunta una caverna che si apre sul fianco della montagna, vi penetrano uno dopo l’altro, scomparendo nel nulla. Chi siano questi personaggi d’oltretomba nessuno lo sa con precisione, però c’è chi suppone che il fenomeno sia legato alla presenza in quella zona, fin dai tempi antichi, di profonde miniere che hanno costituito per secoli la principale fonte di sostentamento per la gente della zona, ma hanno determinato anche tanti lutti per la morte tragica di centinaia di minatori. Forse si tratta delle anime di questi minatori, morti sul lavoro e senza il conforto dei sacramenti, che ritornano nottetempo sulla terra a chiedere una preghiera che li aiuti a uscire dal Purgatorio. O forse sono i mandriani sacrileghi della Val Vedra condannati ad espiare con questa solenne cerimonia il castigo per il loro gesto inconsulto.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La Val Vedra è un’ampia conca verde che si estende a monte di Zorzone, in quel di Oltre il Colle, fino all’omonimo passo, in prossimità del lago Branchino. Nella parte più settentrionale è delimitata dalle cime calcaree del monte Vetro e della Corna Piana, habitat naturale di camosci e caprioli e regno delle stelle alpine. Oggi questa zona è una delle più interessanti dal punto di vista naturalistico dell’intera Valle Brembana: a due passi si snoda il “Sentiero dei Fiori” che guida gli amanti della natura alla scoperta della flora spontanea orobica, sottoponendo alla loro attenzione numerose specie assai rare e alcune addirittura endemiche, cioè esclusive di questa zona. I monti circostanti e il lago Branchino sono la meta preferita degli escursionisti che desiderano trascorrere alcune ore all’aria aperta. I verdi pascoli della vallata risuonano, durante la stagione estiva, dei campanacci delle mandrie portate in alpeggio. Eppure a questa valle è legata una tradizione assai sinistra: si racconta, infatti, che nella verde distesa delle malghe esiste un’area sulla quale è impossibile far pascolare le mandrie o le greggi, un’area stregata, che tiene lontani gli animali, come se fossero respinti da una forza oscura e misteriosa. La ragione c’è, almeno nella leggenda, e deriva da un atto sacrilego commesso tanti anni fa da un mandriano.

Che la vita degli alpeggiatori sia piuttosto difficile e non abbia molto da spartire con il risvolto bucolico che qualche profano di città ha voluto ricamarci attorno è un dato di fatto, almeno per chi ha frequentato da vicino l’ambiente. Giornate monotone, costellate dalle immutabili occupazioni quotidiane: la mattina sveglia all’alba e subito al lavoro, la sera non è mai ora di tornare a baita. Poco male quando splende il sole, la natura è allegra, le bestie sono tranquille, ma si sa che l’estate sui monti è avara di bel tempo. E lassù quando piove è davvero un guaio: i temporali fanno paura, lampi e tuoni sono vicinissimi e continuano minacciosi per ore, il vento sembra squarciare il tetto della baita e non di rado cade la grandine. Eppure bisogna andare: riparati da grossi tabarri e da pesanti e variopinti ombrelli, si corre a radunare la mandria spaventata, sistemare i recinti, abbeverare, mungere, curare i capi ammalati, e poi, portare il latte nella casera, preparare il formaggio, riparare gli attrezzi. Sempre lo stesso lavoro, giorno dopo giorno, da giugno a settembre. Ai nostri giorni qualcosa è cambiato: qualche diversivo è offerto dall’arrivo abituale degli escursionisti che si fermano volentieri fuori della baita a scambiare quattro chiacchiere con i malgari, oppure si può anche imbastire una certa turnazione che consente di scendere ogni tanto a valle, approfittando anche dei tracciati carrozzabili che ormai raggiungono buona parte degli alpeggi. Ma un tempo non c’erano nemmeno queste piccole alternative: la stagione estiva era una specie di esilio montano per i mandriani e le loro famiglie. C’era però un dovere sacrosanto per tutti gli adulti: quello di scendere ogni domenica nel paese più vicino per assistere alla messa che per forza di cose non poteva che essere quella delle ore antelucane. E guai a trasgredire il precetto!

Era un impegno non indifferente, che costringeva a levatacce proibitive per scendere a valle e risalire dopo qualche ora, in tempo per avviare la consueta giornata d’alpeggio. Fu così che un certo giorno un mandriano che non ne poteva più di queste continue discese e risalite domenicali ebbe l’originale pensata di sostituirsi al parroco e di celebrare lui stesso la messa, convincendo i suoi colleghi a parteciparvi. Costruito con dei sassi un altare, presa una tazza piena di latte, indossate come paramenti alcune coperte stracce, diede inizio alla funzione. Assistito da due compari che fungevano da chierichetti, attorniato dagli altri alpeggiatori, il mandriano promotore dell’iniziativa iniziò a scimmiottare i riti propri della messa, storpiando le preghiere in latino, imitando alla meglio i canti liturgici e rivolgendo ai presenti perfino due parole di omelia. Ma proprio mentre il sacrilego si accingeva a pronunciare la sacra formula della consacrazione, ecco che l’aria fu squarciata da un tuono spaventoso, accompagnato da una bufera impetuosa che oscurò il sole e annebbiò tutta la vallata. Poi sotto i piedi di quel gruppo di disgraziati si spalancò una profonda voragine che inghiottì l’altare e tutti i presenti, tra urla spaventose. Le fiamme dell’Inferno lambirono per un attimo la voragine, che in breve si richiuse lasciando la vallata deserta e animata solo dai muggiti lamentosi delle mucche nei loro recinti. Ancora oggi c’è qualche mandriano o cacciatore che di tanto in tanto, passando da quelle parti, asserisce di avvertire l’eco di voci supplicanti, al punto che, memore della leggenda, corre ad avvertire qualche prete perché salga a benedire la vallata.

Ma c’è dell’altro. Poco lontano da quella valle, si trova la conca del Pradello, tra i monti Arera e Grem. Questa zona è teatro di un altro fenomeno difficilmente spiegabile. Si narra che a qualche mandriano capita ogni tanto di assistere a una strana processione. Accompagnato da un sommesso salmodiare, si svolge un lungo e solenne corteo di disciplini che, vestiti della loro tunica bianca e della mantellina rossa, con in mano un grosso cero, fanno lunghi giri tra rocce e dirupi, arrivando fin presso le baite e passando tra le mucche e le persone, incuranti di tutto, finché raggiunta una caverna che si apre sul fianco della montagna, vi penetrano uno dopo l’altro, scomparendo nel nulla. Chi siano questi personaggi d’oltretomba nessuno lo sa con precisione, però c’è chi suppone che il fenomeno sia legato alla presenza in quella zona, fin dai tempi antichi, di profonde miniere che hanno costituito per secoli la principale fonte di sostentamento per la gente della zona, ma hanno determinato anche tanti lutti per la morte tragica di centinaia di minatori. Forse si tratta delle anime di questi minatori, morti sul lavoro e senza il conforto dei sacramenti, che ritornano nottetempo sulla terra a chiedere una preghiera che li aiuti a uscire dal Purgatorio. O forse sono i mandriani sacrileghi della Val Vedra condannati ad espiare con questa solenne cerimonia il castigo per il loro gesto inconsulto.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Come se non bastassero i serpenti a rovinare la vita ai nostri antenati, ci si mettevano anche i gatti. Si racconta che un contadino, di ritorno dal lavoro nei campi, cominciò ad essere seguito da un grosso gatto, che non lo abbandonava finché non metteva piede in casa. Una sera, stanco di vedere questo gatto, gli diede una bastonata, colpendolo a una zampa e il gatto se ne fuggì zoppicando e miagolando mestamente. Il contadino, arrivato a casa, venne a sapere che poco prima la sua moglie era stata colpita da un pezzo di legna caduto da una catasta e aveva riportato la frattura di una gamba. Allora non poté fare a meno di pensare che quel gatto vendicativo altri non era se non la moglie che, sotto sembianze feline, lo seguiva chissà poi per quale strano motivo! A volte, però, i gatti tornavano anche utili all’uomo, come accadde a un giovane di Oltre il Colle che stava rientrando dal lavoro dopo aver ricevuto la paga mensile. Arrivato presso il ponte della Val Parina, il giovane vide in mezzo alla strada un grosso gatto che sembrava intenzionato a impedirgli di passare. Prima con le buone e poi con le cattive, cercò allora di scansare l’animale, ma questo rimaneva lì, imperterrito, con fare minaccioso, ben deciso a non arretrare di un passo. Il giovane, incapace di venire a capo di questa insolita situazione, finì col sedersi a lato della strada, sperando che il gatto decidesse finalmente di andarsene.

Aspetta e aspetta, passò parecchio tempo, ma il gatto non si muoveva. E fu un bene, perché di là dal ponte, appostati dietro un cespuglio, c’erano due briganti armati di bastoni, che attendevano il giovane per aggredirlo e derubarlo. Stanchi di aspettare e visto che la situazione non si sarebbe sbloccata, i due malfattori dovettero venire allo scoperto e il gatto si avventò contro di loro con tale furia da costringerli alla fuga nel fitto del bosco. Così il giovane poté riprendere il cammino e tornare a casa sano e salvo, convincendosi in cuor suo che quel gatto in verità non era altro che l’anima di un suo caro defunto, tornato sulla terra ad aiutarlo. Assai strano è anche il gatto parlante, protagonista di una storiella che si racconta a Casnigo. Si dice che una ragazza, mentre stava facendo ritorno a casa dopo una giornata di lavoro in filanda, incontrò un gatto che si diede a seguirla docilmente come un cagnolino. Arrivata fuori la ragazza si accostò alla fontanella che stava nel suo giardino e, dopo aver bevuto un sorso d’acqua, si mise a spogliarsi e a lavarsi, senza curarsi di chicchessia. Mentre era intenta a tale disinvolta operazione, la giovane notò che il gatto se ne stava lì vicino e la osservava con interesse ridendo di gusto! Infastidita dall’impertinenza del felino e stupefatta per quel singolare sorriso, la ragazza esclamò: “Toh, adesso mi tocca anche di vedere un gatto che ride!”. E prontamente il gatto, che non solo sapeva ridere, ma anche parlare, rispose: “E a me tocca di vedere una ragazza scostumata che si toglie i vestiti all’aria aperta!”.

Ed eccoci alla gatta cornia, detta da altri la gatta carogna e da altri ancora la gratta corna. Proprio quest’ultima accezione sembra meglio definire il senso che si vuole attribuire a questo essere difficilmente definibile, il cui ruolo sarebbe stato di corrodere le montagne, riempiendole di grotte e caverne, quasi che fosse una sorta di topo alle prese con una forma di cacio. La gatta cornia era un felino molto grosso, famelico e dal pelo nero, dotato di un paio di poderose corna, ed era solita uscire dalla sua tana nelle notti di luna piena per aggirarsi tra i boschi e le montagne nel vano tentativo di saziare il suo insaziabile appetito. Era difficile, se non impossibile sorprenderla, ma si potevano facilmente trovare i segni della sua presenza quando, andando a spasso tra i boschi, si notavano caverne sempre più profonde scavate nelle rocce calcaree. Questi scavi erano il frutto del lungo grattare della gatta cornia, la quale del resto non era cattiva e non aveva mai fatto male a nessuno, salvo recarsi nottetempo nelle camere dei bambini disubbidienti, sorprenderli nel sonno e grattare i loro morbidi piedini, facendoli svegliare di soprassalto per il fastidioso solletico.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Lupi famelici a San Giovanni Bianco

Spesso protagonista di storie bizzarre e un po’ atroci, il lupo veniva additato a spauracchio dei bambini più vivaci, con il compito primario di divorarli qualora fossero capitati alla sua portata. Caso tipico è l’assurda vicenda della bambina della Costa dei Lupi, una contrada di San Giovanni Bianco: storia alquanto strampalata, ma di indubbia efficacia. A Costa di Lüf ‘l gh’era zó öna tusèta dè sés o sèt agn che l’era malübidiénta. La sò mama la i era pruàde töte ma l’era come fa ü büs en dè l’acqua, ‘l gh’era miga mèso dè fala öbedé öna ölta. La fàa sèmper ol sò ‘ntènto, piö i la comandàa e piö le la tràa ‘n sö i spale. Öna sìra la sò mama, che la ‘n püdìa piö dè usà ‘nvano, la l’a ciapàda e la l’a cassàda fò dè ca. La tusa l’è stàda ‘n po’ fò dè ca a ciamà, po’ dopo, èdèndo che ‘l ga respundìa nig e i ga èrzìa miga, l’è ‘ndàda a dörmé söl finìl dèla sò stala. Dè nòcc l’è rià ‘l lüf e ‘l l’a maiàda. La matìna dopo, la sò mama la ‘a dè fò a ciamàla, ma la trùa nig. La gira per töta la cuntràda, la a ‘n dè stala e ‘n dèl finìl, ma la tusa la gh’è miga. ‘N po’ piö tarde öna fèmna che l’era stada ‘n dè àl a per acqua, la rìa fò dè corsa e la ga dìs a sta mama: “Örès sbagliàm, ma ardì che la òsta tusa ‘l gh’a dè èla maiàda ‘l lüf, perché èt ‘n dè àl ‘l gh’è èt ü brassì e öna gambìna, töcc pié dè sanc e po’ a’ ü tochèl dè scossalì che ‘l somèa chèl dèla òsta tusa”. La mama la passa èt dèspiràda, ‘nsèma ai otre fèmne. La rìa ét en dè àl e la èt pròpe chel che la gh’era déc la sò amìsa. Ol’scossalì l’è pròpe chel dèla sò tusa!

Ta laghe dé a te che piàns e urli che l’avrà facc sta pòvra mama, ma ormai l’era tarde. Chesto ‘l ga càpita a chi che öl mai öbédé la sò mama! Un lupo singolare e tutt’altro che terribile è quello che incontrarono un giorno due contadini, fratello e sorella, della Valbondione. Una sera, tornando a casa dopo il lavoro nei campi, si avvidero di essere seguiti a una certa distanza da un lupo che pareva assai affamato. L’animale li seguì pian piano fino a casa, poi si accucciò accanto all’uscio e rimase in attesa, guaendo sommessamente di tanto in tanto. I due fratelli, impietositi, gli diedero un tozzo di polenta e gli avanzi della loro cena, che l’animale divorò in un baleno prima di fuggire via nel bosco. Qualche giorno dopo i due contadini ebbero la sventura di perdere una delle loro tre mucche, la più bella, colpita da un fulmine durante un temporale. Per sostituirla, si recarono in Valtellina dove si incontrarono in un’osteria col negoziante. Mentre pranzavano e trattavano l’acquisto della mucca, si avvicinò al loro tavolo un altro avventore, che fino a quel momento se ne era rimasto silenzioso in disparte sorseggiando un calice di vino.

Costui, dopo essersi presentato come un emigrante proveniente dalla Valbondione, finì per sedersi a pranzare con loro. Mangiato, bevuto e concluse le trattative, i due fratelli si apprestarono a versare i soldi per il pranzo e per l’animale, ma con loro sorpresa lo sconosciuto avventore pagò tutto di tasca propria e non volle sentire ragioni. Più tardi, mentre si congedava dai due stupefatti contadini, rivelò la sua identità: “Un tempo abitavo in Valbondione, poi fui costretto a emigrare, ma capitai in certi giri poco onesti e mi toccò per castigo di essere trasformato in un lupo. Così ridotto, tornai nella mia valle, dove vissi per alcuni anni nei boschi attorno a Lizzola finché un giorno, stanco e affamato, ho incontrato voi e la vostra opera buona mi ha consentito di riacquistare le mie fattezze umane. Quindi ho solo voluto sdebitarmi del vostro grande favore”.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Spesso protagonista di storie bizzarre e un po’ atroci, il lupo veniva additato a spauracchio dei bambini più vivaci, con il compito primario di divorarli qualora fossero capitati alla sua portata. Caso tipico è l’assurda vicenda della bambina della Costa dei Lupi, una contrada di San Giovanni Bianco: storia alquanto strampalata, ma di indubbia efficacia. A Costa di Lüf ‘l gh’era zó öna tusèta dè sés o sèt agn che l’era malübidiénta. La sò mama la i era pruàde töte ma l’era come fa ü büs en dè l’acqua, ‘l gh’era miga mèso dè fala öbedé öna ölta. La fàa sèmper ol sò ‘ntènto, piö i la comandàa e piö le la tràa ‘n sö i spale. Öna sìra la sò mama, che la ‘n püdìa piö dè usà ‘nvano, la l’a ciapàda e la l’a cassàda fò dè ca. La tusa l’è stàda ‘n po’ fò dè ca a ciamà, po’ dopo, èdèndo che ‘l ga respundìa nig e i ga èrzìa miga, l’è ‘ndàda a dörmé söl finìl dèla sò stala. Dè nòcc l’è rià ‘l lüf e ‘l l’a maiàda. La matìna dopo, la sò mama la ‘a dè fò a ciamàla, ma la trùa nig. La gira per töta la cuntràda, la a ‘n dè stala e ‘n dèl finìl, ma la tusa la gh’è miga. ‘N po’ piö tarde öna fèmna che l’era stada ‘n dè àl a per acqua, la rìa fò dè corsa e la ga dìs a sta mama: “Örès sbagliàm, ma ardì che la òsta tusa ‘l gh’a dè èla maiàda ‘l lüf, perché èt ‘n dè àl ‘l gh’è èt ü brassì e öna gambìna, töcc pié dè sanc e po’ a’ ü tochèl dè scossalì che ‘l somèa chèl dèla òsta tusa”. La mama la passa èt dèspiràda, ‘nsèma ai otre fèmne. La rìa ét en dè àl e la èt pròpe chel che la gh’era déc la sò amìsa. Ol’scossalì l’è pròpe chel dèla sò tusa!

Ta laghe dé a te che piàns e urli che l’avrà facc sta pòvra mama, ma ormai l’era tarde. Chesto ‘l ga càpita a chi che öl mai öbédé la sò mama! Un lupo singolare e tutt’altro che terribile è quello che incontrarono un giorno due contadini, fratello e sorella, della Valbondione. Una sera, tornando a casa dopo il lavoro nei campi, si avvidero di essere seguiti a una certa distanza da un lupo che pareva assai affamato. L’animale li seguì pian piano fino a casa, poi si accucciò accanto all’uscio e rimase in attesa, guaendo sommessamente di tanto in tanto. I due fratelli, impietositi, gli diedero un tozzo di polenta e gli avanzi della loro cena, che l’animale divorò in un baleno prima di fuggire via nel bosco. Qualche giorno dopo i due contadini ebbero la sventura di perdere una delle loro tre mucche, la più bella, colpita da un fulmine durante un temporale. Per sostituirla, si recarono in Valtellina dove si incontrarono in un’osteria col negoziante. Mentre pranzavano e trattavano l’acquisto della mucca, si avvicinò al loro tavolo un altro avventore, che fino a quel momento se ne era rimasto silenzioso in disparte sorseggiando un calice di vino.

Costui, dopo essersi presentato come un emigrante proveniente dalla Valbondione, finì per sedersi a pranzare con loro. Mangiato, bevuto e concluse le trattative, i due fratelli si apprestarono a versare i soldi per il pranzo e per l’animale, ma con loro sorpresa lo sconosciuto avventore pagò tutto di tasca propria e non volle sentire ragioni. Più tardi, mentre si congedava dai due stupefatti contadini, rivelò la sua identità: “Un tempo abitavo in Valbondione, poi fui costretto a emigrare, ma capitai in certi giri poco onesti e mi toccò per castigo di essere trasformato in un lupo. Così ridotto, tornai nella mia valle, dove vissi per alcuni anni nei boschi attorno a Lizzola finché un giorno, stanco e affamato, ho incontrato voi e la vostra opera buona mi ha consentito di riacquistare le mie fattezze umane. Quindi ho solo voluto sdebitarmi del vostro grande favore”.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Di lui ormai non resta che il ricordo, appena ravvivato dalla sbiadita raffigurazione di qualche affresco scrostato, ma ci fu un tempo in cui questa entità misteriosa e inquietante accompagnava con la sua presenza minacciosa la vita di generazioni di valligiani. Stiamo parlando dell’homo salvadego, noto da noi anche con il semplice appellativo di salvàdec, figura tipica delle comunità alpine, personificazione di un individuo a metà tra l’animale e l’uomo, propria di quasi tutte le culture antiche e sopravvissuta ai giorni nostri in qualche area esotica. La sua immagine è inconfondibile e si propone allo stesso modo, salvo qualche semplice variante, presso tutte le comunità. L’homo salvadego era una creatura robusta, dal corpo interamente coperto di pelo spesso e irsuto, quasi fosse un residuo di uomo-scimmia. Viveva solitario, allo stato selvaggio, nel folto dei boschi disseminati sulle pendici delle montagne, dimorava nelle grotte o nell’incavo dei tronchi d’albero, si nutriva di bacche e frutti del sottobosco e di animali, che cacciava con il suo nodoso randello che portava sempre in spalla e che suscitava lo spavento di chi aveva la ventura di incontrarlo nelle rare e fuggenti occasioni in cui accadeva che si avvicinasse ai luoghi abitati.

Malgrado l’aspetto terrificante, pare che non fosse poi così nocivo come lo si è voluto descrivere: presso qualche comunità lo si identificava, infatti, come una sorta di Polifemo, dedito all’allevamento, all’attività casearia e all’apicoltura. Altri lo ritenevano addirittura un educatore: nelle vallate trentine era chiamato sanguanèl e si riteneva che rapisse i bambini per poi allevarli amorevolmente, insegnando loro le più semplici arti agresti. La sua propensione a rapire i bambini è però legata, dalle nostre parti, alla più diffusa immagine dell’orco che, come si è visto, imperversava un po’ in ogni paese. La tradizione ha ricamato su questo individuo una serie di leggende di cui si sono quasi del tutto perse le tracce, salvo i generici riferimenti all’orco o all’uomo nero. “Chi ha paura dell’uomo nero?” gridavano fino a qualche anno fa i ragazzi dei nostri paesi di montagna all’indirizzo di uno di loro, scelto a turno per ricoprire il ruolo di una creatura rozza e sinistra, fermamente intenzionata a rapire e divorare il primo che le capitava a tiro. Il riferimento più concreto alla figura dell’homo salvadego in territorio brembano si trova nell’affresco posto all’ingresso della casa di Arlecchino, a Oneta di Valtorta. L’irsuto personaggio, munito di un grosso bastone, è posto a guardia dell’edificio e, come recita il cartiglio, minaccia di prendere a randellate eventuali malintenzionati:

Chi non è de chortesia,
non intragi in chasa ma;
se ge venes un poltron,
ce darò col mio baston.

Collegato al mito dell’homo salvadego è quello della cavra sbrègiola, altrove detta anche cavra bèsola, una sorta di misterioso caprone sulla cui esistenza tutti erano pronti a scommettere, ma che nessuno aveva mai visto. Sembra che questo ipotetico animale girovagasse lungo i dirupi montani emettendo belati striduli e insistenti e che avesse il brutto vizio di rapire i bambini cattivi e portarseli nella tana per divorarli. Sia l’homo salvadego che la cavra sbrègiola svolgevano però anche un ruolo positivo: a loro era attribuita l’importante funzione di custodi della natura contro le offese dell’uomo. In tale accezione, mai come oggi ci sarebbe bisogno di creature della loro specie!

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Dannati impenitenti e anime confinate

Una leggenda, che si raccontava a scopo di ammonimento per chi non santificava la festa, ha per teatro la strada della Valle Stabina, nei pressi di Valtorta, un luogo selvaggio e desolato, dove le alte pareti che fiancheggiano la strada strapiombano in profondi burroni. Il fatto accadde una domenica mattina, quando un uomo di Valtorta, invece di andare a messa, si recò in quel luogo impervio per tagliare della legna. Siccome il suo bosco era situato proprio sul fondo della valle, il taglialegna portò con sé tre compaesani affinché lo aiutassero a calarsi fino ai piedi del burrone. Legato l’amico a una lunga corda, lo fecero scendere lentamente lungo la parete rocciosa, ma dopo un po’ si accorsero con spavento che la corda si allungava sempre più, il burrone diventava sempre più profondo e l’amico, attaccato alla corda, continuava a scendere, diventando ogni momento più piccolo. In preda alla disperazione cercarono allora di tirarlo su, ma all’altro capo della corda il peso diventava insostenibile, come se vi fosse applicata una forza sovrumana. Ad un certo punto scorsero il loro compagno cadere a precipizio e lo udirono gridare: “Laghì ‘ndà la corda e ‘ndì a mèssa ca l’è tarde!”.

I tre, mollata la corda, scapparono in preda al terrore, ma fatti pochi passi sentirono un grande frastuono seguito da un orribile lamento. Si voltarono e videro alte fiamme levarsi dal burrone e nel mezzo lo sventurato compagno, stretto fra gli artigli di un mostro immondo. Si era spalancato l’Inferno per inghiottire quell’uomo senza timor di Dio! C’è chi assicura che ogni tanto passando da quelle parti in certe ore della notte, si odono ancora gli echi dei lamenti e si intravedono i bagliori delle fiamme.Si ricorda ancora oggi la disavventura capitata a un contadino che aveva più a cuore il suo lavoro nei campi piuttosto che preoccuparsi di santificare le feste. Una domenica mattina, mentre tutti i suoi compaesani erano a messa, egli se ne stava in mezzo al suo prato intento a falciare il fieno, cosa che faceva sempre durante la stagione estiva, convinto che fosse più importante badare al proprio lavoro che non alla salvezza dell’anima. Affaticato per il lavoro che durava da un paio d’ore, si fermò un attimo a riposare e proprio in quel mentre dal campanile della parrocchiale si riversarono sulla campagna le solenni note del sanctus, annuncianti il momento culminante del sacrificio della messa. Incurante di questo sacro suono, il contadino riprese di buona lena a falciare, ma al primo colpo venne investito da una forza misteriosa che lo fece piroettare su se stesso come una trottola e lo affastellò negli stessi fasci d’erba che aveva appena tagliato. Poi, come sospinto da un impeto di vento, fu trascinato ai margini del prato e fatto precipitare in fondo a una scarpata.

Questa volta, per sua fortuna, si trattò solo di un avvertimento, infatti il malcapitato riuscì non senza difficoltà a districarsi dall’incomodo fascio e, tornato a casa, giurò che da quel giorno si sarebbe guardato bene dal trascurare il precetto festivo. Ma, in materia di punizioni per i miscredenti, non è finita qui. C’era un giovane cacciatore che la domenica anteponeva il suo hobby alle sacre funzioni. La vecchia madre lo scongiurava di santificare il giorno del Signore, ma lui, imperterrito, continuava ad andare a caccia, mentre in chiesa veniva celebrata la messa. Ma dovette pentirsene! Una domenica, durante una battuta che fino a quel momento non gli aveva fruttato un gran che, si imbattè in uno scoiattolo che si stava arrampicando lungo il tronco di un abete. In mancanza di meglio, il cacciatore pensò che gli avrebbe fatto comodo anche quel minuscolo roditore e gli puntò contro il fucile. Proprio mentre stava per premere il grilletto, si udirono in lontananza le campane a distesa del suo paese che annunciavano il sanctus, e nello stesso momento lo scoiattolo, raggiunto un ramo, si sollevò sulle zampe posteriori e, rivoltosi al cacciatore. parlò!

“Non spararmi, smettila di andare a caccia la domenica e vai a messa!”. Queste parole, pronunciate dallo scoiattolo, ebbero effetto immediato: il giovane gettò il fucile e si precipitò verso casa. Da quel giorno non pensò più nemmeno lontanamente di andare a caccia, non solo la domenica, ma anche nei giorni feriali. Un tempo si credeva che sotto il ponte della Valle Stabina, al bivio tra Ornica e Valtorta, fossero confinate le anime di coloro che da vivi non avevano rispettato il precetto della messa domenicale, ma avevano disertato la dottrina e le pratiche religiose, preferendo dedicarsi al lavoro o ai divertimenti. E così, dopo la morte erano andati diritti all’Inferno. Questi dannati erano in gran numero e ogni tanto si facevano vedere dai passanti, oppure si facevano sentire con urla e strepiti che incutevano terrore. Chi passava da quelle parti di notte, con muli o asini, si trovava in difficoltà perché, giunti all’altezza del ponte, gli animali si fermavano terrorizzati, giravano su se stessi come impazziti e si scrollavano di dosso la soma, rifiutandosi di avanzare anche solo di un passo. Nessuno era più in grado di farli proseguire fino all’alba, quando, ai primi chiarori del nuovo giorno, si udiva un frastuono, un precipitare di sassi che si fermava con un tonfo sordo sul fondo della valle. Solo allora gli animali tornavano tranquilli e riprendevano il cammino. Finalmente nel 1909 venne trovato un sicuro rimedio contro queste manifestazioni d’oltretomba: il parroco di Valtorta, don Stefano Gervasoni, che godeva fama di santità e possedeva doti di esorcista, dopo aver indetto un periodo di preghiere collettive, portò i suoi parrocchiani e quelli di Ornica in processione verso la zona degli spiriti e, dopo averla benedetta, collocò un crocifisso sulla parete rocciosa che strapiomba sulla valle. Il crocifisso è ancora là e da allora, sostengono gli anziani del paese, gli spiriti dannati non si sono più fatti sentire.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Una leggenda, che si raccontava a scopo di ammonimento per chi non santificava la festa, ha per teatro la strada della Valle Stabina, nei pressi di Valtorta, un luogo selvaggio e desolato, dove le alte pareti che fiancheggiano la strada strapiombano in profondi burroni. Il fatto accadde una domenica mattina, quando un uomo di Valtorta, invece di andare a messa, si recò in quel luogo impervio per tagliare della legna. Siccome il suo bosco era situato proprio sul fondo della valle, il taglialegna portò con sé tre compaesani affinché lo aiutassero a calarsi fino ai piedi del burrone. Legato l’amico a una lunga corda, lo fecero scendere lentamente lungo la parete rocciosa, ma dopo un po’ si accorsero con spavento che la corda si allungava sempre più, il burrone diventava sempre più profondo e l’amico, attaccato alla corda, continuava a scendere, diventando ogni momento più piccolo. In preda alla disperazione cercarono allora di tirarlo su, ma all’altro capo della corda il peso diventava insostenibile, come se vi fosse applicata una forza sovrumana. Ad un certo punto scorsero il loro compagno cadere a precipizio e lo udirono gridare: “Laghì ‘ndà la corda e ‘ndì a mèssa ca l’è tarde!”.

I tre, mollata la corda, scapparono in preda al terrore, ma fatti pochi passi sentirono un grande frastuono seguito da un orribile lamento. Si voltarono e videro alte fiamme levarsi dal burrone e nel mezzo lo sventurato compagno, stretto fra gli artigli di un mostro immondo. Si era spalancato l’Inferno per inghiottire quell’uomo senza timor di Dio! C’è chi assicura che ogni tanto passando da quelle parti in certe ore della notte, si odono ancora gli echi dei lamenti e si intravedono i bagliori delle fiamme.Si ricorda ancora oggi la disavventura capitata a un contadino che aveva più a cuore il suo lavoro nei campi piuttosto che preoccuparsi di santificare le feste. Una domenica mattina, mentre tutti i suoi compaesani erano a messa, egli se ne stava in mezzo al suo prato intento a falciare il fieno, cosa che faceva sempre durante la stagione estiva, convinto che fosse più importante badare al proprio lavoro che non alla salvezza dell’anima. Affaticato per il lavoro che durava da un paio d’ore, si fermò un attimo a riposare e proprio in quel mentre dal campanile della parrocchiale si riversarono sulla campagna le solenni note del sanctus, annuncianti il momento culminante del sacrificio della messa. Incurante di questo sacro suono, il contadino riprese di buona lena a falciare, ma al primo colpo venne investito da una forza misteriosa che lo fece piroettare su se stesso come una trottola e lo affastellò negli stessi fasci d’erba che aveva appena tagliato. Poi, come sospinto da un impeto di vento, fu trascinato ai margini del prato e fatto precipitare in fondo a una scarpata.

Questa volta, per sua fortuna, si trattò solo di un avvertimento, infatti il malcapitato riuscì non senza difficoltà a districarsi dall’incomodo fascio e, tornato a casa, giurò che da quel giorno si sarebbe guardato bene dal trascurare il precetto festivo. Ma, in materia di punizioni per i miscredenti, non è finita qui. C’era un giovane cacciatore che la domenica anteponeva il suo hobby alle sacre funzioni. La vecchia madre lo scongiurava di santificare il giorno del Signore, ma lui, imperterrito, continuava ad andare a caccia, mentre in chiesa veniva celebrata la messa. Ma dovette pentirsene! Una domenica, durante una battuta che fino a quel momento non gli aveva fruttato un gran che, si imbattè in uno scoiattolo che si stava arrampicando lungo il tronco di un abete. In mancanza di meglio, il cacciatore pensò che gli avrebbe fatto comodo anche quel minuscolo roditore e gli puntò contro il fucile. Proprio mentre stava per premere il grilletto, si udirono in lontananza le campane a distesa del suo paese che annunciavano il sanctus, e nello stesso momento lo scoiattolo, raggiunto un ramo, si sollevò sulle zampe posteriori e, rivoltosi al cacciatore. parlò!

“Non spararmi, smettila di andare a caccia la domenica e vai a messa!”. Queste parole, pronunciate dallo scoiattolo, ebbero effetto immediato: il giovane gettò il fucile e si precipitò verso casa. Da quel giorno non pensò più nemmeno lontanamente di andare a caccia, non solo la domenica, ma anche nei giorni feriali. Un tempo si credeva che sotto il ponte della Valle Stabina, al bivio tra Ornica e Valtorta, fossero confinate le anime di coloro che da vivi non avevano rispettato il precetto della messa domenicale, ma avevano disertato la dottrina e le pratiche religiose, preferendo dedicarsi al lavoro o ai divertimenti. E così, dopo la morte erano andati diritti all’Inferno. Questi dannati erano in gran numero e ogni tanto si facevano vedere dai passanti, oppure si facevano sentire con urla e strepiti che incutevano terrore. Chi passava da quelle parti di notte, con muli o asini, si trovava in difficoltà perché, giunti all’altezza del ponte, gli animali si fermavano terrorizzati, giravano su se stessi come impazziti e si scrollavano di dosso la soma, rifiutandosi di avanzare anche solo di un passo. Nessuno era più in grado di farli proseguire fino all’alba, quando, ai primi chiarori del nuovo giorno, si udiva un frastuono, un precipitare di sassi che si fermava con un tonfo sordo sul fondo della valle. Solo allora gli animali tornavano tranquilli e riprendevano il cammino. Finalmente nel 1909 venne trovato un sicuro rimedio contro queste manifestazioni d’oltretomba: il parroco di Valtorta, don Stefano Gervasoni, che godeva fama di santità e possedeva doti di esorcista, dopo aver indetto un periodo di preghiere collettive, portò i suoi parrocchiani e quelli di Ornica in processione verso la zona degli spiriti e, dopo averla benedetta, collocò un crocifisso sulla parete rocciosa che strapiomba sulla valle. Il crocifisso è ancora là e da allora, sostengono gli anziani del paese, gli spiriti dannati non si sono più fatti sentire.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Nelle notti scure di temporale oppure nelle notti calde soffocanti in cui non si riesce a respirare si faceva sentire di Valle in Valle la cassa da Morto del Diavolo. Per sentirla la sentivan tutti, ma quanto a vederla erano pochi a vederla; e quei pochi che l’avevan vista erano divenuti bianchi di capelli per la paura; poi perdevano i denti e dopo un po’ di tempo morivano. Questa cassa era trasportata e accompagnata da molti cani, piccoli e grossi e mal formati; avevano gli occhi rossi come carboni accesi e lingue infuocate; in oltre mandavano dei versi, guaivano e abbaiavano in modo da incutere paura e spavento. Dove la Cassa da Morto del Diavolo passava, bruciava tutto e nei prati e nei campi non restava più niente. Stancatosi di veder morire la brava gente, il Vescovo aveva pensato di mandare nelle Valli uno di quei preti ritenuti santi che di solito, con la sola benedizione, sono capaci di guarire malati e indemoniati. Il prete si era appostato in cima ad un pendio di dove di sovente si era visto passare la Cassa da Morto del Diavolo. Passavano le notti e la Cassa né si faceva vedere né si faceva sentire: e la gente maligna commentava che questa volta, neppure l’acqua santa avrebbe potuto vincere il Diavolo.

Ma una notte di temporale, notte piena di tuoni e di lampi (non esisteva in tutta la Valle Brembana un piccolo lume) la Cassa da Morto del Diavolo, portata come al solito dai cani più brutti e cattivi appare in cima al pendio proprio dove era salito il prete. Sembrò a tutti che in quel momento fosse venuta la fine del mondo perché il cielo e la terra sconvolti, sembravano confondersi l’uno nell’altro. Quando il prete sbiancato dallo spavento, alzo il braccio nel gesto di benedire, la terra si spalancò davanti ai suoi piedi e proprio al momento giusto per inghiottire la Cassa da Morto del Diavolo, nella voragine. Dopo quella notte nessuno nella Valle Brembana ha mai più sentito o visto la Cassa da Morto del Diavolo; soltanto in certe notti buie e temporalesche, oppure in altre notti soffocanti, nelle contrade e i suoi monti i vecchi recitano il rosario, chiudono la porta a chiave e i bambini cacciano la testa sotto le coperte, per paura che torni il sibilo della Cassa da Morto del Diavolo.

La caccia selvatica o cacciamorta

Una leggenda assai popolare in varie località della Bergamasca è quella della caccia selvatica detta anche cacciamorta. In certe ore della notte si potevano sentire su per le montagne delle mute di cani che scorrazzavano, abbaiando rabbiosamente di qua e di là, come se stessero inseguendo la selvaggina. Nessuno li aveva mai visti, si potevano solo sentire i loro latrati, ma si assicura che chi si trovava a passare da quelle parti poteva anche imbattersi sul loro percorso e doveva scansarsi precipitosamente se non voleva essere travolto dalla furia famelica di quei segugi indiavolati. Per la verità non si trattava di cani, ma di anime confinate. Precisamente erano le anime dannate di quei cacciatori del paese che per coltivare la loro passione trascuravano di andare a messa la domenica e così, dopo la morte, erano condannati a vagare su per i monti, dando vita a un’incessante quanto sterile caccia. Un efficace esempio di pena del contrappasso, degna di figurare in qualche infernale girone dantesco, tanto più che da qualche parte si sussurrava addirittura che alla guida di quella canaglia scatenata ci fosse nientemeno che il Demonio in persona. I racconti sulla caccia selvatica erano abituali a OrnicaValtortaCusioSanta Brigida, ambientati sulle impervie pendici della Val d’Inferno o del Salmurano, ma non mancavano in altre località, ad esempio a Spino al Brembo, dove la tradizione descriveva i segugi guidati dal Demonio sui dossi della squallida altura della Mughera, alle prese con una cagna nera, orribile, con gli occhi fiammeggianti, in un contesto di urla infernali e strider di catene Con una leggera variante analoghi episodi venivano raccontati a San Pietro d’Orzio, dove la muta di cani, anziché correre per la montagna, girovagava qua e là per aria, riempiendola di impetuose folate e dei consueti latrati.

Altrove si sussurra di brutte avventure capitate a chi osava intromettersi nella caccia. E’ il caso di Costa Serina dove pare che un viandante, imbattutosi in una di queste orde urlanti, avesse osato richiamare i segugi perché si quietassero. Non l’avesse mai fatto: rientrando a casa aveva trovato appesa alla porta una gamba umana, una sinistra premonizione di tragedia, dalla quale l’aveva scampato il suo parroco, consigliandogli di riportare nottetempo l’ingombrante reperto anatomico sul luogo dell’incontro con la caccia selvatica, affinché i cani potessero riprendersela. Cosa che egli fece, benché in preda ad un indicibile senso di terrore, riuscendo a cavarsi d’impaccio, ma giurando a se stesso che non si sarebbe mai più intromesso in affari di tal genere. Pressoché analogo è il racconto della caccia morta a Valgoglio, dove si dice che una donna, abitante in località Dödömal, osservando quei dannati in corsa sfrenata formulò una bizzarra richiesta: “Portatemi un po’ della vostra selvaggina con cui potrei sfamare i miei bambini”. Fu subito accontentata: il mattino dopo trovò appesa fuori della sua baita una gamba umana. Atterrita, la donna corse a raccontare l’accaduto al suo parroco il quale la consigliò di stare in guardia e le suggerì per la notte seguente di chiudersi bene in casa e di coricarsi assieme ai suoi bambini. Così fece, e fu la sua salvezza, infatti, nel colmo della notte la cacciamorta tornò e dalla canea vociante si alzò un grido d’oltretomba, rivolto proprio a lei: “Buon per te che sei in mezzo all’innocenza, altrimenti l’avresti pagata cara per aver osato parlare alla cacciamorta!”.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Una leggenda assai popolare in varie località della Bergamasca è quella della caccia selvatica detta anche cacciamorta. In certe ore della notte si potevano sentire su per le montagne delle mute di cani che scorrazzavano, abbaiando rabbiosamente di qua e di là, come se stessero inseguendo la selvaggina. Nessuno li aveva mai visti, si potevano solo sentire i loro latrati, ma si assicura che chi si trovava a passare da quelle parti poteva anche imbattersi sul loro percorso e doveva scansarsi precipitosamente se non voleva essere travolto dalla furia famelica di quei segugi indiavolati. Per la verità non si trattava di cani, ma di anime confinate. Precisamente erano le anime dannate di quei cacciatori del paese che per coltivare la loro passione trascuravano di andare a messa la domenica e così, dopo la morte, erano condannati a vagare su per i monti, dando vita a un’incessante quanto sterile caccia. Un efficace esempio di pena del contrappasso, degna di figurare in qualche infernale girone dantesco, tanto più che da qualche parte si sussurrava addirittura che alla guida di quella canaglia scatenata ci fosse nientemeno che il Demonio in persona. I racconti sulla caccia selvatica erano abituali a OrnicaValtortaCusioSanta Brigida, ambientati sulle impervie pendici della Val d’Inferno o del Salmurano, ma non mancavano in altre località, ad esempio a Spino al Brembo, dove la tradizione descriveva i segugi guidati dal Demonio sui dossi della squallida altura della Mughera, alle prese con una cagna nera, orribile, con gli occhi fiammeggianti, in un contesto di urla infernali e strider di catene Con una leggera variante analoghi episodi venivano raccontati a San Pietro d’Orzio, dove la muta di cani, anziché correre per la montagna, girovagava qua e là per aria, riempiendola di impetuose folate e dei consueti latrati.

Altrove si sussurra di brutte avventure capitate a chi osava intromettersi nella caccia. E’ il caso di Costa Serina dove pare che un viandante, imbattutosi in una di queste orde urlanti, avesse osato richiamare i segugi perché si quietassero. Non l’avesse mai fatto: rientrando a casa aveva trovato appesa alla porta una gamba umana, una sinistra premonizione di tragedia, dalla quale l’aveva scampato il suo parroco, consigliandogli di riportare nottetempo l’ingombrante reperto anatomico sul luogo dell’incontro con la caccia selvatica, affinché i cani potessero riprendersela. Cosa che egli fece, benché in preda ad un indicibile senso di terrore, riuscendo a cavarsi d’impaccio, ma giurando a se stesso che non si sarebbe mai più intromesso in affari di tal genere. Pressoché analogo è il racconto della caccia morta a Valgoglio, dove si dice che una donna, abitante in località Dödömal, osservando quei dannati in corsa sfrenata formulò una bizzarra richiesta: “Portatemi un po’ della vostra selvaggina con cui potrei sfamare i miei bambini”. Fu subito accontentata: il mattino dopo trovò appesa fuori della sua baita una gamba umana. Atterrita, la donna corse a raccontare l’accaduto al suo parroco il quale la consigliò di stare in guardia e le suggerì per la notte seguente di chiudersi bene in casa e di coricarsi assieme ai suoi bambini. Così fece, e fu la sua salvezza, infatti, nel colmo della notte la cacciamorta tornò e dalla canea vociante si alzò un grido d’oltretomba, rivolto proprio a lei: “Buon per te che sei in mezzo all’innocenza, altrimenti l’avresti pagata cara per aver osato parlare alla cacciamorta!”.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

In varie località si raccontava la vicenda di quella donna (ma da qualche parte il protagonista era un uomo), che da giovane aveva osato dare uno schiaffo o un calcio alla madre (o al padre). Questo atto scellerato aveva pesato sulla coscienza della colpevole per tutta la vita e aveva avuto conseguenze anche dopo la morte. Giunta alla fine dei suoi giorni, infatti, la donna che aveva picchiato sua madre era stata sepolta nel camposanto, ma non aveva trovato pace. Qualche giorno dopo la sepoltura, i visitatori del cimitero avevano notato che sopra la tomba della donna c’era della terra smossa e dalla stessa fuoriusciva un braccio con la mano aperta rivolta verso il cielo. Con grande spavento di tutti, erano stati chiamati i necrofori che avevano provveduto a rimettere tutto al loro posto. Ma invano, dopo alcuni giorni la mano colpevole era riapparsa con le sue dita secche e orrendamente rivolte all’insù a ghermire l’aria. Per poter rimettere le cosa a posto era dovuto intervenire il parroco che, ottenutane licenza dal vescovo, aveva impartito a quella defunta senza pace una speciale benedizione che le aveva finalmente garantito il riposo eterno. Stessa sorte era toccata a un giovane di Calusco che era annegato nell’Adda e poi era stato sepolto nel cimitero del paese. Nei giorni seguenti, con grande spavento di tutti, era stato trovato con la gamba destra che sporgeva fuori della tomba, e anche in questo caso non ci fu verso di farla stare al suo posto, tanto che finì con l’essere lasciata lì e fu in seguito divorata dai cani. Anche in questo caso si apprese che il giovane aveva gravemente mancato di rispetto al padre, colpendolo con una pedata. Non meno spaventosa la sorte di una donna di Valcanale che aveva osato sfidare il sonno eterno dei defunti. Si racconta che durante una delle solite serate passate a far veglia in una stalla, intente a filare la lana e a rammendare vecchie calze consumate dall’uso quotidiano, alcune donne di Valcanale portarono i loro discorsi sulla paura dei morti e sul coraggio. Si sosteneva che nessuna delle presenti avrebbe osato recarsi da sola, nottetempo, nel cimitero di quel paesino, dove si diceva che ogni tanto accadevano degli strani fenomeni. Ma una di queste donne, che si riteneva coraggiosa e non credeva nelle fandonie circolanti in paese, dichiarò che non avrebbe avuto alcun problema a recarsi nel cimitero, proprio quella sera stessa, allo scoccare della mezzanotte, e per provare che c’era stata veramente avrebbe conficcato il fuso su una tomba. Le altre, invece di dissuaderla, la incitarono a compiere l’impresa e così, allo scoccare della mezzanotte, la coraggiosa si diresse verso il cimitero. Quello che accadde poi può solo essere ipotizzato, perché nessuno assistette alla tremenda scena. La donna, aperto il cancello del cimitero, si aggirò un momento tra le tombe, poi raggiunse quella di un uomo che, da vivo, le aveva mancato più volte di rispetto e conficcò con rabbia il fuso nella terra che la ricopriva. Ma, mentre si voltava per andarsene, sentì una mano che le ghermiva la gonna e la tirava con una forza irresistibile dentro la tomba. Lo spavento fu tale che la poveretta cadde a terra morta.

La mattina seguente le altre donne, non avendola vista tornare, si recarono al cimitero e scoprirono una scena raccapricciante: la loro compagna era stesa sopra la tomba con la faccia digrignata in una smorfia atroce e le braccia rivolte verso l’uscita, come se volesse scappare. La sua gonna, strappata, era stata tirata quasi del tutto dentro la terra, come se il morto avesse voluto trascinare la donna con sé dentro la bara. Assai paurosa fu anche l’avventura vissuta parecchi anni fa dalla comunità di Luzzana. Una sera alcune donne, intente a recitare il rosario all’ingresso del cimitero, furono scosse da una sonora risata proveniente dall’interno. Dopo l’iniziale comprensibile sbigottimento, si fecero coraggio ed entrarono nel cimitero, così poterono scorgere, appollaiato sopra una pietra tombale, il fantasma di un loro compaesano, detto il Moèta, un libertino impenitente, morto alcuni giorni addietro, dopo aver rifiutato i conforti religiosi. Fu subito avvisato il parroco, il quale si precipitò nel cimitero e riuscì a parlare col Moèta, venendo così a sapere che il morto non poteva sopportare di stare sepolto in quel luogo, a causa del suono delle campane che gli procuravano ogni volta atroci sofferenze. Egli chiedeva solo una cosa: essere trasportato lontano dal paese e sepolto in una valle dove non arrivasse il suono delle campane. Il parroco, consultatosi con il sindaco, decise di accogliere la richiesta del Moèta e, aiutato da due necrofori, si recò la notte seguente nel cimitero, portando un capiente sacco. Il fantasma del Moèta stava ancora lì, sopra la sua tomba, in attesa del loro arrivo e non fu difficile convincerlo ad entrare nel sacco. Il difficile venne dopo, durante il tragitto verso la valle. Il sacco, portato a turno dai due necrofori, diventava infatti sempre più pesante e la strada era lunga e impervia, per cui pareva quasi impossibile portare a termine l’impresa. Poi il sacco cominciò anche a scottare e così i due poveri becchini dovettero più volte passarsi quell’orribile fardello, costretti a fermarsi ogni pochi metri, sudati e ansimanti, per tirate un po’ il fiato. Finalmente, quando ormai il sacco era diventato pesantissimo e quasi incandescente, la strana comitiva raggiunse la valle solitaria dove non arrivava il suono delle campane. Qui il sacco contenente l’anima dannata del Moèta fu fatto precipitare in un profondo burrone, dal quale poco dopo giunsero urla selvagge e sinistri bagliori. Poi tutto tornò tranquillo. Da allora il Moèta non si è fatto più sentire e quella valle adesso porta il suo nome.

A proposito di picchiatori, si racconta anche di quel parrocchiano che durante un diverbio col parroco gli aveva affibbiato un potente calcione. Il sacerdote messo fuori combattimento da quel colpo inatteso, si era rivolto al suo picchiatore e gli aveva intimato: “Vattene dal paese e non farti più vedere a meno che non ti penta del tuo gesto e torni a chiedere perdono. Intanto porterai con te il ricordo di questa sacrilega aggressione!”. L’altro se ne era dovuto andare, anche perché i suoi compaesani non lo accettavano più dopo quello che aveva fatto. Ma dopo qualche giorno cominciò a sentire i primi effetti della profezia del suo parroco: la gamba che aveva sferrato il calcio cominciò a dolergli di un dolore sordo e persistente che non lo lasciava un attimo. Il male andò via via aumentando fino a diventare insopportabile e finalmente l’uomo comprese che questo era il castigo che gli toccava per aver mancato di rispetto al parroco. Allora decise di tornare al suo paese per chiedere perdono, ma arrivato, apprese che il parroco era morto da qualche giorno, di crepacuore, non avendo potuto superare l’umiliazione della percossa subita. Così il colpevole non poté chiedere perdono e non ottenne di guarire dal suo male alla gamba, che peggiorò ancora di più fino a farlo morire tra atroci sofferenze.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Il mandriano spergiuro

Questa leggenda viene raccontata ancora oggi in varie versioni, leggermente diverse tra loro, dagli anziani di Oltre il ColleSerina e Roncobello, ma anche di Gorno e Valcanale. Ciascuna di queste località indica anche il luogo preciso che fu teatro della vicenda: per quelli di Oltre il Colle si tratta dei pascoli del monte di Zambla, per i Serinesi è il monte Grem e per quelli di Roncobello, Gorno e Valcanale l’alpeggio del lago Branchino. Allo stesso modo, secondo gli abitanti di Oltre il Colle, il mandriano spergiuro, protagonista della leggenda, proveniva da Gorno, mentre a sentire quelli di Serina era di Sorisole e, per gli abitanti di Roncobello si trattava di un certo Valle di Serina, mentre per quello di Gorno e Valcanale il bugiardo era valbrembanino. Questa multiforme versione di una storia pressoché identica, ne denota la popolarità tra le popolazioni a cavallo tra le valli Brembana e Seriana e relative diramazioni. Per non far torto a nessuno, ne viene qui esposta una sintesi che assomma le varie versioni, lasciando volutamente indeterminati il paese e i personaggi. Or dunque, era sorta in quel paese una disputa accanita circa i diritti di possesso di un alpeggio. La maggioranza dei capifamiglia riteneva che tale alpeggio fosse di proprietà comunale e quindi a disposizione di tutti. Non così la pensava un vecchio mandriano, che era forestiero e il cui arrivo in paese, parecchi anni prima, aveva scatenato la discordia, in quanto egli vantava su quel pascolo diritti di esclusiva proprietà. Diritti, osservava, risalenti ai suoi antenati e tramandati in eredità di padre in figlio, fino a lui stesso. Una serie di processi, celebrati davanti al vicario di valle, non erano valsi ad appurare chi fosse il legittimo proprietario, di conseguenza, in mancanza di uno specifico divieto della pubblica autorità e facendosi scudo dei suoi asseriti diritti, il mandriano portava ogni anno regolarmente la sua mandria sull’alpeggio, sordo alle lamentele dei compaesani, i quali dal canto loro non erano ormai più disposti a subire tale situazione, considerandola un vero e proprio sopruso.

E così, ogni anno, assieme alla stagione dell’alpeggio si riaccendevano le dispute e non di rado accadeva che qualcuno passasse alle vie di fatto. Allora tra il mandriano prepotente, spalleggiato da figli e parenti e da certi vicini che traevano vantaggio dall’essere dalla sua parte, e qualcuno dei suoi avversari si scatenavano risse tremende, condite con pugni e bastonate. Una siffatta situazione non poteva più continuare e le autorità, ben consapevoli che presto ci sarebbe scappato il morto e desiderosi di risolvere una volta per tutte la complicata questione, deliberarono di invitare i contendenti ad una solenne cerimonia pubblica di giuramento, durante la quale si sperava che sarebbe finalmente emersa la verità. La cerimonia ebbe luogo una domenica mattina, poche settimane prima dell’avvio della stagione dell’alpeggio: i contendenti, le rispettive famiglie e quasi tutta la popolazione si riunirono attorno alla baita del pascolo della discordia. Assieme a loro giunsero lassù i consoli e i consiglieri del paese, il vicario di valle, in qualità di giudice supremo e i rappresentanti del governo inviati dal podestà di Bergamo, accompagnati da un drappello di soldati col compito di sedare non improbabili tumulti. C’erano poi il parroco del paese e un canonico, mandato dal vescovo allo scopo di attestare la validità del sacro giuramento, infine un notaio, con il compito di redigere il relativo atto formale. Celebrata la messa, le autorità civili e religiose si disposero attorno all’altare e invitarono i contendenti a giurare davanti al crocifisso, dopo averli severamente ammoniti sui gravi castighi civili e religiosi riservati agli spergiuri. Nessuno dei mandriani del paese ebbe però il coraggio di pronunciare la solenne formula attestante il loro diritto di proprietà, infatti non avevano alcuna certezza di tale diritto, non disponendo di prove ufficiali e inconfutabili.

Fu poi la volta del vecchio forestiero il quale, tra l’incredulità degli astanti, pronunciò a voce alta e sicura il seguente giuramento: “Giuro davanti a Dio che la terra che ho sotto i piedi appartiene a me e alla mia famiglia”. Alle parole seguì un attimo di silenzio, poi gli altri mandriani scoppiarono in urla minacciose all’indirizzo del vecchio, che fu accusato di spergiuro, e le forze dell’ordine riuscirono a stento a trattenere quella folla inferocita che tentava di farsi giustizia da sè. Ma ormai la questione era chiusa: le autorità civili e religiose sancirono ufficialmente e concordemente che il pascolo conteso doveva essere assegnato definitivamente al vecchio mandriano, il cui giuramento non lasciava adito a dubbi. Così fu, e da quel momento il mandriano poté far pascolare le sue bestie su quel terreno, godendo della protezione della legge. Ma, se all’apparenza, ostentava sicurezza e spavalderia, la sua coscienza era agitata da un sordo rimorso. Infatti il suo giuramento era stata una vera e propria truffa e, se di fronte agli uomini tutto sembrava all’apparenza ineccepibile, dentro di sé egli era consapevole di essersi meritato il castigo di Dio. Castigo che non sarebbe tardato ad arrivare, considerata l’età dello spergiuro. Era infatti accaduto che il giorno del giuramento il mandriano, mal consigliato dalla moglie, era entrato nel suo orto, aveva preso due manciate di quella terra e l’aveva messa nelle sue scarpe, sotto i piedi.

Forte di questa furbata, aveva quindi potuto giurare spavaldamente che la terra che aveva sotto i piedi era sua! Autorità e avversari erano stati in tal modo ingannati, ma quando il furbo mandriano venne a morire e si presentò davanti al giudizio di Dio, ebbe la punizione che si meritava. E di che natura fosse la penitenza lo appresero tutti coloro che negli anni seguenti ebbero la ventura di passare dalle parti dell’alpeggio durante un temporale. Allora potevano vedere l’anima dello spergiuro vagabondare per la montagna in groppa a un cavallo di fuoco che scalpitava sinistramente tra lampi e tuoni in un turbine di vento e grandine. A ogni passaggio il dannato mandriano urlava un ordine lugubre e disperato: “Laghì sta i tèrmegn! La róba di óter la fa póca zuàda!”. Manco a dirlo, più nessuna mandria poteva essere portata su quell’alpeggio perché le mucche, in preda a un’indicibile inquietudine, si rifiutavano di pascolare, emettevano muggiti lamentosi e non davano una goccia di latte. Nemmeno le ripetute benedizioni impartite da vari sacerdoti seppero tener lontana quell’anima dannata, che continuò per anni a seminare il panico tra i montanari. E anche oggi può capitare, in certe notti di tempesta, di sentire su per la montagna lamenti umani mescolati al brontolio dei tuoni mentre guizzi di luce, simili a lampi, corrono qua e là sopra la distesa dei pascoli.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Questa leggenda viene raccontata ancora oggi in varie versioni, leggermente diverse tra loro, dagli anziani di Oltre il ColleSerina e Roncobello, ma anche di Gorno e Valcanale. Ciascuna di queste località indica anche il luogo preciso che fu teatro della vicenda: per quelli di Oltre il Colle si tratta dei pascoli del monte di Zambla, per i Serinesi è il monte Grem e per quelli di Roncobello, Gorno e Valcanale l’alpeggio del lago Branchino. Allo stesso modo, secondo gli abitanti di Oltre il Colle, il mandriano spergiuro, protagonista della leggenda, proveniva da Gorno, mentre a sentire quelli di Serina era di Sorisole e, per gli abitanti di Roncobello si trattava di un certo Valle di Serina, mentre per quello di Gorno e Valcanale il bugiardo era valbrembanino. Questa multiforme versione di una storia pressoché identica, ne denota la popolarità tra le popolazioni a cavallo tra le valli Brembana e Seriana e relative diramazioni. Per non far torto a nessuno, ne viene qui esposta una sintesi che assomma le varie versioni, lasciando volutamente indeterminati il paese e i personaggi. Or dunque, era sorta in quel paese una disputa accanita circa i diritti di possesso di un alpeggio. La maggioranza dei capifamiglia riteneva che tale alpeggio fosse di proprietà comunale e quindi a disposizione di tutti. Non così la pensava un vecchio mandriano, che era forestiero e il cui arrivo in paese, parecchi anni prima, aveva scatenato la discordia, in quanto egli vantava su quel pascolo diritti di esclusiva proprietà. Diritti, osservava, risalenti ai suoi antenati e tramandati in eredità di padre in figlio, fino a lui stesso. Una serie di processi, celebrati davanti al vicario di valle, non erano valsi ad appurare chi fosse il legittimo proprietario, di conseguenza, in mancanza di uno specifico divieto della pubblica autorità e facendosi scudo dei suoi asseriti diritti, il mandriano portava ogni anno regolarmente la sua mandria sull’alpeggio, sordo alle lamentele dei compaesani, i quali dal canto loro non erano ormai più disposti a subire tale situazione, considerandola un vero e proprio sopruso.

E così, ogni anno, assieme alla stagione dell’alpeggio si riaccendevano le dispute e non di rado accadeva che qualcuno passasse alle vie di fatto. Allora tra il mandriano prepotente, spalleggiato da figli e parenti e da certi vicini che traevano vantaggio dall’essere dalla sua parte, e qualcuno dei suoi avversari si scatenavano risse tremende, condite con pugni e bastonate. Una siffatta situazione non poteva più continuare e le autorità, ben consapevoli che presto ci sarebbe scappato il morto e desiderosi di risolvere una volta per tutte la complicata questione, deliberarono di invitare i contendenti ad una solenne cerimonia pubblica di giuramento, durante la quale si sperava che sarebbe finalmente emersa la verità. La cerimonia ebbe luogo una domenica mattina, poche settimane prima dell’avvio della stagione dell’alpeggio: i contendenti, le rispettive famiglie e quasi tutta la popolazione si riunirono attorno alla baita del pascolo della discordia. Assieme a loro giunsero lassù i consoli e i consiglieri del paese, il vicario di valle, in qualità di giudice supremo e i rappresentanti del governo inviati dal podestà di Bergamo, accompagnati da un drappello di soldati col compito di sedare non improbabili tumulti. C’erano poi il parroco del paese e un canonico, mandato dal vescovo allo scopo di attestare la validità del sacro giuramento, infine un notaio, con il compito di redigere il relativo atto formale. Celebrata la messa, le autorità civili e religiose si disposero attorno all’altare e invitarono i contendenti a giurare davanti al crocifisso, dopo averli severamente ammoniti sui gravi castighi civili e religiosi riservati agli spergiuri. Nessuno dei mandriani del paese ebbe però il coraggio di pronunciare la solenne formula attestante il loro diritto di proprietà, infatti non avevano alcuna certezza di tale diritto, non disponendo di prove ufficiali e inconfutabili.

Fu poi la volta del vecchio forestiero il quale, tra l’incredulità degli astanti, pronunciò a voce alta e sicura il seguente giuramento: “Giuro davanti a Dio che la terra che ho sotto i piedi appartiene a me e alla mia famiglia”. Alle parole seguì un attimo di silenzio, poi gli altri mandriani scoppiarono in urla minacciose all’indirizzo del vecchio, che fu accusato di spergiuro, e le forze dell’ordine riuscirono a stento a trattenere quella folla inferocita che tentava di farsi giustizia da sè. Ma ormai la questione era chiusa: le autorità civili e religiose sancirono ufficialmente e concordemente che il pascolo conteso doveva essere assegnato definitivamente al vecchio mandriano, il cui giuramento non lasciava adito a dubbi. Così fu, e da quel momento il mandriano poté far pascolare le sue bestie su quel terreno, godendo della protezione della legge. Ma, se all’apparenza, ostentava sicurezza e spavalderia, la sua coscienza era agitata da un sordo rimorso. Infatti il suo giuramento era stata una vera e propria truffa e, se di fronte agli uomini tutto sembrava all’apparenza ineccepibile, dentro di sé egli era consapevole di essersi meritato il castigo di Dio. Castigo che non sarebbe tardato ad arrivare, considerata l’età dello spergiuro. Era infatti accaduto che il giorno del giuramento il mandriano, mal consigliato dalla moglie, era entrato nel suo orto, aveva preso due manciate di quella terra e l’aveva messa nelle sue scarpe, sotto i piedi.

Forte di questa furbata, aveva quindi potuto giurare spavaldamente che la terra che aveva sotto i piedi era sua! Autorità e avversari erano stati in tal modo ingannati, ma quando il furbo mandriano venne a morire e si presentò davanti al giudizio di Dio, ebbe la punizione che si meritava. E di che natura fosse la penitenza lo appresero tutti coloro che negli anni seguenti ebbero la ventura di passare dalle parti dell’alpeggio durante un temporale. Allora potevano vedere l’anima dello spergiuro vagabondare per la montagna in groppa a un cavallo di fuoco che scalpitava sinistramente tra lampi e tuoni in un turbine di vento e grandine. A ogni passaggio il dannato mandriano urlava un ordine lugubre e disperato: “Laghì sta i tèrmegn! La róba di óter la fa póca zuàda!”. Manco a dirlo, più nessuna mandria poteva essere portata su quell’alpeggio perché le mucche, in preda a un’indicibile inquietudine, si rifiutavano di pascolare, emettevano muggiti lamentosi e non davano una goccia di latte. Nemmeno le ripetute benedizioni impartite da vari sacerdoti seppero tener lontana quell’anima dannata, che continuò per anni a seminare il panico tra i montanari. E anche oggi può capitare, in certe notti di tempesta, di sentire su per la montagna lamenti umani mescolati al brontolio dei tuoni mentre guizzi di luce, simili a lampi, corrono qua e là sopra la distesa dei pascoli.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La donna del gioco è un personaggio che ha popolato la fantasia di intere generazioni di bergamaschi, imperversando un po’ dappertutto con i suoi scherzi impertinenti e i giochetti astuti con i quali si divertiva alle spalle dei malcapitati che avevano la sventura di incontrarla. I comportamenti e le azioni attribuite a questa fantasiosa creatura variano a seconda delle zone, ma alcuni aspetti del carattere e del portamento sono comuni a tutte le tradizioni che la riguardano. In genere, viene rappresentata come una figura alta e allampanata, quasi diafana, con i capelli costantemente arruffati, vestita di lunghe gonne nere e con uno scialle a larghe frange buttato alla meglio sulle spalle. Talvolta era accompagnata da una quarantina di cani bianchi o da sette gatti, ciascuno con appeso al collo un piccolo sonaglio. Poco avvezza ad agire alla luce del sole, si scatenava al primo apparire del crepuscolo e diventava la regina incontrastata della notte. Allora la sua vita si trasformava in un frenetico girovagare sopra i monti e le vallate più impervie, che risaliva con una agilità e una leggerezza da lasciare stupiti. E poi, dall’alto delle vette si allungava prodigiosamente fino al cielo, tentando di giocare con le stelle e di fare l’altalena con la falce della luna calante.

Era un continuo vagabondare in preda a un’indicibile inquietudine, mitigata da rare pause di moderato entusiasmo che esprimeva a modo suo, con sommessi gridolini e stridule risate. Si trasformava continuamente e si dilatava a dismisura, crescendo fino a perdersi nell’atmosfera. Non era facile osservarla, ma ai più mattinieri capitava a volte di notarla, quando le ombre della notte cedevano il passo alla tenue luce dell’aurora, mentre si apprestava a ritirarsi per riposare in attesa che il giorno ultimasse il suo turno. Quanto poi a rivolgerle la parola, nessuno se n’era mai azzardato, perché al temerario che avesse osato farlo sarebbe arrivato in testa un mastello di acqua gelida.

Questo fino a quando un nottambulo di Zorzone di Oltre il Colle, uscito dall’osteria sul far dell’alba, in preda a una solenne sbronza, si sentì rivolgere questa domanda a bruciapelo: “Per chi éla la nòcc?”. Erano parole uscite dalla bocca della dòna del zöch, le prime che un essere umano avesse avuto la ventura di ascoltare. L’ubriaco, reso ardimentoso dall’alcool, ebbe la prontezza di spirito di rispondere: “Per me, per te, per chi che i va miga ‘n tùren del dé!”. Quella risposta fu la sua salvezza, la misteriosa creatura se ne volò via sghignazzando, lasciando di stucco l’inebetito interlocutore che aveva corso il rischio di essere spinto e sbatacchiato per terra dopo aver ricevuto una buona dose di sonanti ceffoni e una valanga di improperi.

Ma sorte peggiore toccò a un tale di Serina, pure lui alquanto alticcio, che la incontrò nel bel mezzo di un ponticello alle prime luci del giorno: ritemprata dall’aura della notte, la donna del gioco era bellissima, tutta sfavillante in un vestito di pizzo e di veli finissimi e trasparenti che le dava un non so che di malizioso e seducente. Questa figura, così allettante e all’apparenza disponibile, fece inebriare ancor di più il buonuomo che pensò subito di correre ad abbracciarla per assaporarne il dolce tepore, ma appena si fu avvicinato, la strana creatura cominciò a crescere vertiginosamente, allungando le gambe, su su fino al cielo, diventando al contempo come l’aria, diafana e impalpabile.

Il malcapitato, che si era slanciato verso di lei a braccia tese, non poté fare altro che passarle sotto le gambe divaricate, in preda a un indicibile spavento, e poi scappar via, mentre la regina della notte se la rideva agitando a mo’ di mulinello un paiolo pieno di monete d’oro e lasciandone cadere ogni tanto una manciata sopra l’ignaro fuggitivo come fossero una preziosa grandinata. La dòna del zöch era dunque assai dispettosa, come ben sapevano le lavandaie che, quando si recavano alla fontana per fare il bucato, rischiavano di essere prese di mira dai suoi scherzi impertinenti. La si poteva incontrare infatti presso la fontana pubblica o in riva al torrente, in tutti quei posti dove le donne, affaccendate attorno ai mastelli pieni d’acqua, lavavano i loro modesti panni con le mani e con la lingua.

Non era raro che, mentre erano intente a tali operazioni, venissero improvvisamente investite da grandi spruzzi d’acqua e bagnate da capo a piedi, mentre l’aria risuonava di striduli risolini di soddisfazione. Capitava che qualche donna durante la notte lasciasse il suo mastello fuori dalla casa con il bucato in ammollo nella lisciva. Era un invito a nozze per la dòna del zöch: a ora tarda tutta la famiglia veniva svegliata da strani rumori, allora, con precauzione e con un certo timore, i mariti si affacciavano alla finestra, non di rado imbracciando un fucile. Ebbene, la dòna del zöch era lì, dentro il mastello, che lavava i suoi panni, sguazzando nell’acqua, felice come una bambina alle prese con il suo primo bucato. Guai ad importunarla! Avrebbe reagito come successe una volta a Zorzone, che distolta dalla sua occupazione, prese a calci il mastello con tale veemenza da farlo volare giù fino in fondo all’orrido della Val Parina.

A proposito di bucato, una donna di Oltre il Colle che doveva recarsi nottetempo a Serina, nell’attraversare un torrente, scorse una figura scura china sull’acqua, intenta a lavare la sua gonna nera. Mentre era incerta se proseguire la sua strada o chiedere a quella persona il perché della sua insolita presenza in quel luogo, si sentì rivolgere la solita domanda: “Per chi éla la nòcc?”. La donna, benchè spaventata, riuscì a risponderle: “Per me, per te, per chi che i va miga ‘n tùren del dé!”. Tanto bastò per placare la misteriosa creatura che si allontanò brontolando: “Fortüna che ta m’ l’è cüntàda giösta, perché se no, poarèta te!”.

Gli uomini la temevano e quando dovevano andare in giro la notte, fossero soli o in gruppo, non mancavano di recitare una preghiera per le anime del Purgatorio, però va detto che in cuor loro avevano un certo desiderio di incontrare quella donna così insolita e diversa dalle loro compagne, semplici e senza grilli per la testa. Una donna stramba ma che, diciamolo pure, a parte qualche burla pazzerella non aveva mai fatto del male a nessuno, anzi, forse quella sua impertinenza era frutto del desiderio inappagato di sfuggire alla solitudine alla quale era stata condannata senza speranza chissà da quanto tempo. Peccato che il frastuono della vita moderna ci abbia adesso tolto il gusto un po’ elettrizzante di incontrare quella creatura, così bella, così misteriosa.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Gatti permalosi e gatte cornie

Come se non bastassero i serpenti a rovinare la vita ai nostri antenati, ci si mettevano anche i gatti. Si racconta che un contadino, di ritorno dal lavoro nei campi, cominciò ad essere seguito da un grosso gatto, che non lo abbandonava finché non metteva piede in casa. Una sera, stanco di vedere questo gatto, gli diede una bastonata, colpendolo a una zampa e il gatto se ne fuggì zoppicando e miagolando mestamente. Il contadino, arrivato a casa, venne a sapere che poco prima la sua moglie era stata colpita da un pezzo di legna caduto da una catasta e aveva riportato la frattura di una gamba. Allora non poté fare a meno di pensare che quel gatto vendicativo altri non era se non la moglie che, sotto sembianze feline, lo seguiva chissà poi per quale strano motivo! A volte, però, i gatti tornavano anche utili all’uomo, come accadde a un giovane di Oltre il Colle che stava rientrando dal lavoro dopo aver ricevuto la paga mensile. Arrivato presso il ponte della Val Parina, il giovane vide in mezzo alla strada un grosso gatto che sembrava intenzionato a impedirgli di passare. Prima con le buone e poi con le cattive, cercò allora di scansare l’animale, ma questo rimaneva lì, imperterrito, con fare minaccioso, ben deciso a non arretrare di un passo. Il giovane, incapace di venire a capo di questa insolita situazione, finì col sedersi a lato della strada, sperando che il gatto decidesse finalmente di andarsene.

Aspetta e aspetta, passò parecchio tempo, ma il gatto non si muoveva. E fu un bene, perché di là dal ponte, appostati dietro un cespuglio, c’erano due briganti armati di bastoni, che attendevano il giovane per aggredirlo e derubarlo. Stanchi di aspettare e visto che la situazione non si sarebbe sbloccata, i due malfattori dovettero venire allo scoperto e il gatto si avventò contro di loro con tale furia da costringerli alla fuga nel fitto del bosco. Così il giovane poté riprendere il cammino e tornare a casa sano e salvo, convincendosi in cuor suo che quel gatto in verità non era altro che l’anima di un suo caro defunto, tornato sulla terra ad aiutarlo. Assai strano è anche il gatto parlante, protagonista di una storiella che si racconta a Casnigo. Si dice che una ragazza, mentre stava facendo ritorno a casa dopo una giornata di lavoro in filanda, incontrò un gatto che si diede a seguirla docilmente come un cagnolino. Arrivata fuori la ragazza si accostò alla fontanella che stava nel suo giardino e, dopo aver bevuto un sorso d’acqua, si mise a spogliarsi e a lavarsi, senza curarsi di chicchessia. Mentre era intenta a tale disinvolta operazione, la giovane notò che il gatto se ne stava lì vicino e la osservava con interesse ridendo di gusto! Infastidita dall’impertinenza del felino e stupefatta per quel singolare sorriso, la ragazza esclamò: “Toh, adesso mi tocca anche di vedere un gatto che ride!”. E prontamente il gatto, che non solo sapeva ridere, ma anche parlare, rispose: “E a me tocca di vedere una ragazza scostumata che si toglie i vestiti all’aria aperta!”.

Ed eccoci alla gatta cornia, detta da altri la gatta carogna e da altri ancora la gratta corna. Proprio quest’ultima accezione sembra meglio definire il senso che si vuole attribuire a questo essere difficilmente definibile, il cui ruolo sarebbe stato di corrodere le montagne, riempiendole di grotte e caverne, quasi che fosse una sorta di topo alle prese con una forma di cacio. La gatta cornia era un felino molto grosso, famelico e dal pelo nero, dotato di un paio di poderose corna, ed era solita uscire dalla sua tana nelle notti di luna piena per aggirarsi tra i boschi e le montagne nel vano tentativo di saziare il suo insaziabile appetito. Era difficile, se non impossibile sorprenderla, ma si potevano facilmente trovare i segni della sua presenza quando, andando a spasso tra i boschi, si notavano caverne sempre più profonde scavate nelle rocce calcaree. Questi scavi erano il frutto del lungo grattare della gatta cornia, la quale del resto non era cattiva e non aveva mai fatto male a nessuno, salvo recarsi nottetempo nelle camere dei bambini disubbidienti, sorprenderli nel sonno e grattare i loro morbidi piedini, facendoli svegliare di soprassalto per il fastidioso solletico.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Come se non bastassero i serpenti a rovinare la vita ai nostri antenati, ci si mettevano anche i gatti. Si racconta che un contadino, di ritorno dal lavoro nei campi, cominciò ad essere seguito da un grosso gatto, che non lo abbandonava finché non metteva piede in casa. Una sera, stanco di vedere questo gatto, gli diede una bastonata, colpendolo a una zampa e il gatto se ne fuggì zoppicando e miagolando mestamente. Il contadino, arrivato a casa, venne a sapere che poco prima la sua moglie era stata colpita da un pezzo di legna caduto da una catasta e aveva riportato la frattura di una gamba. Allora non poté fare a meno di pensare che quel gatto vendicativo altri non era se non la moglie che, sotto sembianze feline, lo seguiva chissà poi per quale strano motivo! A volte, però, i gatti tornavano anche utili all’uomo, come accadde a un giovane di Oltre il Colle che stava rientrando dal lavoro dopo aver ricevuto la paga mensile. Arrivato presso il ponte della Val Parina, il giovane vide in mezzo alla strada un grosso gatto che sembrava intenzionato a impedirgli di passare. Prima con le buone e poi con le cattive, cercò allora di scansare l’animale, ma questo rimaneva lì, imperterrito, con fare minaccioso, ben deciso a non arretrare di un passo. Il giovane, incapace di venire a capo di questa insolita situazione, finì col sedersi a lato della strada, sperando che il gatto decidesse finalmente di andarsene.

Aspetta e aspetta, passò parecchio tempo, ma il gatto non si muoveva. E fu un bene, perché di là dal ponte, appostati dietro un cespuglio, c’erano due briganti armati di bastoni, che attendevano il giovane per aggredirlo e derubarlo. Stanchi di aspettare e visto che la situazione non si sarebbe sbloccata, i due malfattori dovettero venire allo scoperto e il gatto si avventò contro di loro con tale furia da costringerli alla fuga nel fitto del bosco. Così il giovane poté riprendere il cammino e tornare a casa sano e salvo, convincendosi in cuor suo che quel gatto in verità non era altro che l’anima di un suo caro defunto, tornato sulla terra ad aiutarlo. Assai strano è anche il gatto parlante, protagonista di una storiella che si racconta a Casnigo. Si dice che una ragazza, mentre stava facendo ritorno a casa dopo una giornata di lavoro in filanda, incontrò un gatto che si diede a seguirla docilmente come un cagnolino. Arrivata fuori la ragazza si accostò alla fontanella che stava nel suo giardino e, dopo aver bevuto un sorso d’acqua, si mise a spogliarsi e a lavarsi, senza curarsi di chicchessia. Mentre era intenta a tale disinvolta operazione, la giovane notò che il gatto se ne stava lì vicino e la osservava con interesse ridendo di gusto! Infastidita dall’impertinenza del felino e stupefatta per quel singolare sorriso, la ragazza esclamò: “Toh, adesso mi tocca anche di vedere un gatto che ride!”. E prontamente il gatto, che non solo sapeva ridere, ma anche parlare, rispose: “E a me tocca di vedere una ragazza scostumata che si toglie i vestiti all’aria aperta!”.

Ed eccoci alla gatta cornia, detta da altri la gatta carogna e da altri ancora la gratta corna. Proprio quest’ultima accezione sembra meglio definire il senso che si vuole attribuire a questo essere difficilmente definibile, il cui ruolo sarebbe stato di corrodere le montagne, riempiendole di grotte e caverne, quasi che fosse una sorta di topo alle prese con una forma di cacio. La gatta cornia era un felino molto grosso, famelico e dal pelo nero, dotato di un paio di poderose corna, ed era solita uscire dalla sua tana nelle notti di luna piena per aggirarsi tra i boschi e le montagne nel vano tentativo di saziare il suo insaziabile appetito. Era difficile, se non impossibile sorprenderla, ma si potevano facilmente trovare i segni della sua presenza quando, andando a spasso tra i boschi, si notavano caverne sempre più profonde scavate nelle rocce calcaree. Questi scavi erano il frutto del lungo grattare della gatta cornia, la quale del resto non era cattiva e non aveva mai fatto male a nessuno, salvo recarsi nottetempo nelle camere dei bambini disubbidienti, sorprenderli nel sonno e grattare i loro morbidi piedini, facendoli svegliare di soprassalto per il fastidioso solletico.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Si va indietro molti anni: a quel tempo quelli che passavano per la Valle di Poscante di notte e da soli, vedevano o sentivano gli spiriti; e molti che avevano qualche conto da rendere alla giustizia del Signore, passavano pieni di paura. Lungo questa strada si incontravano tre chiesine votive; una notte un uomo che veniva da Zogno per andare a casa sua a Poscante, arrivato alla prima cappelletta, vede davanti al cancello un prete che pregava a voce bassa, tenendo in mano un libro. Lui per essere bene educato lo saluta, ma il prete non risponde. L’uomo allora continua la sua strada, ma quando arriva vicino alla seconda cappelletta, sente come un uomo che brontola e si ferma; si guarda da ogni parte, ma non riesce a vedere nessuno. Fa due passi indietro e improvvisamente rivede lo stesso prete che stava davanti alla seconda cappelletta.

Il prete aveva in mano un libro più grande di quello di prima e pregava con voce più forte. Lui lo saluta ancora e però si sente preoccupato per quello che vede e se ne va via subito di buon passo, senza voltarsi indietro a guardare. Allorché’ giunge in vista della terza cappelletta, sente la voce del prete che prega ancora più forte; si ferma di nuovo mentre il cuore gli batte forte; si fa coraggio e si avvia per la strada che passa accanto alla cappelletta. Il prete era li davanti che pregava con voce ancora più alta: il prete ha in mano un grande foglio di carta bianca e lo porge all’uomo. Lui lo guarda in faccia e s’accorge che il prete e’ uno scheletro vestito da prete: l’uomo resta impietrito e fermo a guardare e intanto il prete scheletro se ne va leggero come l’aria, si allontana e poi sparisce del tutto. Il poveretto, spaurito, guarda il foglio che tiene in mano e vede che c’è scritto l’indirizzo del parroco di Poscante: senza perdere tempo corre a portarglielo.

Il foglio era tutto bianco, ma quando il parroco lo ha preso nelle sue mani si son viste comparire parole scritte; ma solo lui era in grado di leggerle. L’uomo che aveva portato il foglio non poteva capirle. Dopo che il prete le lesse fino in fondo, il foglio ritornò bianco. L’uomo era molto spaventato, ma il parroco di Poscante gli disse che non doveva aver paura, spiegò che lo scheletro che aveva visto era quello di un prete che aveva bisogno di bere per lui e per tutti i morti del paese.

L’uomo dai sette cappelli (Piazzatorre)

Tanti anni fa in una grotta sul monte Secco, in quel di Piazzatorre, viveva un tipo assai strano, che non si faceva mai vedere in paese, ma passava le sue giornate a lavorare nel bosco, tagliando la legna ed allevando qualche capra da cui ricavava quel poco latte che gli serviva per tenersi in vita. Era vestito rozzamente, con una grossa maglia di lana grezza, dei pantaloni di fustagno pieni di toppe e un paio di zoccoli chiodati da cui spuntavano le dita dei piedi malamente coperte da calzini lisi e bucati da più parti. Particolare curioso ed inspiegabile del suo abbigliamento erano i cappellacci, ben sette, che teneva sempre calcati in testa, uno sopra l’altro, e di cui non si separava mai, forse nemmeno quando si coricava sullo sporco pagliericcio che gli fungeva da letto. Un giorno accadde che un cacciatore di Piazzatorre cercasse il suo cane che si era perso sulla montagna durante una lunga e infruttuosa battuta di caccia alla lepre. Calata la sera e fattosi buio, il cacciatore non poté proseguire le ricerche e decise di passare la notte al riparo di una vecchia e sgangherata baita che era già stata il suo provvidenziale rifugio qualche anno prima, durante un furioso temporale.

Benché stanco per la lunga camminata, ebbe difficoltà a prendere sonno, sia perché si era dovuto sdraiare sul freddo e nudo pavimento della baita, ma soprattutto perché era preoccupato per il suo cane, un segugio dal pelo fulvo e dagli occhi cristallini, sempre in movimento e in cerca di qualche avventura, che tuttavia non si era mai allontanato dal suo padrone più di qualche ora, tornando sempre alla sua cuccia, specie quando c’era da assaporare qualche gustoso bocconcino che il padrone gli propinava come premio dei suoi successi venatori. Finalmente la stanchezza ebbe il sopravvento e il cacciatore riuscì ad addormentarsi, ma nel colmo della notte si svegliò di soprassalto: gli era parso di udire in lontananza il guaito disperato del suo cane, il richiamo lamentoso dell’animale in pericolo. Si alzò, uscì dalla baita, tese l’orecchio e rimase in ascolto, ma nessun rumore proveniva dal bosco, se non il flebile scroscio di un ruscello e il richiamo rauco e lugubre di una civetta, ripetuto stancamente ad intervalli regolari. Trascorso parecchio tempo e convintosi di aver sognato, rientrò nella baita, ma non ci fu verso di riaddormentarsi. Così, ai primi chiarori dell’alba, lasciò il suo rifugio notturno e si inoltrò nel bosco per riprendere le ricerche del cane. A un certo punto, dopo un paio d’ore di inutile girovagare senza una meta precisa, si ricordò di quello strano personaggio dai sette cappelli che gli era capitato qualche rara volta di intravedere ai margini del bosco e che al suo apparire si era affrettato a nascondersi nel fitto degli alberi. La dimora di quel tipo così poco socievole doveva essere in quella zona e forse il cane, stanco e affamato, aveva trovato ospitalità presso di lui. Non si sbagliava: l’uomo dai sette cappelli viveva proprio da quelle parti. Ma sarebbe stato meglio che vivesse migliaia di chilometri più lontano, perché il cacciatore lo incontrò, finalmente, nel fitto del bosco, appena dietro una siepe di arbusti e rovi.

E si trattò di un incontro drammatico. La scena che gli si presentò era terrificante: l’uomo dai sette cappelli, tutto sporco di sangue, era seduto a cavalcioni di un grosso tronco posto all’ingresso della grotta e con un lungo coltellaccio stava facendo a pezzi un animale, divorandone avidamente la carne, cruda e sanguinante. Ci volle solo un attimo al cacciatore per accorgersi che la povera preda dell’uomo dai sette cappelli era un cane, il suo fido segugio! Fuori di sé dal dolore e dalla rabbia, si slanciò contro quell’individuo, con furia omicida, ma l’altro si alzò di scatto e gli si rivoltò contro, minaccioso, brandendo il coltello e cercando di colpirlo. Per fortuna il primo fendente andò a vuoto e ciò consentì al cacciatore di portarsi momentaneamente fuori tiro, ma poiché l’altro continuava a rincorrerlo, intenzionato ad ammazzarlo, dovette darsela a gambe e non si fermò finché non ebbe raggiunto il limitare del bosco. Poi, ormai in salvo, riprese mestamente la via di casa, con l’animo angosciato per quanto era successo a lui e al suo povero cane. A Piazzatorre però la sua storia non fu creduta e tutti ritenevano che la macabra visione che il cacciatore continuava a descrivere nei minimi particolari fosse solo frutto della sua fantasia, magari innaffiata con qualche bicchiere di troppo. Gli amici dell’osteria, con i quali trascorreva le serate a giocare a carte, iniziarono a prendersi gioco di lui e a trattarlo da visionario.

Quanto al cane, che non aveva ovviamente più fatto ritorno, cercavano di tranquillizzarne il proprietario sostenendo che si era preso una vacanza avventurosa e che avrebbe ben presto fatto ritorno a casa, una volta spenti i bollori della scappatella con qualche cagnetta dei paesi vicini. Così, col passare dei giorni anche il cacciatore finì per convincersi di essersi sognato tutto e tornò a nutrire una pur timida speranza nel ritorno del suo cane. Ma avvicinandosi la brutta stagione, uno di quegli amici che avevano tanto deriso il malcapitato cacciatore, forse il più incredulo, si trovò un giorno, sul far del tramonto, a passare dalle parti del monte Secco. Era salito fin lassù in cerca di funghi che in autunno crescono abbondanti in quella zona. Inoltratosi nel bosco, giunse senza saperlo vicino alla grotta dell’uomo dai sette cappelli. Alzato lo sguardo, rimase impietrito dalla scena che apparve ai suoi occhi: l’uomo dai sette cappelli era lì, davanti a lui, e cercava di tenere a bada tre lupi famelici che ringhiando sinistramente stavano dilaniando il cadavere di un povero uomo. L’orribile spettacolo paralizzò il cercatore di funghi che per un attimo si sentì perduto. Per fortuna la sua presenza passò inosservata, così, con grande cautela, riuscì ad allontanarsi e a darsi a precipitosa fuga verso casa.

Gli ci volle parecchio tempo per riprendere l’orientamento; ormai si era fatto buio e procedeva a tentoni nel fitto della boscaglia. La luna filtrava tra gli alberi e proiettava sul terreno ombre terrificanti di mostri che sembravano ghermirlo con poderose zampe munite di artigli affilati e il vento contribuiva a questo gioco spaventoso, rendendo i fantasmi del bosco più sinuosi ed angoscianti. Più morto che vivo, arrivò in paese, chiamò alcuni amici, tra cui il cacciatore che aveva perso il cane, raccontò loro la sua terribile esperienza e li convinse ad organizzare una battuta di caccia al mostro del monte Secco. Con precauzione e in preda a una sorda paura, il mattino seguente il gruppetto raggiunse le pendici della montagna, penetrò nel bosco e arrivò fino alla grotta. All’esterno, seduto sul tronco dell’albero, c’era l’uomo dai sette cappelli che stava consumando il suo orrido pasto con i resti umani lasciati dalle tre belve, le quali, ormai sazie, sonnecchiavano sdraiate ai suoi piedi. Una nutrita scarica di fucilate squarciò il silenzio della montagna. Raggiunto da numerosi colpi, l’uomo dai sette cappelli ebbe ancora la forza di alzarsi, rimase un attimo in piedi, con uno sguardo dolorosamente stupito, poi stramazzò al suolo senza un lamento. Anche i lupi, colpiti a morte nel sonno, si accasciarono in una pozza di sangue. Poi, con grande sorpresa dei cacciatori, l’uomo e le bestie scomparvero sotto terra senza lasciare la minima traccia della loro presenza. I cacciatori, dopo aver a lungo, ma inutilmente cercato qualche indizio che rivelasse l’identità di quel misterioso individuo, se ne tornarono a Piazzatorre dove raccontarono l’accaduto. Da allora questa storia viene sempre narrata dai nonni ai loro nipotini nelle lunghe serate d’inverno, e anche adesso che la televisione ha cancellato il gusto di ascoltare le storie, c’è ancora qualche bambino che di notte sogna brutti incontri con l’uomo dai sette cappelli.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Tanti anni fa in una grotta sul monte Secco, in quel di Piazzatorre, viveva un tipo assai strano, che non si faceva mai vedere in paese, ma passava le sue giornate a lavorare nel bosco, tagliando la legna ed allevando qualche capra da cui ricavava quel poco latte che gli serviva per tenersi in vita. Era vestito rozzamente, con una grossa maglia di lana grezza, dei pantaloni di fustagno pieni di toppe e un paio di zoccoli chiodati da cui spuntavano le dita dei piedi malamente coperte da calzini lisi e bucati da più parti. Particolare curioso ed inspiegabile del suo abbigliamento erano i cappellacci, ben sette, che teneva sempre calcati in testa, uno sopra l’altro, e di cui non si separava mai, forse nemmeno quando si coricava sullo sporco pagliericcio che gli fungeva da letto. Un giorno accadde che un cacciatore di Piazzatorre cercasse il suo cane che si era perso sulla montagna durante una lunga e infruttuosa battuta di caccia alla lepre. Calata la sera e fattosi buio, il cacciatore non poté proseguire le ricerche e decise di passare la notte al riparo di una vecchia e sgangherata baita che era già stata il suo provvidenziale rifugio qualche anno prima, durante un furioso temporale.

Benché stanco per la lunga camminata, ebbe difficoltà a prendere sonno, sia perché si era dovuto sdraiare sul freddo e nudo pavimento della baita, ma soprattutto perché era preoccupato per il suo cane, un segugio dal pelo fulvo e dagli occhi cristallini, sempre in movimento e in cerca di qualche avventura, che tuttavia non si era mai allontanato dal suo padrone più di qualche ora, tornando sempre alla sua cuccia, specie quando c’era da assaporare qualche gustoso bocconcino che il padrone gli propinava come premio dei suoi successi venatori. Finalmente la stanchezza ebbe il sopravvento e il cacciatore riuscì ad addormentarsi, ma nel colmo della notte si svegliò di soprassalto: gli era parso di udire in lontananza il guaito disperato del suo cane, il richiamo lamentoso dell’animale in pericolo. Si alzò, uscì dalla baita, tese l’orecchio e rimase in ascolto, ma nessun rumore proveniva dal bosco, se non il flebile scroscio di un ruscello e il richiamo rauco e lugubre di una civetta, ripetuto stancamente ad intervalli regolari. Trascorso parecchio tempo e convintosi di aver sognato, rientrò nella baita, ma non ci fu verso di riaddormentarsi. Così, ai primi chiarori dell’alba, lasciò il suo rifugio notturno e si inoltrò nel bosco per riprendere le ricerche del cane. A un certo punto, dopo un paio d’ore di inutile girovagare senza una meta precisa, si ricordò di quello strano personaggio dai sette cappelli che gli era capitato qualche rara volta di intravedere ai margini del bosco e che al suo apparire si era affrettato a nascondersi nel fitto degli alberi. La dimora di quel tipo così poco socievole doveva essere in quella zona e forse il cane, stanco e affamato, aveva trovato ospitalità presso di lui. Non si sbagliava: l’uomo dai sette cappelli viveva proprio da quelle parti. Ma sarebbe stato meglio che vivesse migliaia di chilometri più lontano, perché il cacciatore lo incontrò, finalmente, nel fitto del bosco, appena dietro una siepe di arbusti e rovi.

E si trattò di un incontro drammatico. La scena che gli si presentò era terrificante: l’uomo dai sette cappelli, tutto sporco di sangue, era seduto a cavalcioni di un grosso tronco posto all’ingresso della grotta e con un lungo coltellaccio stava facendo a pezzi un animale, divorandone avidamente la carne, cruda e sanguinante. Ci volle solo un attimo al cacciatore per accorgersi che la povera preda dell’uomo dai sette cappelli era un cane, il suo fido segugio! Fuori di sé dal dolore e dalla rabbia, si slanciò contro quell’individuo, con furia omicida, ma l’altro si alzò di scatto e gli si rivoltò contro, minaccioso, brandendo il coltello e cercando di colpirlo. Per fortuna il primo fendente andò a vuoto e ciò consentì al cacciatore di portarsi momentaneamente fuori tiro, ma poiché l’altro continuava a rincorrerlo, intenzionato ad ammazzarlo, dovette darsela a gambe e non si fermò finché non ebbe raggiunto il limitare del bosco. Poi, ormai in salvo, riprese mestamente la via di casa, con l’animo angosciato per quanto era successo a lui e al suo povero cane. A Piazzatorre però la sua storia non fu creduta e tutti ritenevano che la macabra visione che il cacciatore continuava a descrivere nei minimi particolari fosse solo frutto della sua fantasia, magari innaffiata con qualche bicchiere di troppo. Gli amici dell’osteria, con i quali trascorreva le serate a giocare a carte, iniziarono a prendersi gioco di lui e a trattarlo da visionario.

Quanto al cane, che non aveva ovviamente più fatto ritorno, cercavano di tranquillizzarne il proprietario sostenendo che si era preso una vacanza avventurosa e che avrebbe ben presto fatto ritorno a casa, una volta spenti i bollori della scappatella con qualche cagnetta dei paesi vicini. Così, col passare dei giorni anche il cacciatore finì per convincersi di essersi sognato tutto e tornò a nutrire una pur timida speranza nel ritorno del suo cane. Ma avvicinandosi la brutta stagione, uno di quegli amici che avevano tanto deriso il malcapitato cacciatore, forse il più incredulo, si trovò un giorno, sul far del tramonto, a passare dalle parti del monte Secco. Era salito fin lassù in cerca di funghi che in autunno crescono abbondanti in quella zona. Inoltratosi nel bosco, giunse senza saperlo vicino alla grotta dell’uomo dai sette cappelli. Alzato lo sguardo, rimase impietrito dalla scena che apparve ai suoi occhi: l’uomo dai sette cappelli era lì, davanti a lui, e cercava di tenere a bada tre lupi famelici che ringhiando sinistramente stavano dilaniando il cadavere di un povero uomo. L’orribile spettacolo paralizzò il cercatore di funghi che per un attimo si sentì perduto. Per fortuna la sua presenza passò inosservata, così, con grande cautela, riuscì ad allontanarsi e a darsi a precipitosa fuga verso casa.

Gli ci volle parecchio tempo per riprendere l’orientamento; ormai si era fatto buio e procedeva a tentoni nel fitto della boscaglia. La luna filtrava tra gli alberi e proiettava sul terreno ombre terrificanti di mostri che sembravano ghermirlo con poderose zampe munite di artigli affilati e il vento contribuiva a questo gioco spaventoso, rendendo i fantasmi del bosco più sinuosi ed angoscianti. Più morto che vivo, arrivò in paese, chiamò alcuni amici, tra cui il cacciatore che aveva perso il cane, raccontò loro la sua terribile esperienza e li convinse ad organizzare una battuta di caccia al mostro del monte Secco. Con precauzione e in preda a una sorda paura, il mattino seguente il gruppetto raggiunse le pendici della montagna, penetrò nel bosco e arrivò fino alla grotta. All’esterno, seduto sul tronco dell’albero, c’era l’uomo dai sette cappelli che stava consumando il suo orrido pasto con i resti umani lasciati dalle tre belve, le quali, ormai sazie, sonnecchiavano sdraiate ai suoi piedi. Una nutrita scarica di fucilate squarciò il silenzio della montagna. Raggiunto da numerosi colpi, l’uomo dai sette cappelli ebbe ancora la forza di alzarsi, rimase un attimo in piedi, con uno sguardo dolorosamente stupito, poi stramazzò al suolo senza un lamento. Anche i lupi, colpiti a morte nel sonno, si accasciarono in una pozza di sangue. Poi, con grande sorpresa dei cacciatori, l’uomo e le bestie scomparvero sotto terra senza lasciare la minima traccia della loro presenza. I cacciatori, dopo aver a lungo, ma inutilmente cercato qualche indizio che rivelasse l’identità di quel misterioso individuo, se ne tornarono a Piazzatorre dove raccontarono l’accaduto. Da allora questa storia viene sempre narrata dai nonni ai loro nipotini nelle lunghe serate d’inverno, e anche adesso che la televisione ha cancellato il gusto di ascoltare le storie, c’è ancora qualche bambino che di notte sogna brutti incontri con l’uomo dai sette cappelli.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Come sempre accadeva, anche quella domenica di fine luglio aveva preferito prendere la via dei boschi anziché stare tra i suoi compaesani a rispettare il sacrosanto riposo settimanale. E sì che quello era il giorno più atteso dell’anno, il giorno in cui si festeggiava la patrona del paese, Santa Brigida, nella chiesa più antica della Valle Averara. Era una festa assai solenne, a cui prendeva parte tutta la popolazione della vallata, richiamata lassù non solo per le cerimonie religiose, la processione al suono della banda, il solenne rituale dell’offerta dei doni alla chiesa, ma anche per la sagra popolare che ne seguiva e che teneva tutti svegli e allegri fino a tarda ora. Al Rossàl, così si chiamava per via del colore fulvo di barba e capelli, il protagonista di questa storia che si racconta ancora oggi a Santa Brigida e negli altri paesi della Valle Averara, tutto questo non interessava affatto. Per lui quello era un giorno come un altro, per nulla diverso dal resto della settimana e dell’anno. Un giorno da trascorrere nelle solite occupazioni: accudire le quattro bestie nella stalla e nel piccolo pollaio, prepararsi i pasti, aggiustare qualche attrezzo o riparare qualche struttura della sua misera casa e, a seconda della stagione, tagliare il fieno nei prati, spargere il letame o andar per boschi a fare legna per sé e strame per il letto dei suoi animali.

L’unico svago che si concedeva, e a cui non avrebbe rinunciato per niente al mondo, era la caccia, praticata in ogni periodo dell’anno, fosse o no permessa, col fucile, con le reti, gli archetti e altri marchingegni che piazzava con infallibile competenza nei luoghi più adatti per catturare uccelli, lepri e ogni altra specie di selvaggina che costituivano la base quasi esclusiva della sua alimentazione, eccezion fatta di quant’altro gli metteva a disposizione la natura nelle diverse stagioni e cioè, rane, lumache, funghi, castagne e noci, senza trascurare, ben inteso, la quotidiana polenta, il latte delle sue mucche e le uova delle sue galline. Il Rossàl abitava in una stamberga circondata da un piccolo prato e da un fitto bosco, poco distante da Carale, una contrada di Santa Brigida. Faceva una vita da eremita e non permetteva ad alcuno di avvicinarsi alla sua casa, rivolgendosi minaccioso a chiunque passasse da quelle parti, agitando per aria l’attrezzo che si trovava in quel momento per le mani e accompagnando il gesto con urlacci convulsi e incomprensibili.

Quella mattina, dunque, il Rossàl stava girovagando già da un po’ di tempo nel bosco, incurante della giornata festiva, ma per quanto prestasse attenzione a ogni minimo fruscio, non era ancora riuscito a catturare il più piccolo uccellino. Strada facendo si era premurato di controllare le sue trappole, piazzate con cura nei posti più adatti per sorprendere le prede, ma anche quelle erano tutte desolatamente vuote. Assai contrariato e in preda a un fastidioso nervosismo per l’insuccesso della battuta, correva qua e là per il bosco, brontolando a mezza voce e imprecando contro la cattiva sorte. Così intento nel suo inutile e lamentoso girovagare, non si accorse di una strana presenza che si era materializzata da qualche tempo: un cane nero, di razza incerta, che lo stava seguendo in silenzio. Quando se ne avvide, si stupì di tale imprevisto compagno e si domandò da dove fosse saltato fuori e che cosa ci facesse così attaccato alle sue calcagna.

Poi cercò di scacciarlo con male parole, ma il cane non accolse l’invito, anzi, gli si fece ancora più vicino, quasi a dimostrargli di averlo eletto a suo padrone. Gli stava un po’ davanti e un po’ dietro, scodinzolava, annusava per terra, rimaneva qualche attimo in ascolto con le orecchie tese, fiutando l’aria, proprio come fanno tutti i cani in queste situazioni. Ma il Rossàl non gradiva la sua presenza e provò di nuovo, a più riprese, a scacciarlo, lanciandogli anche un sasso. Niente da fare! Allora, per toglierlo di mezzo, o forse solo per spaventarlo, gli puntò contro il fucile, facendo l’atto di sparare: “Adès ta spare, perché so stöf che te me ègnet dré”. Il cane si bloccò di colpo, drizzò le orecchie, arruffò il pelo, ringhiò cupamente, poi aprì la bocca e parlò: “Arda Rossàl, no sta’ a tirà!”. Il Rossàl rimase a bocca aperta per la sorpresa, poi, notando che il cane lo fissava con un ghigno inquietante, fu sopraffatto dallo spavento e invece di sparare se la diede a gambe e corse senza fermarsi fino a Santa Brigida. Arrivò in paese che era quasi mezzogiorno e la gente era ancora riunita in chiesa per la messa grande. Trovò un’osteria aperta e vi entrò per bere qualcosa di forte che lo sollevasse dallo spavento. C’era solo l’oste che si meravigliò assai dell’insolita visita di quel tipo solitamente così restio a farsi vedere e notò subito i segni della paura sul suo volto angosciato. Il Rossàl ordinò un quarto di vino e lo scolò d’un fiato, poi rinfrancato alquanto raccontò la brutta avventura all’oste, il quale ovviamente non credette una sola parola dello strano racconto, immaginando che l’avventore fosse rimasto vittima di qualche scherzo di cattivo gusto o che si fosse immaginato tutto, sotto gli effetti di una cattiva bevuta. Tuttavia cercò di rincuorarlo dicendogli che forse la strana visione era dovuta alla stanchezza o alla fame.

Ma nel giro di poche ore tutto il paese era al corrente dell’insolita avventura del Rossàl, che divenne ancora di più la vittima dei lazzi di grandi e piccoli. Passarono i giorni e anche il Rossàl si convinse che forse la storia del cane nero era stata solo frutto della sua fantasia, così non ci pensò più. Ben presto tornò alle sue solite abitudini e riprese ad andare a caccia tutti i giorni, compresi quelli festivi. Un paio di mesi dopo quell’oscuro episodio, verso la fine di settembre, eccolo dunque di nuovo col fucile in spalla salire su per la montagna a caccia di camosci. Era una domenica mattina e nemmeno quella era una domenica qualsiasi, bensì il giorno della festa dell’Addolorata, altra ricorrenza speciale, dopo quella della patrona, per la comunità parrocchiale di Santa Brigida. Il Rossàl, invece, proprio come era suo solito, aveva preferito scappare dal paese in festa, disdegnando le sacre cerimonie e la conseguente sagra paesana, per andare a solitaria caccia su per il Piàcc. E questa volta la caccia fu premiata con una preda superba: un grosso camoscio abbattuto con un solo colpo da considerevole distanza, cosa che lo riempì di orgoglio e gli fece tornare il gusto per la vita a contatto diretto con la natura selvaggia.

Caricatosi l’animale in spalla, l’empio cacciatore prese la via di casa, superando non senza difficoltà, curvo sotto il pesante fardello, le costanti insidie di impervi sentieri e di intricati ammassi cespugliosi. Era ormai arrivato in vista di Santa Brigida, precisamente nel luogo chiamato il Sàcc, quando udì un forte e persistente fruscio proveniente dal fitto della boscaglia. Si fermò e si mise in ascolto. Il fruscio si fece più intenso e continuo, come se tra le piante ci fosse un animale impazzito. Stava per deporre il camoscio e imbracciare il fucile per andare a verificare l’origine di questo affannoso andirivieni, quando dal cespuglio sbucò una figura scura in cui riconobbe con raccapriccio il misterioso cane di due mesi addietro. L’aspetto dell’animale era assai mutato rispetto alla prima apparizione: al posto del cane all’apparenza normale e addirittura mansueto di allora, c’era adesso una belva furiosa che gli si avventò contro con un impeto terrificante. Quell’essere immondo con il pelo irto e arruffato, gli occhi infuocati, la bocca bavosa, la coda ripiegata tra le zampe posteriori lo incalzava sempre più da vicino, col preciso intento di azzannarlo, digrignando i denti e latrando furiosamente. Ma quello che più spaventava il Rossàl erano i versi disarticolati, i suoni gutturali quasi umani, abbozzi di parole smozzicate che l’animale emetteva assieme ai latrati, quasi a voler esprimere chissà quale sorta di infernale minaccia. A furia di indietreggiare, l’uomo era arrivato sul ciglio di un burrone che si apriva sotto il sentiero. Il pesante fardello che gli gravava le spalle lo rendeva impacciato nei movimenti e gli impediva di organizzare un’efficace difesa contro la furia dell’assalitore che invece sembrava acquistare nuovo impeto via via che l’assalito dava segni di cedimento. Impossibile lasciar cadere il camoscio per terra e imbracciare il fucile: sarebbe significato sguarnire per un attimo la difesa e lasciarsi sopraffare. Ormai il Rossàl era allo stremo delle forze, aveva raggiunto l’orlo del precipizio e la vista gli si stava annebbiando per la fatica. Ancora un attimo e sarebbe stato sbranato da quella furia scatenata o sarebbe precipitato nel vuoto. Senza più speranza, in un estremo tentativo di difesa, mentre il cane stava ormai per agguantarlo, raccolse tutte le sue forze e lasciò partire un poderoso calcio, riuscendo a colpire in pieno l’animale che reagì, emettendo lamentosi guaiti e compiendo una serie di folli piroette su se stesso che smossero il terreno in forma di cerchio.

Ma nello sferrare il calcio il Rossàl aveva perso l’equilibrio e così precipitò nel burrone. Nello stesso tempo la strada franò dietro di lui ed egli venne trascinato in basso in un’accozzaglia di terriccio, sassi, alberi sradicati che lo travolsero sommergendolo sotto il loro peso. Si riebbe dopo qualche tempo. Era ferito in varie parti del corpo, sanguinava abbondantemente ed era tutto indolenzito, ma il camoscio che egli non aveva mai lasciato, era caduto con lui riparandolo in parte dai detriti più pesanti. Malgrado le ferite e lo spavento per il terribile incontro di poco prima, il Rossàl cercò di mettersi in piedi e di ritornare sul sentiero, ma si sentiva troppo debole per il sangue versato e la fatica lo opprimeva, così, dopo un ultimo inutile sforzo, dovette desistere e non poté fare altro che iniziare a gridare, chiedendo aiuto. Lo trovarono il giorno dopo alcuni cacciatori di Santa Brigida, richiamati dai suoi ormai flebili lamenti. Non senza difficoltà, lo riportarono sul sentiero, poi lo adagiarono su una barella di rami intrecciati e presero la via del ritorno. Ma il Rossàl non rivide più il suo paese. Spirò lungo la strada, non prima però di essere riuscito a raccontare ai soccorritori, tra lacrime e lamenti, la sua tremenda avventura, assicurando che quel dannato cane altri non era se non il Diavolo in persona che era venuto a prenderlo.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Ol Rossàl di Santa Brigida

Come sempre accadeva, anche quella domenica di fine luglio aveva preferito prendere la via dei boschi anziché stare tra i suoi compaesani a rispettare il sacrosanto riposo settimanale. E sì che quello era il giorno più atteso dell’anno, il giorno in cui si festeggiava la patrona del paese, Santa Brigida, nella chiesa più antica della Valle Averara. Era una festa assai solenne, a cui prendeva parte tutta la popolazione della vallata, richiamata lassù non solo per le cerimonie religiose, la processione al suono della banda, il solenne rituale dell’offerta dei doni alla chiesa, ma anche per la sagra popolare che ne seguiva e che teneva tutti svegli e allegri fino a tarda ora. Al Rossàl, così si chiamava per via del colore fulvo di barba e capelli, il protagonista di questa storia che si racconta ancora oggi a Santa Brigida e negli altri paesi della Valle Averara, tutto questo non interessava affatto. Per lui quello era un giorno come un altro, per nulla diverso dal resto della settimana e dell’anno. Un giorno da trascorrere nelle solite occupazioni: accudire le quattro bestie nella stalla e nel piccolo pollaio, prepararsi i pasti, aggiustare qualche attrezzo o riparare qualche struttura della sua misera casa e, a seconda della stagione, tagliare il fieno nei prati, spargere il letame o andar per boschi a fare legna per sé e strame per il letto dei suoi animali.

L’unico svago che si concedeva, e a cui non avrebbe rinunciato per niente al mondo, era la caccia, praticata in ogni periodo dell’anno, fosse o no permessa, col fucile, con le reti, gli archetti e altri marchingegni che piazzava con infallibile competenza nei luoghi più adatti per catturare uccelli, lepri e ogni altra specie di selvaggina che costituivano la base quasi esclusiva della sua alimentazione, eccezion fatta di quant’altro gli metteva a disposizione la natura nelle diverse stagioni e cioè, rane, lumache, funghi, castagne e noci, senza trascurare, ben inteso, la quotidiana polenta, il latte delle sue mucche e le uova delle sue galline. Il Rossàl abitava in una stamberga circondata da un piccolo prato e da un fitto bosco, poco distante da Carale, una contrada di Santa Brigida. Faceva una vita da eremita e non permetteva ad alcuno di avvicinarsi alla sua casa, rivolgendosi minaccioso a chiunque passasse da quelle parti, agitando per aria l’attrezzo che si trovava in quel momento per le mani e accompagnando il gesto con urlacci convulsi e incomprensibili.

Quella mattina, dunque, il Rossàl stava girovagando già da un po’ di tempo nel bosco, incurante della giornata festiva, ma per quanto prestasse attenzione a ogni minimo fruscio, non era ancora riuscito a catturare il più piccolo uccellino. Strada facendo si era premurato di controllare le sue trappole, piazzate con cura nei posti più adatti per sorprendere le prede, ma anche quelle erano tutte desolatamente vuote. Assai contrariato e in preda a un fastidioso nervosismo per l’insuccesso della battuta, correva qua e là per il bosco, brontolando a mezza voce e imprecando contro la cattiva sorte. Così intento nel suo inutile e lamentoso girovagare, non si accorse di una strana presenza che si era materializzata da qualche tempo: un cane nero, di razza incerta, che lo stava seguendo in silenzio. Quando se ne avvide, si stupì di tale imprevisto compagno e si domandò da dove fosse saltato fuori e che cosa ci facesse così attaccato alle sue calcagna.

Poi cercò di scacciarlo con male parole, ma il cane non accolse l’invito, anzi, gli si fece ancora più vicino, quasi a dimostrargli di averlo eletto a suo padrone. Gli stava un po’ davanti e un po’ dietro, scodinzolava, annusava per terra, rimaneva qualche attimo in ascolto con le orecchie tese, fiutando l’aria, proprio come fanno tutti i cani in queste situazioni. Ma il Rossàl non gradiva la sua presenza e provò di nuovo, a più riprese, a scacciarlo, lanciandogli anche un sasso. Niente da fare! Allora, per toglierlo di mezzo, o forse solo per spaventarlo, gli puntò contro il fucile, facendo l’atto di sparare: “Adès ta spare, perché so stöf che te me ègnet dré”. Il cane si bloccò di colpo, drizzò le orecchie, arruffò il pelo, ringhiò cupamente, poi aprì la bocca e parlò: “Arda Rossàl, no sta’ a tirà!”. Il Rossàl rimase a bocca aperta per la sorpresa, poi, notando che il cane lo fissava con un ghigno inquietante, fu sopraffatto dallo spavento e invece di sparare se la diede a gambe e corse senza fermarsi fino a Santa Brigida. Arrivò in paese che era quasi mezzogiorno e la gente era ancora riunita in chiesa per la messa grande. Trovò un’osteria aperta e vi entrò per bere qualcosa di forte che lo sollevasse dallo spavento. C’era solo l’oste che si meravigliò assai dell’insolita visita di quel tipo solitamente così restio a farsi vedere e notò subito i segni della paura sul suo volto angosciato. Il Rossàl ordinò un quarto di vino e lo scolò d’un fiato, poi rinfrancato alquanto raccontò la brutta avventura all’oste, il quale ovviamente non credette una sola parola dello strano racconto, immaginando che l’avventore fosse rimasto vittima di qualche scherzo di cattivo gusto o che si fosse immaginato tutto, sotto gli effetti di una cattiva bevuta. Tuttavia cercò di rincuorarlo dicendogli che forse la strana visione era dovuta alla stanchezza o alla fame.

Ma nel giro di poche ore tutto il paese era al corrente dell’insolita avventura del Rossàl, che divenne ancora di più la vittima dei lazzi di grandi e piccoli. Passarono i giorni e anche il Rossàl si convinse che forse la storia del cane nero era stata solo frutto della sua fantasia, così non ci pensò più. Ben presto tornò alle sue solite abitudini e riprese ad andare a caccia tutti i giorni, compresi quelli festivi. Un paio di mesi dopo quell’oscuro episodio, verso la fine di settembre, eccolo dunque di nuovo col fucile in spalla salire su per la montagna a caccia di camosci. Era una domenica mattina e nemmeno quella era una domenica qualsiasi, bensì il giorno della festa dell’Addolorata, altra ricorrenza speciale, dopo quella della patrona, per la comunità parrocchiale di Santa Brigida. Il Rossàl, invece, proprio come era suo solito, aveva preferito scappare dal paese in festa, disdegnando le sacre cerimonie e la conseguente sagra paesana, per andare a solitaria caccia su per il Piàcc. E questa volta la caccia fu premiata con una preda superba: un grosso camoscio abbattuto con un solo colpo da considerevole distanza, cosa che lo riempì di orgoglio e gli fece tornare il gusto per la vita a contatto diretto con la natura selvaggia.

Caricatosi l’animale in spalla, l’empio cacciatore prese la via di casa, superando non senza difficoltà, curvo sotto il pesante fardello, le costanti insidie di impervi sentieri e di intricati ammassi cespugliosi. Era ormai arrivato in vista di Santa Brigida, precisamente nel luogo chiamato il Sàcc, quando udì un forte e persistente fruscio proveniente dal fitto della boscaglia. Si fermò e si mise in ascolto. Il fruscio si fece più intenso e continuo, come se tra le piante ci fosse un animale impazzito. Stava per deporre il camoscio e imbracciare il fucile per andare a verificare l’origine di questo affannoso andirivieni, quando dal cespuglio sbucò una figura scura in cui riconobbe con raccapriccio il misterioso cane di due mesi addietro. L’aspetto dell’animale era assai mutato rispetto alla prima apparizione: al posto del cane all’apparenza normale e addirittura mansueto di allora, c’era adesso una belva furiosa che gli si avventò contro con un impeto terrificante. Quell’essere immondo con il pelo irto e arruffato, gli occhi infuocati, la bocca bavosa, la coda ripiegata tra le zampe posteriori lo incalzava sempre più da vicino, col preciso intento di azzannarlo, digrignando i denti e latrando furiosamente. Ma quello che più spaventava il Rossàl erano i versi disarticolati, i suoni gutturali quasi umani, abbozzi di parole smozzicate che l’animale emetteva assieme ai latrati, quasi a voler esprimere chissà quale sorta di infernale minaccia. A furia di indietreggiare, l’uomo era arrivato sul ciglio di un burrone che si apriva sotto il sentiero. Il pesante fardello che gli gravava le spalle lo rendeva impacciato nei movimenti e gli impediva di organizzare un’efficace difesa contro la furia dell’assalitore che invece sembrava acquistare nuovo impeto via via che l’assalito dava segni di cedimento. Impossibile lasciar cadere il camoscio per terra e imbracciare il fucile: sarebbe significato sguarnire per un attimo la difesa e lasciarsi sopraffare. Ormai il Rossàl era allo stremo delle forze, aveva raggiunto l’orlo del precipizio e la vista gli si stava annebbiando per la fatica. Ancora un attimo e sarebbe stato sbranato da quella furia scatenata o sarebbe precipitato nel vuoto. Senza più speranza, in un estremo tentativo di difesa, mentre il cane stava ormai per agguantarlo, raccolse tutte le sue forze e lasciò partire un poderoso calcio, riuscendo a colpire in pieno l’animale che reagì, emettendo lamentosi guaiti e compiendo una serie di folli piroette su se stesso che smossero il terreno in forma di cerchio.

Ma nello sferrare il calcio il Rossàl aveva perso l’equilibrio e così precipitò nel burrone. Nello stesso tempo la strada franò dietro di lui ed egli venne trascinato in basso in un’accozzaglia di terriccio, sassi, alberi sradicati che lo travolsero sommergendolo sotto il loro peso. Si riebbe dopo qualche tempo. Era ferito in varie parti del corpo, sanguinava abbondantemente ed era tutto indolenzito, ma il camoscio che egli non aveva mai lasciato, era caduto con lui riparandolo in parte dai detriti più pesanti. Malgrado le ferite e lo spavento per il terribile incontro di poco prima, il Rossàl cercò di mettersi in piedi e di ritornare sul sentiero, ma si sentiva troppo debole per il sangue versato e la fatica lo opprimeva, così, dopo un ultimo inutile sforzo, dovette desistere e non poté fare altro che iniziare a gridare, chiedendo aiuto. Lo trovarono il giorno dopo alcuni cacciatori di Santa Brigida, richiamati dai suoi ormai flebili lamenti. Non senza difficoltà, lo riportarono sul sentiero, poi lo adagiarono su una barella di rami intrecciati e presero la via del ritorno. Ma il Rossàl non rivide più il suo paese. Spirò lungo la strada, non prima però di essere riuscito a raccontare ai soccorritori, tra lacrime e lamenti, la sua tremenda avventura, assicurando che quel dannato cane altri non era se non il Diavolo in persona che era venuto a prenderlo.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Come sempre accadeva, anche quella domenica di fine luglio aveva preferito prendere la via dei boschi anziché stare tra i suoi compaesani a rispettare il sacrosanto riposo settimanale. E sì che quello era il giorno più atteso dell’anno, il giorno in cui si festeggiava la patrona del paese, Santa Brigida, nella chiesa più antica della Valle Averara. Era una festa assai solenne, a cui prendeva parte tutta la popolazione della vallata, richiamata lassù non solo per le cerimonie religiose, la processione al suono della banda, il solenne rituale dell’offerta dei doni alla chiesa, ma anche per la sagra popolare che ne seguiva e che teneva tutti svegli e allegri fino a tarda ora. Al Rossàl, così si chiamava per via del colore fulvo di barba e capelli, il protagonista di questa storia che si racconta ancora oggi a Santa Brigida e negli altri paesi della Valle Averara, tutto questo non interessava affatto. Per lui quello era un giorno come un altro, per nulla diverso dal resto della settimana e dell’anno. Un giorno da trascorrere nelle solite occupazioni: accudire le quattro bestie nella stalla e nel piccolo pollaio, prepararsi i pasti, aggiustare qualche attrezzo o riparare qualche struttura della sua misera casa e, a seconda della stagione, tagliare il fieno nei prati, spargere il letame o andar per boschi a fare legna per sé e strame per il letto dei suoi animali.

L’unico svago che si concedeva, e a cui non avrebbe rinunciato per niente al mondo, era la caccia, praticata in ogni periodo dell’anno, fosse o no permessa, col fucile, con le reti, gli archetti e altri marchingegni che piazzava con infallibile competenza nei luoghi più adatti per catturare uccelli, lepri e ogni altra specie di selvaggina che costituivano la base quasi esclusiva della sua alimentazione, eccezion fatta di quant’altro gli metteva a disposizione la natura nelle diverse stagioni e cioè, rane, lumache, funghi, castagne e noci, senza trascurare, ben inteso, la quotidiana polenta, il latte delle sue mucche e le uova delle sue galline. Il Rossàl abitava in una stamberga circondata da un piccolo prato e da un fitto bosco, poco distante da Carale, una contrada di Santa Brigida. Faceva una vita da eremita e non permetteva ad alcuno di avvicinarsi alla sua casa, rivolgendosi minaccioso a chiunque passasse da quelle parti, agitando per aria l’attrezzo che si trovava in quel momento per le mani e accompagnando il gesto con urlacci convulsi e incomprensibili.

Quella mattina, dunque, il Rossàl stava girovagando già da un po’ di tempo nel bosco, incurante della giornata festiva, ma per quanto prestasse attenzione a ogni minimo fruscio, non era ancora riuscito a catturare il più piccolo uccellino. Strada facendo si era premurato di controllare le sue trappole, piazzate con cura nei posti più adatti per sorprendere le prede, ma anche quelle erano tutte desolatamente vuote. Assai contrariato e in preda a un fastidioso nervosismo per l’insuccesso della battuta, correva qua e là per il bosco, brontolando a mezza voce e imprecando contro la cattiva sorte. Così intento nel suo inutile e lamentoso girovagare, non si accorse di una strana presenza che si era materializzata da qualche tempo: un cane nero, di razza incerta, che lo stava seguendo in silenzio. Quando se ne avvide, si stupì di tale imprevisto compagno e si domandò da dove fosse saltato fuori e che cosa ci facesse così attaccato alle sue calcagna.

Poi cercò di scacciarlo con male parole, ma il cane non accolse l’invito, anzi, gli si fece ancora più vicino, quasi a dimostrargli di averlo eletto a suo padrone. Gli stava un po’ davanti e un po’ dietro, scodinzolava, annusava per terra, rimaneva qualche attimo in ascolto con le orecchie tese, fiutando l’aria, proprio come fanno tutti i cani in queste situazioni. Ma il Rossàl non gradiva la sua presenza e provò di nuovo, a più riprese, a scacciarlo, lanciandogli anche un sasso. Niente da fare! Allora, per toglierlo di mezzo, o forse solo per spaventarlo, gli puntò contro il fucile, facendo l’atto di sparare: “Adès ta spare, perché so stöf che te me ègnet dré”. Il cane si bloccò di colpo, drizzò le orecchie, arruffò il pelo, ringhiò cupamente, poi aprì la bocca e parlò: “Arda Rossàl, no sta’ a tirà!”. Il Rossàl rimase a bocca aperta per la sorpresa, poi, notando che il cane lo fissava con un ghigno inquietante, fu sopraffatto dallo spavento e invece di sparare se la diede a gambe e corse senza fermarsi fino a Santa Brigida. Arrivò in paese che era quasi mezzogiorno e la gente era ancora riunita in chiesa per la messa grande. Trovò un’osteria aperta e vi entrò per bere qualcosa di forte che lo sollevasse dallo spavento. C’era solo l’oste che si meravigliò assai dell’insolita visita di quel tipo solitamente così restio a farsi vedere e notò subito i segni della paura sul suo volto angosciato. Il Rossàl ordinò un quarto di vino e lo scolò d’un fiato, poi rinfrancato alquanto raccontò la brutta avventura all’oste, il quale ovviamente non credette una sola parola dello strano racconto, immaginando che l’avventore fosse rimasto vittima di qualche scherzo di cattivo gusto o che si fosse immaginato tutto, sotto gli effetti di una cattiva bevuta. Tuttavia cercò di rincuorarlo dicendogli che forse la strana visione era dovuta alla stanchezza o alla fame.

Ma nel giro di poche ore tutto il paese era al corrente dell’insolita avventura del Rossàl, che divenne ancora di più la vittima dei lazzi di grandi e piccoli. Passarono i giorni e anche il Rossàl si convinse che forse la storia del cane nero era stata solo frutto della sua fantasia, così non ci pensò più. Ben presto tornò alle sue solite abitudini e riprese ad andare a caccia tutti i giorni, compresi quelli festivi. Un paio di mesi dopo quell’oscuro episodio, verso la fine di settembre, eccolo dunque di nuovo col fucile in spalla salire su per la montagna a caccia di camosci. Era una domenica mattina e nemmeno quella era una domenica qualsiasi, bensì il giorno della festa dell’Addolorata, altra ricorrenza speciale, dopo quella della patrona, per la comunità parrocchiale di Santa Brigida. Il Rossàl, invece, proprio come era suo solito, aveva preferito scappare dal paese in festa, disdegnando le sacre cerimonie e la conseguente sagra paesana, per andare a solitaria caccia su per il Piàcc. E questa volta la caccia fu premiata con una preda superba: un grosso camoscio abbattuto con un solo colpo da considerevole distanza, cosa che lo riempì di orgoglio e gli fece tornare il gusto per la vita a contatto diretto con la natura selvaggia.

Caricatosi l’animale in spalla, l’empio cacciatore prese la via di casa, superando non senza difficoltà, curvo sotto il pesante fardello, le costanti insidie di impervi sentieri e di intricati ammassi cespugliosi. Era ormai arrivato in vista di Santa Brigida, precisamente nel luogo chiamato il Sàcc, quando udì un forte e persistente fruscio proveniente dal fitto della boscaglia. Si fermò e si mise in ascolto. Il fruscio si fece più intenso e continuo, come se tra le piante ci fosse un animale impazzito. Stava per deporre il camoscio e imbracciare il fucile per andare a verificare l’origine di questo affannoso andirivieni, quando dal cespuglio sbucò una figura scura in cui riconobbe con raccapriccio il misterioso cane di due mesi addietro. L’aspetto dell’animale era assai mutato rispetto alla prima apparizione: al posto del cane all’apparenza normale e addirittura mansueto di allora, c’era adesso una belva furiosa che gli si avventò contro con un impeto terrificante. Quell’essere immondo con il pelo irto e arruffato, gli occhi infuocati, la bocca bavosa, la coda ripiegata tra le zampe posteriori lo incalzava sempre più da vicino, col preciso intento di azzannarlo, digrignando i denti e latrando furiosamente. Ma quello che più spaventava il Rossàl erano i versi disarticolati, i suoni gutturali quasi umani, abbozzi di parole smozzicate che l’animale emetteva assieme ai latrati, quasi a voler esprimere chissà quale sorta di infernale minaccia. A furia di indietreggiare, l’uomo era arrivato sul ciglio di un burrone che si apriva sotto il sentiero. Il pesante fardello che gli gravava le spalle lo rendeva impacciato nei movimenti e gli impediva di organizzare un’efficace difesa contro la furia dell’assalitore che invece sembrava acquistare nuovo impeto via via che l’assalito dava segni di cedimento. Impossibile lasciar cadere il camoscio per terra e imbracciare il fucile: sarebbe significato sguarnire per un attimo la difesa e lasciarsi sopraffare. Ormai il Rossàl era allo stremo delle forze, aveva raggiunto l’orlo del precipizio e la vista gli si stava annebbiando per la fatica. Ancora un attimo e sarebbe stato sbranato da quella furia scatenata o sarebbe precipitato nel vuoto. Senza più speranza, in un estremo tentativo di difesa, mentre il cane stava ormai per agguantarlo, raccolse tutte le sue forze e lasciò partire un poderoso calcio, riuscendo a colpire in pieno l’animale che reagì, emettendo lamentosi guaiti e compiendo una serie di folli piroette su se stesso che smossero il terreno in forma di cerchio.

Ma nello sferrare il calcio il Rossàl aveva perso l’equilibrio e così precipitò nel burrone. Nello stesso tempo la strada franò dietro di lui ed egli venne trascinato in basso in un’accozzaglia di terriccio, sassi, alberi sradicati che lo travolsero sommergendolo sotto il loro peso. Si riebbe dopo qualche tempo. Era ferito in varie parti del corpo, sanguinava abbondantemente ed era tutto indolenzito, ma il camoscio che egli non aveva mai lasciato, era caduto con lui riparandolo in parte dai detriti più pesanti. Malgrado le ferite e lo spavento per il terribile incontro di poco prima, il Rossàl cercò di mettersi in piedi e di ritornare sul sentiero, ma si sentiva troppo debole per il sangue versato e la fatica lo opprimeva, così, dopo un ultimo inutile sforzo, dovette desistere e non poté fare altro che iniziare a gridare, chiedendo aiuto. Lo trovarono il giorno dopo alcuni cacciatori di Santa Brigida, richiamati dai suoi ormai flebili lamenti. Non senza difficoltà, lo riportarono sul sentiero, poi lo adagiarono su una barella di rami intrecciati e presero la via del ritorno. Ma il Rossàl non rivide più il suo paese. Spirò lungo la strada, non prima però di essere riuscito a raccontare ai soccorritori, tra lacrime e lamenti, la sua tremenda avventura, assicurando che quel dannato cane altri non era se non il Diavolo in persona che era venuto a prenderlo.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Nelle notti scure di temporale oppure nelle notti calde soffocanti in cui non si riesce a respirare si faceva sentire di Valle in Valle la cassa da Morto del Diavolo. Per sentirla la sentivan tutti, ma quanto a vederla erano pochi a vederla; e quei pochi che l’avevan vista erano divenuti bianchi di capelli per la paura; poi perdevano i denti e dopo un po’ di tempo morivano. Questa cassa era trasportata e accompagnata da molti cani, piccoli e grossi e mal formati; avevano gli occhi rossi come carboni accesi e lingue infuocate; in oltre mandavano dei versi, guaivano e abbaiavano in modo da incutere paura e spavento. Dove la Cassa da Morto del Diavolo passava, bruciava tutto e nei prati e nei campi non restava più niente. Stancatosi di veder morire la brava gente, il Vescovo aveva pensato di mandare nelle Valli uno di quei preti ritenuti santi che di solito, con la sola benedizione, sono capaci di guarire malati e indemoniati. Il prete si era appostato in cima ad un pendio di dove di sovente si era visto passare la Cassa da Morto del Diavolo. Passavano le notti e la Cassa né si faceva vedere né si faceva sentire: e la gente maligna commentava che questa volta, neppure l’acqua santa avrebbe potuto vincere il Diavolo.

Ma una notte di temporale, notte piena di tuoni e di lampi (non esisteva in tutta la Valle Brembana un piccolo lume) la Cassa da Morto del Diavolo, portata come al solito dai cani più brutti e cattivi appare in cima al pendio proprio dove era salito il prete. Sembrò a tutti che in quel momento fosse venuta la fine del mondo perché il cielo e la terra sconvolti, sembravano confondersi l’uno nell’altro. Quando il prete sbiancato dallo spavento, alzo il braccio nel gesto di benedire, la terra si spalancò davanti ai suoi piedi e proprio al momento giusto per inghiottire la Cassa da Morto del Diavolo, nella voragine. Dopo quella notte nessuno nella Valle Brembana ha mai più sentito o visto la Cassa da Morto del Diavolo; soltanto in certe notti buie e temporalesche, oppure in altre notti soffocanti, nelle contrade e i suoi monti i vecchi recitano il rosario, chiudono la porta a chiave e i bambini cacciano la testa sotto le coperte, per paura che torni il sibilo della Cassa da Morto del Diavolo.