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Categoria: Leggende

Picchiatori puniti

In varie località si raccontava la vicenda di quella donna (ma da qualche parte il protagonista era un uomo), che da giovane aveva osato dare uno schiaffo o un calcio alla madre (o al padre). Questo atto scellerato aveva pesato sulla coscienza della colpevole per tutta la vita e aveva avuto conseguenze anche dopo la morte. Giunta alla fine dei suoi giorni, infatti, la donna che aveva picchiato sua madre era stata sepolta nel camposanto, ma non aveva trovato pace. Qualche giorno dopo la sepoltura, i visitatori del cimitero avevano notato che sopra la tomba della donna c’era della terra smossa e dalla stessa fuoriusciva un braccio con la mano aperta rivolta verso il cielo. Con grande spavento di tutti, erano stati chiamati i necrofori che avevano provveduto a rimettere tutto al loro posto. Ma invano, dopo alcuni giorni la mano colpevole era riapparsa con le sue dita secche e orrendamente rivolte all’insù a ghermire l’aria. Per poter rimettere le cosa a posto era dovuto intervenire il parroco che, ottenutane licenza dal vescovo, aveva impartito a quella defunta senza pace una speciale benedizione che le aveva finalmente garantito il riposo eterno. Stessa sorte era toccata a un giovane di Calusco che era annegato nell’Adda e poi era stato sepolto nel cimitero del paese. Nei giorni seguenti, con grande spavento di tutti, era stato trovato con la gamba destra che sporgeva fuori della tomba, e anche in questo caso non ci fu verso di farla stare al suo posto, tanto che finì con l’essere lasciata lì e fu in seguito divorata dai cani. Anche in questo caso si apprese che il giovane aveva gravemente mancato di rispetto al padre, colpendolo con una pedata. Non meno spaventosa la sorte di una donna di Valcanale che aveva osato sfidare il sonno eterno dei defunti. Si racconta che durante una delle solite serate passate a far veglia in una stalla, intente a filare la lana e a rammendare vecchie calze consumate dall’uso quotidiano, alcune donne di Valcanale portarono i loro discorsi sulla paura dei morti e sul coraggio. Si sosteneva che nessuna delle presenti avrebbe osato recarsi da sola, nottetempo, nel cimitero di quel paesino, dove si diceva che ogni tanto accadevano degli strani fenomeni. Ma una di queste donne, che si riteneva coraggiosa e non credeva nelle fandonie circolanti in paese, dichiarò che non avrebbe avuto alcun problema a recarsi nel cimitero, proprio quella sera stessa, allo scoccare della mezzanotte, e per provare che c’era stata veramente avrebbe conficcato il fuso su una tomba. Le altre, invece di dissuaderla, la incitarono a compiere l’impresa e così, allo scoccare della mezzanotte, la coraggiosa si diresse verso il cimitero. Quello che accadde poi può solo essere ipotizzato, perché nessuno assistette alla tremenda scena. La donna, aperto il cancello del cimitero, si aggirò un momento tra le tombe, poi raggiunse quella di un uomo che, da vivo, le aveva mancato più volte di rispetto e conficcò con rabbia il fuso nella terra che la ricopriva. Ma, mentre si voltava per andarsene, sentì una mano che le ghermiva la gonna e la tirava con una forza irresistibile dentro la tomba. Lo spavento fu tale che la poveretta cadde a terra morta.

La mattina seguente le altre donne, non avendola vista tornare, si recarono al cimitero e scoprirono una scena raccapricciante: la loro compagna era stesa sopra la tomba con la faccia digrignata in una smorfia atroce e le braccia rivolte verso l’uscita, come se volesse scappare. La sua gonna, strappata, era stata tirata quasi del tutto dentro la terra, come se il morto avesse voluto trascinare la donna con sé dentro la bara. Assai paurosa fu anche l’avventura vissuta parecchi anni fa dalla comunità di Luzzana. Una sera alcune donne, intente a recitare il rosario all’ingresso del cimitero, furono scosse da una sonora risata proveniente dall’interno. Dopo l’iniziale comprensibile sbigottimento, si fecero coraggio ed entrarono nel cimitero, così poterono scorgere, appollaiato sopra una pietra tombale, il fantasma di un loro compaesano, detto il Moèta, un libertino impenitente, morto alcuni giorni addietro, dopo aver rifiutato i conforti religiosi. Fu subito avvisato il parroco, il quale si precipitò nel cimitero e riuscì a parlare col Moèta, venendo così a sapere che il morto non poteva sopportare di stare sepolto in quel luogo, a causa del suono delle campane che gli procuravano ogni volta atroci sofferenze. Egli chiedeva solo una cosa: essere trasportato lontano dal paese e sepolto in una valle dove non arrivasse il suono delle campane. Il parroco, consultatosi con il sindaco, decise di accogliere la richiesta del Moèta e, aiutato da due necrofori, si recò la notte seguente nel cimitero, portando un capiente sacco. Il fantasma del Moèta stava ancora lì, sopra la sua tomba, in attesa del loro arrivo e non fu difficile convincerlo ad entrare nel sacco. Il difficile venne dopo, durante il tragitto verso la valle. Il sacco, portato a turno dai due necrofori, diventava infatti sempre più pesante e la strada era lunga e impervia, per cui pareva quasi impossibile portare a termine l’impresa. Poi il sacco cominciò anche a scottare e così i due poveri becchini dovettero più volte passarsi quell’orribile fardello, costretti a fermarsi ogni pochi metri, sudati e ansimanti, per tirate un po’ il fiato. Finalmente, quando ormai il sacco era diventato pesantissimo e quasi incandescente, la strana comitiva raggiunse la valle solitaria dove non arrivava il suono delle campane. Qui il sacco contenente l’anima dannata del Moèta fu fatto precipitare in un profondo burrone, dal quale poco dopo giunsero urla selvagge e sinistri bagliori. Poi tutto tornò tranquillo. Da allora il Moèta non si è fatto più sentire e quella valle adesso porta il suo nome.

A proposito di picchiatori, si racconta anche di quel parrocchiano che durante un diverbio col parroco gli aveva affibbiato un potente calcione. Il sacerdote messo fuori combattimento da quel colpo inatteso, si era rivolto al suo picchiatore e gli aveva intimato: “Vattene dal paese e non farti più vedere a meno che non ti penta del tuo gesto e torni a chiedere perdono. Intanto porterai con te il ricordo di questa sacrilega aggressione!”. L’altro se ne era dovuto andare, anche perché i suoi compaesani non lo accettavano più dopo quello che aveva fatto. Ma dopo qualche giorno cominciò a sentire i primi effetti della profezia del suo parroco: la gamba che aveva sferrato il calcio cominciò a dolergli di un dolore sordo e persistente che non lo lasciava un attimo. Il male andò via via aumentando fino a diventare insopportabile e finalmente l’uomo comprese che questo era il castigo che gli toccava per aver mancato di rispetto al parroco. Allora decise di tornare al suo paese per chiedere perdono, ma arrivato, apprese che il parroco era morto da qualche giorno, di crepacuore, non avendo potuto superare l’umiliazione della percossa subita. Così il colpevole non poté chiedere perdono e non ottenne di guarire dal suo male alla gamba, che peggiorò ancora di più fino a farlo morire tra atroci sofferenze.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

In varie località si raccontava la vicenda di quella donna (ma da qualche parte il protagonista era un uomo), che da giovane aveva osato dare uno schiaffo o un calcio alla madre (o al padre). Questo atto scellerato aveva pesato sulla coscienza della colpevole per tutta la vita e aveva avuto conseguenze anche dopo la morte. Giunta alla fine dei suoi giorni, infatti, la donna che aveva picchiato sua madre era stata sepolta nel camposanto, ma non aveva trovato pace. Qualche giorno dopo la sepoltura, i visitatori del cimitero avevano notato che sopra la tomba della donna c’era della terra smossa e dalla stessa fuoriusciva un braccio con la mano aperta rivolta verso il cielo. Con grande spavento di tutti, erano stati chiamati i necrofori che avevano provveduto a rimettere tutto al loro posto. Ma invano, dopo alcuni giorni la mano colpevole era riapparsa con le sue dita secche e orrendamente rivolte all’insù a ghermire l’aria. Per poter rimettere le cosa a posto era dovuto intervenire il parroco che, ottenutane licenza dal vescovo, aveva impartito a quella defunta senza pace una speciale benedizione che le aveva finalmente garantito il riposo eterno. Stessa sorte era toccata a un giovane di Calusco che era annegato nell’Adda e poi era stato sepolto nel cimitero del paese. Nei giorni seguenti, con grande spavento di tutti, era stato trovato con la gamba destra che sporgeva fuori della tomba, e anche in questo caso non ci fu verso di farla stare al suo posto, tanto che finì con l’essere lasciata lì e fu in seguito divorata dai cani. Anche in questo caso si apprese che il giovane aveva gravemente mancato di rispetto al padre, colpendolo con una pedata. Non meno spaventosa la sorte di una donna di Valcanale che aveva osato sfidare il sonno eterno dei defunti. Si racconta che durante una delle solite serate passate a far veglia in una stalla, intente a filare la lana e a rammendare vecchie calze consumate dall’uso quotidiano, alcune donne di Valcanale portarono i loro discorsi sulla paura dei morti e sul coraggio. Si sosteneva che nessuna delle presenti avrebbe osato recarsi da sola, nottetempo, nel cimitero di quel paesino, dove si diceva che ogni tanto accadevano degli strani fenomeni. Ma una di queste donne, che si riteneva coraggiosa e non credeva nelle fandonie circolanti in paese, dichiarò che non avrebbe avuto alcun problema a recarsi nel cimitero, proprio quella sera stessa, allo scoccare della mezzanotte, e per provare che c’era stata veramente avrebbe conficcato il fuso su una tomba. Le altre, invece di dissuaderla, la incitarono a compiere l’impresa e così, allo scoccare della mezzanotte, la coraggiosa si diresse verso il cimitero. Quello che accadde poi può solo essere ipotizzato, perché nessuno assistette alla tremenda scena. La donna, aperto il cancello del cimitero, si aggirò un momento tra le tombe, poi raggiunse quella di un uomo che, da vivo, le aveva mancato più volte di rispetto e conficcò con rabbia il fuso nella terra che la ricopriva. Ma, mentre si voltava per andarsene, sentì una mano che le ghermiva la gonna e la tirava con una forza irresistibile dentro la tomba. Lo spavento fu tale che la poveretta cadde a terra morta.

La mattina seguente le altre donne, non avendola vista tornare, si recarono al cimitero e scoprirono una scena raccapricciante: la loro compagna era stesa sopra la tomba con la faccia digrignata in una smorfia atroce e le braccia rivolte verso l’uscita, come se volesse scappare. La sua gonna, strappata, era stata tirata quasi del tutto dentro la terra, come se il morto avesse voluto trascinare la donna con sé dentro la bara. Assai paurosa fu anche l’avventura vissuta parecchi anni fa dalla comunità di Luzzana. Una sera alcune donne, intente a recitare il rosario all’ingresso del cimitero, furono scosse da una sonora risata proveniente dall’interno. Dopo l’iniziale comprensibile sbigottimento, si fecero coraggio ed entrarono nel cimitero, così poterono scorgere, appollaiato sopra una pietra tombale, il fantasma di un loro compaesano, detto il Moèta, un libertino impenitente, morto alcuni giorni addietro, dopo aver rifiutato i conforti religiosi. Fu subito avvisato il parroco, il quale si precipitò nel cimitero e riuscì a parlare col Moèta, venendo così a sapere che il morto non poteva sopportare di stare sepolto in quel luogo, a causa del suono delle campane che gli procuravano ogni volta atroci sofferenze. Egli chiedeva solo una cosa: essere trasportato lontano dal paese e sepolto in una valle dove non arrivasse il suono delle campane. Il parroco, consultatosi con il sindaco, decise di accogliere la richiesta del Moèta e, aiutato da due necrofori, si recò la notte seguente nel cimitero, portando un capiente sacco. Il fantasma del Moèta stava ancora lì, sopra la sua tomba, in attesa del loro arrivo e non fu difficile convincerlo ad entrare nel sacco. Il difficile venne dopo, durante il tragitto verso la valle. Il sacco, portato a turno dai due necrofori, diventava infatti sempre più pesante e la strada era lunga e impervia, per cui pareva quasi impossibile portare a termine l’impresa. Poi il sacco cominciò anche a scottare e così i due poveri becchini dovettero più volte passarsi quell’orribile fardello, costretti a fermarsi ogni pochi metri, sudati e ansimanti, per tirate un po’ il fiato. Finalmente, quando ormai il sacco era diventato pesantissimo e quasi incandescente, la strana comitiva raggiunse la valle solitaria dove non arrivava il suono delle campane. Qui il sacco contenente l’anima dannata del Moèta fu fatto precipitare in un profondo burrone, dal quale poco dopo giunsero urla selvagge e sinistri bagliori. Poi tutto tornò tranquillo. Da allora il Moèta non si è fatto più sentire e quella valle adesso porta il suo nome.

A proposito di picchiatori, si racconta anche di quel parrocchiano che durante un diverbio col parroco gli aveva affibbiato un potente calcione. Il sacerdote messo fuori combattimento da quel colpo inatteso, si era rivolto al suo picchiatore e gli aveva intimato: “Vattene dal paese e non farti più vedere a meno che non ti penta del tuo gesto e torni a chiedere perdono. Intanto porterai con te il ricordo di questa sacrilega aggressione!”. L’altro se ne era dovuto andare, anche perché i suoi compaesani non lo accettavano più dopo quello che aveva fatto. Ma dopo qualche giorno cominciò a sentire i primi effetti della profezia del suo parroco: la gamba che aveva sferrato il calcio cominciò a dolergli di un dolore sordo e persistente che non lo lasciava un attimo. Il male andò via via aumentando fino a diventare insopportabile e finalmente l’uomo comprese che questo era il castigo che gli toccava per aver mancato di rispetto al parroco. Allora decise di tornare al suo paese per chiedere perdono, ma arrivato, apprese che il parroco era morto da qualche giorno, di crepacuore, non avendo potuto superare l’umiliazione della percossa subita. Così il colpevole non poté chiedere perdono e non ottenne di guarire dal suo male alla gamba, che peggiorò ancora di più fino a farlo morire tra atroci sofferenze.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La donna del gioco è un personaggio che ha popolato la fantasia di intere generazioni di bergamaschi, imperversando un po’ dappertutto con i suoi scherzi impertinenti e i giochetti astuti con i quali si divertiva alle spalle dei malcapitati che avevano la sventura di incontrarla. I comportamenti e le azioni attribuite a questa fantasiosa creatura variano a seconda delle zone, ma alcuni aspetti del carattere e del portamento sono comuni a tutte le tradizioni che la riguardano. In genere, viene rappresentata come una figura alta e allampanata, quasi diafana, con i capelli costantemente arruffati, vestita di lunghe gonne nere e con uno scialle a larghe frange buttato alla meglio sulle spalle. Talvolta era accompagnata da una quarantina di cani bianchi o da sette gatti, ciascuno con appeso al collo un piccolo sonaglio. Poco avvezza ad agire alla luce del sole, si scatenava al primo apparire del crepuscolo e diventava la regina incontrastata della notte. Allora la sua vita si trasformava in un frenetico girovagare sopra i monti e le vallate più impervie, che risaliva con una agilità e una leggerezza da lasciare stupiti. E poi, dall’alto delle vette si allungava prodigiosamente fino al cielo, tentando di giocare con le stelle e di fare l’altalena con la falce della luna calante.

Era un continuo vagabondare in preda a un’indicibile inquietudine, mitigata da rare pause di moderato entusiasmo che esprimeva a modo suo, con sommessi gridolini e stridule risate. Si trasformava continuamente e si dilatava a dismisura, crescendo fino a perdersi nell’atmosfera. Non era facile osservarla, ma ai più mattinieri capitava a volte di notarla, quando le ombre della notte cedevano il passo alla tenue luce dell’aurora, mentre si apprestava a ritirarsi per riposare in attesa che il giorno ultimasse il suo turno. Quanto poi a rivolgerle la parola, nessuno se n’era mai azzardato, perché al temerario che avesse osato farlo sarebbe arrivato in testa un mastello di acqua gelida.

Questo fino a quando un nottambulo di Zorzone di Oltre il Colle, uscito dall’osteria sul far dell’alba, in preda a una solenne sbronza, si sentì rivolgere questa domanda a bruciapelo: “Per chi éla la nòcc?”. Erano parole uscite dalla bocca della dòna del zöch, le prime che un essere umano avesse avuto la ventura di ascoltare. L’ubriaco, reso ardimentoso dall’alcool, ebbe la prontezza di spirito di rispondere: “Per me, per te, per chi che i va miga ‘n tùren del dé!”. Quella risposta fu la sua salvezza, la misteriosa creatura se ne volò via sghignazzando, lasciando di stucco l’inebetito interlocutore che aveva corso il rischio di essere spinto e sbatacchiato per terra dopo aver ricevuto una buona dose di sonanti ceffoni e una valanga di improperi.

Ma sorte peggiore toccò a un tale di Serina, pure lui alquanto alticcio, che la incontrò nel bel mezzo di un ponticello alle prime luci del giorno: ritemprata dall’aura della notte, la donna del gioco era bellissima, tutta sfavillante in un vestito di pizzo e di veli finissimi e trasparenti che le dava un non so che di malizioso e seducente. Questa figura, così allettante e all’apparenza disponibile, fece inebriare ancor di più il buonuomo che pensò subito di correre ad abbracciarla per assaporarne il dolce tepore, ma appena si fu avvicinato, la strana creatura cominciò a crescere vertiginosamente, allungando le gambe, su su fino al cielo, diventando al contempo come l’aria, diafana e impalpabile.

Il malcapitato, che si era slanciato verso di lei a braccia tese, non poté fare altro che passarle sotto le gambe divaricate, in preda a un indicibile spavento, e poi scappar via, mentre la regina della notte se la rideva agitando a mo’ di mulinello un paiolo pieno di monete d’oro e lasciandone cadere ogni tanto una manciata sopra l’ignaro fuggitivo come fossero una preziosa grandinata. La dòna del zöch era dunque assai dispettosa, come ben sapevano le lavandaie che, quando si recavano alla fontana per fare il bucato, rischiavano di essere prese di mira dai suoi scherzi impertinenti. La si poteva incontrare infatti presso la fontana pubblica o in riva al torrente, in tutti quei posti dove le donne, affaccendate attorno ai mastelli pieni d’acqua, lavavano i loro modesti panni con le mani e con la lingua.

Non era raro che, mentre erano intente a tali operazioni, venissero improvvisamente investite da grandi spruzzi d’acqua e bagnate da capo a piedi, mentre l’aria risuonava di striduli risolini di soddisfazione. Capitava che qualche donna durante la notte lasciasse il suo mastello fuori dalla casa con il bucato in ammollo nella lisciva. Era un invito a nozze per la dòna del zöch: a ora tarda tutta la famiglia veniva svegliata da strani rumori, allora, con precauzione e con un certo timore, i mariti si affacciavano alla finestra, non di rado imbracciando un fucile. Ebbene, la dòna del zöch era lì, dentro il mastello, che lavava i suoi panni, sguazzando nell’acqua, felice come una bambina alle prese con il suo primo bucato. Guai ad importunarla! Avrebbe reagito come successe una volta a Zorzone, che distolta dalla sua occupazione, prese a calci il mastello con tale veemenza da farlo volare giù fino in fondo all’orrido della Val Parina.

A proposito di bucato, una donna di Oltre il Colle che doveva recarsi nottetempo a Serina, nell’attraversare un torrente, scorse una figura scura china sull’acqua, intenta a lavare la sua gonna nera. Mentre era incerta se proseguire la sua strada o chiedere a quella persona il perché della sua insolita presenza in quel luogo, si sentì rivolgere la solita domanda: “Per chi éla la nòcc?”. La donna, benchè spaventata, riuscì a risponderle: “Per me, per te, per chi che i va miga ‘n tùren del dé!”. Tanto bastò per placare la misteriosa creatura che si allontanò brontolando: “Fortüna che ta m’ l’è cüntàda giösta, perché se no, poarèta te!”.

Gli uomini la temevano e quando dovevano andare in giro la notte, fossero soli o in gruppo, non mancavano di recitare una preghiera per le anime del Purgatorio, però va detto che in cuor loro avevano un certo desiderio di incontrare quella donna così insolita e diversa dalle loro compagne, semplici e senza grilli per la testa. Una donna stramba ma che, diciamolo pure, a parte qualche burla pazzerella non aveva mai fatto del male a nessuno, anzi, forse quella sua impertinenza era frutto del desiderio inappagato di sfuggire alla solitudine alla quale era stata condannata senza speranza chissà da quanto tempo. Peccato che il frastuono della vita moderna ci abbia adesso tolto il gusto un po’ elettrizzante di incontrare quella creatura, così bella, così misteriosa.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Briganti e brigantesse

Storie di briganti, più o meno famose e romanzesche, sono assai diffuse in tutta la Bergamasca, al punto che la loro narrazione potrebbe occupare un intero libro. In questa sede ci limitiamo a presentare solo alcuni esempi significativi, riferendo anche i casi documentati di due brigantesse che dimostrarono di non essere da meno dei loro più noti compari maschi. A metà dell’Ottocento imperversò in Val Taleggio il brigante Angelo Pessina, detto Tarfù. dal nome dialettale di una grossa larva che si annida nei tronchi degli alberi, di preferenza giovani noci, e si nutre della loro polpa, scavando lunghi cunicoli che arrecano danni gravi e talvolta irreparabili alla pianta. Essendo praticamente impossibile snidare il parassita senza danneggiare il legno, i contadini lo combattono introducendo nel cunicolo un tratto di miccia o uno stoppino imbevuto di liquido infiammabile a cui danno fuoco. Il Tarfù era arrivato in valle all’inizio del 1849, disertore dall’esercito austriaco, nelle cui fila aveva militato fino alla conclusione della guerra contro il Piemonte. L’esercito era in procinto di smobilitare e lui, come tanti altri, di fronte alla prospettiva di un lungo e ostile soggiorno in terra austriaca aveva preferito darsi alla macchia, cosa che del resto aveva già fatto, seppur per un breve periodo, tempo addietro. La Valle Taleggio parve al Pessina il luogo ideale per sfuggire alle ricerche delle forze dell’ordine: guai a farsi mettere le mani addosso dai gendarmi austriaci: essendo disertore recidivo, e per di più in stato di guerra, avrebbe rischiato la fucilazione.

All’inizio si era arrangiato alla meglio, in tutta solitudine, rubando nelle cascine lo stretto necessario per sopravvivere o dandosi alla cattura di uccelli, rane, lumache e quant’altro offrivano i boschi della valle. Ben presto, però, si accorse che ci poteva essere un altro e più redditizio mezzo per campare. Gli era capitato più volte di incontrare, nascosti nelle baite dell’Alben o del Baciamorti, degli sbandati o disertori suoi pari, gente che per un motivo o per l’altro aveva tutte le ragioni per stare alla larga dalla comunità civile, alcuni già dediti al brigantaggio organizzato, altri in procinto di aggregarsi in banda. Che cosa poteva rischiare il Pessina, diventando un brigante, oltre alla pena di morte già meritata con la diserzione? Tanto valeva vivere alla grande più a lungo che poteva, nella remota speranza che qualcosa potesse prima o poi cambiare. La prima rapina fu compiuta ai danni del parroco della Pianca, il quale fu aggredito nella sua canonica e derubato dei soldi e di altri oggetti di valore per l’importo di un migliaio di lire. Probabilmente il Tarfù ebbe in quella prima azione un ruolo subalterno, ma le sue doti di coraggio, l’abilità organizzativa e soprattutto la forte personalità lo portarono quasi subito alla guida del gruppo che verrà poi identificato col suo nome. Questa nuova leadership segnò un salto di qualità nelle successive imprese banditesche. Pochi giorni dopo l’aggressione al parroco della Pianca, la banda fu protagonista di un episodio clamoroso che ebbe per teatro il paese di Sottochiesa. Alla guida di una dozzina di briganti ben armati, il Tarfù penetrò nel municipio e sequestrò il sindaco Locatelli, chiedendo un riscatto di ben tredicimila lire.

Per tutta la giornata il paese rimase in balia dei malviventi che, per convincere la popolazione a consegnare il denaro, sottoposero il sequestrato a ripetuti maltrattamenti e minacce di morte. Alla fine le pretese dei sequestratori si ridussero a poco meno di duemila lire, che vennero effettivamente sborsate. Non senza che il Tarfù si prendesse un interesse supplementare, facendosi consegnare due marenghi d’oro dal vicesindaco, in cambio della garanzia che avrebbe usato la propria autorevole influenza sui compagni nel convincerli a ridimensionare le pretese. Ormai la banda era uscita allo scoperto: l’azione di Sottochiesa aveva rivelato l’identità dei suoi componenti e la polizia aveva spiccato mandati di cattura per ciascuno. Ma di tali mandati la banda Tarfù parve non tener minimamente conto, tanto è vero che mise a segno subito dopo un altro colpo. Calati su Cassiglio, in alta Valle Brembana, i malviventi assalirono l’abitazione di un commerciante e lo rapinarono di sedici talleri. Pochi giorni dopo fu la volta del santuario di Salzana, presso Pizzino, il cui cappellano fu fermato sul sagrato mentre era intento a leggere il breviario e costretto a consegnare i cinque franchi che aveva con sé. Dopo un periodo di oltre un anno, durante il quale dovettero cambiare aria per sfuggire alle attive ricerche dei gendarmi, il Tarfù e i suoi si rifecero vivi nell’agosto del 1850, a spese del parroco di Sottochiesa. Non che i preti, specie da quelle parti, fossero particolarmente ricchi, ma perché non erano pochi i parrocchiani che consegnavano al loro parroco i loro modesti gioielli di famiglia, ritenendo che nella canonica fossero al sicuro, senza contare poi le offerte che venivano fatte in chiesa.

Il parroco fece però in tempo a barricarsi in casa e i banditi non furono in grado di sfondare il robusto portone d’ingresso. Dopo aver cercato a lungo, ma inutilmente un’altra entrata, se ne dovettero andare, non prima però di aver fracassato a sassate alcuni vetri delle finestre. Poi la cattura, avvenuta verso l’autunno di quello stesso anno. La corte marziale lo dichiarò colpevole di duplice diserzione, oltre a rapine, furti e violenze e lo condannò a morte per impiccagione. La sentenza, confermata dal comando militare di Verona, venne eseguita a Bergamo il 28 gennaio 1851. Unica concessione del comando militare, la commutazione delle modalità di esecuzione: alla forca venne sostituita la fucilazione. Un tempo la mulattiera che da Zogno porta al Monte di Nese era assai praticata perché era uno dei percorsi più agevoli per raggiungere la Valle Seriana e Bergamo dalla Valle Brembana. Quanti si recavano da una valle all’altra per trasportare, a dorso di asino o mulo, i loro prodotti, erano soliti sostare in località Gromasnì, un piccolo spiazzo erboso vicino ad una fresca sorgente che sgorga ancora oggi abbondante. Non di rado quello spiazzo era luogo d’incontro e scambio di merci tra mercanti, una specie di mercato dove i prodotti portati dalla città venivano scambiati con quelli delle vallate. Nel 1848 quel luogo fu teatro di un sanguinosa rapina compiuta da una banda di briganti capeggiati da una donna. Vittima della rapina, conclusasi tragicamente, fu Giovan Battista Calvi, un contadino di Poscante il quale si era recato a Bergamo, attraverso la strada del Monte di Nese, per vendere una sua mucca. Passando per Valtesse, era stato notato dalla levatrice del paese, la stessa che faceva servizio anche a Poscante. Costei, appurato che il contadino sarebbe stato di ritorno in serata, senza la mucca, ma con un bel gruzzolo di almeno duecento lire, corse ad avvertire i briganti dell’imminente possibilità di fare un po’ di soldi senza troppe complicazioni. Fu così che levatrice e briganti si appostarono nei pressi della sorgente di Gromasnì, in attesa del ritorno del Calvi, il quale infatti a tarda sera aveva preso la strada di casa, assieme a un compaesano.

Giunto al luogo dell’agguato, il Calvi fu facilmente immobilizzato dai briganti, che erano mascherati e per di più protetti dal buio. Lasciato andare il compagno, si diedero a perquisire il Calvi per sottrargli il denaro, ma il malcapitato, nel tentativo di sottrarsi alla rapina, strappò la maschera alla levatrice e la riconobbe. Costei, allora, per non farsi denunciare, cavò di tasca un lungo coltello e glielo conficcò in un fianco, poi si diede alla fuga con il resto della compagnia, convinta di averlo ucciso. Nel frattempo il compagno di viaggio era giunto a Poscante ed aveva dato l’allarme. I parenti e gli amici del rapinato si precipitarono a prestargli soccorso, ma lo trovarono ormai dissanguato e in fin di vita. Prima di spirare il poveretto ebbe però il tempo di denunciare la colpevole, che pochi giorni dopo venne arrestata, condannata a morte ed impiccata sugli spalti della Fara a Bergamo. Fu l’ultima esecuzione della giustizia austriaca prima delle rivolte patriottiche del 1848. La storia di un’altra brigantessa è ambientata nella media Valle Seriana e precisamente ad Abbazia di Albino dove c’era un’osteria gestita da un’ostessa talmente bella e gentile da richiamare nel locale la migliore clientela della zona. L’ostessa si intratteneva volentieri a chiacchierare con gli avventori e sempre si dimostrava disponibile verso ogni loro esigenza, ma sotto l’apparenza così a modo si celava una ben diversa realtà: la donna era niente meno che a capo di una banda di briganti i quali imperversavano nella media valle e tenevano la base operativa in una caverna del monte Misma, dove nascondevano il bottino e si riunivano per progettare nuove aggressioni ai danni dei malcapitati viandanti che percorrevano le buie strade della zona.

L’ostessa, di notte, si travestiva da uomo e con i capelli che le coprivano le guance simulava una lunga barba biondiccia. Tuttavia non era proprio così malvagia come potrebbe sembrare, infatti, quando nella sua osteria capitava qualche individuo che le andava a genio, faceva di tutto per convincerlo a non inoltrarsi di notte lungo strade deserte e sconosciute e in tal modo gli evitava di cadere nelle mani dei briganti. Ovviamente questo strano comportamento dell’ostessa riguardava solo gli avventori a lei simpatici e solitamente persone giovani ed eleganti, mentre per tutti gli altri non c’era scampo. Fortunato fu quel giovane medico che si era fermato all’osteria per bersi un bicchiere di vino ed essendo ormai prossima la notte fu più volte avvertito dalla donna di non mettersi in viaggio a quell’ora, perché correva il rischio di brutti incontri. Ma siccome il medico non voleva saperne e insisteva per riprendere il viaggio, avendo urgenza di visitare alcuni suoi pazienti, l’ostessa volle a tutti i costi farlo accompagnare da un suo figliolo. La mattina dopo giunse notizia di una sanguinosa aggressione compiuta dalla solita banda ai danni di alcuni mercanti di ritorno dalla fiera di Bergamo. La rapina era stata compiuta proprio lungo la strada dove era da poco transitato anche il giovane medico, il quale ne era però uscito incolume proprio perché in compagnia del ragazzo. Le preziose informazioni fornite alla polizia da alcuni viandanti che erano riusciti a fuggire consentirono di arrestare il marito e il fratello della bella ostessa, la quale risultò pure implicata nell’azione e nel processo che ne seguì si beccò dieci anni di galera.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Storie di briganti, più o meno famose e romanzesche, sono assai diffuse in tutta la Bergamasca, al punto che la loro narrazione potrebbe occupare un intero libro. In questa sede ci limitiamo a presentare solo alcuni esempi significativi, riferendo anche i casi documentati di due brigantesse che dimostrarono di non essere da meno dei loro più noti compari maschi. A metà dell’Ottocento imperversò in Val Taleggio il brigante Angelo Pessina, detto Tarfù. dal nome dialettale di una grossa larva che si annida nei tronchi degli alberi, di preferenza giovani noci, e si nutre della loro polpa, scavando lunghi cunicoli che arrecano danni gravi e talvolta irreparabili alla pianta. Essendo praticamente impossibile snidare il parassita senza danneggiare il legno, i contadini lo combattono introducendo nel cunicolo un tratto di miccia o uno stoppino imbevuto di liquido infiammabile a cui danno fuoco. Il Tarfù era arrivato in valle all’inizio del 1849, disertore dall’esercito austriaco, nelle cui fila aveva militato fino alla conclusione della guerra contro il Piemonte. L’esercito era in procinto di smobilitare e lui, come tanti altri, di fronte alla prospettiva di un lungo e ostile soggiorno in terra austriaca aveva preferito darsi alla macchia, cosa che del resto aveva già fatto, seppur per un breve periodo, tempo addietro. La Valle Taleggio parve al Pessina il luogo ideale per sfuggire alle ricerche delle forze dell’ordine: guai a farsi mettere le mani addosso dai gendarmi austriaci: essendo disertore recidivo, e per di più in stato di guerra, avrebbe rischiato la fucilazione.

All’inizio si era arrangiato alla meglio, in tutta solitudine, rubando nelle cascine lo stretto necessario per sopravvivere o dandosi alla cattura di uccelli, rane, lumache e quant’altro offrivano i boschi della valle. Ben presto, però, si accorse che ci poteva essere un altro e più redditizio mezzo per campare. Gli era capitato più volte di incontrare, nascosti nelle baite dell’Alben o del Baciamorti, degli sbandati o disertori suoi pari, gente che per un motivo o per l’altro aveva tutte le ragioni per stare alla larga dalla comunità civile, alcuni già dediti al brigantaggio organizzato, altri in procinto di aggregarsi in banda. Che cosa poteva rischiare il Pessina, diventando un brigante, oltre alla pena di morte già meritata con la diserzione? Tanto valeva vivere alla grande più a lungo che poteva, nella remota speranza che qualcosa potesse prima o poi cambiare. La prima rapina fu compiuta ai danni del parroco della Pianca, il quale fu aggredito nella sua canonica e derubato dei soldi e di altri oggetti di valore per l’importo di un migliaio di lire. Probabilmente il Tarfù ebbe in quella prima azione un ruolo subalterno, ma le sue doti di coraggio, l’abilità organizzativa e soprattutto la forte personalità lo portarono quasi subito alla guida del gruppo che verrà poi identificato col suo nome. Questa nuova leadership segnò un salto di qualità nelle successive imprese banditesche. Pochi giorni dopo l’aggressione al parroco della Pianca, la banda fu protagonista di un episodio clamoroso che ebbe per teatro il paese di Sottochiesa. Alla guida di una dozzina di briganti ben armati, il Tarfù penetrò nel municipio e sequestrò il sindaco Locatelli, chiedendo un riscatto di ben tredicimila lire.

Per tutta la giornata il paese rimase in balia dei malviventi che, per convincere la popolazione a consegnare il denaro, sottoposero il sequestrato a ripetuti maltrattamenti e minacce di morte. Alla fine le pretese dei sequestratori si ridussero a poco meno di duemila lire, che vennero effettivamente sborsate. Non senza che il Tarfù si prendesse un interesse supplementare, facendosi consegnare due marenghi d’oro dal vicesindaco, in cambio della garanzia che avrebbe usato la propria autorevole influenza sui compagni nel convincerli a ridimensionare le pretese. Ormai la banda era uscita allo scoperto: l’azione di Sottochiesa aveva rivelato l’identità dei suoi componenti e la polizia aveva spiccato mandati di cattura per ciascuno. Ma di tali mandati la banda Tarfù parve non tener minimamente conto, tanto è vero che mise a segno subito dopo un altro colpo. Calati su Cassiglio, in alta Valle Brembana, i malviventi assalirono l’abitazione di un commerciante e lo rapinarono di sedici talleri. Pochi giorni dopo fu la volta del santuario di Salzana, presso Pizzino, il cui cappellano fu fermato sul sagrato mentre era intento a leggere il breviario e costretto a consegnare i cinque franchi che aveva con sé. Dopo un periodo di oltre un anno, durante il quale dovettero cambiare aria per sfuggire alle attive ricerche dei gendarmi, il Tarfù e i suoi si rifecero vivi nell’agosto del 1850, a spese del parroco di Sottochiesa. Non che i preti, specie da quelle parti, fossero particolarmente ricchi, ma perché non erano pochi i parrocchiani che consegnavano al loro parroco i loro modesti gioielli di famiglia, ritenendo che nella canonica fossero al sicuro, senza contare poi le offerte che venivano fatte in chiesa.

Il parroco fece però in tempo a barricarsi in casa e i banditi non furono in grado di sfondare il robusto portone d’ingresso. Dopo aver cercato a lungo, ma inutilmente un’altra entrata, se ne dovettero andare, non prima però di aver fracassato a sassate alcuni vetri delle finestre. Poi la cattura, avvenuta verso l’autunno di quello stesso anno. La corte marziale lo dichiarò colpevole di duplice diserzione, oltre a rapine, furti e violenze e lo condannò a morte per impiccagione. La sentenza, confermata dal comando militare di Verona, venne eseguita a Bergamo il 28 gennaio 1851. Unica concessione del comando militare, la commutazione delle modalità di esecuzione: alla forca venne sostituita la fucilazione. Un tempo la mulattiera che da Zogno porta al Monte di Nese era assai praticata perché era uno dei percorsi più agevoli per raggiungere la Valle Seriana e Bergamo dalla Valle Brembana. Quanti si recavano da una valle all’altra per trasportare, a dorso di asino o mulo, i loro prodotti, erano soliti sostare in località Gromasnì, un piccolo spiazzo erboso vicino ad una fresca sorgente che sgorga ancora oggi abbondante. Non di rado quello spiazzo era luogo d’incontro e scambio di merci tra mercanti, una specie di mercato dove i prodotti portati dalla città venivano scambiati con quelli delle vallate. Nel 1848 quel luogo fu teatro di un sanguinosa rapina compiuta da una banda di briganti capeggiati da una donna. Vittima della rapina, conclusasi tragicamente, fu Giovan Battista Calvi, un contadino di Poscante il quale si era recato a Bergamo, attraverso la strada del Monte di Nese, per vendere una sua mucca. Passando per Valtesse, era stato notato dalla levatrice del paese, la stessa che faceva servizio anche a Poscante. Costei, appurato che il contadino sarebbe stato di ritorno in serata, senza la mucca, ma con un bel gruzzolo di almeno duecento lire, corse ad avvertire i briganti dell’imminente possibilità di fare un po’ di soldi senza troppe complicazioni. Fu così che levatrice e briganti si appostarono nei pressi della sorgente di Gromasnì, in attesa del ritorno del Calvi, il quale infatti a tarda sera aveva preso la strada di casa, assieme a un compaesano.

Giunto al luogo dell’agguato, il Calvi fu facilmente immobilizzato dai briganti, che erano mascherati e per di più protetti dal buio. Lasciato andare il compagno, si diedero a perquisire il Calvi per sottrargli il denaro, ma il malcapitato, nel tentativo di sottrarsi alla rapina, strappò la maschera alla levatrice e la riconobbe. Costei, allora, per non farsi denunciare, cavò di tasca un lungo coltello e glielo conficcò in un fianco, poi si diede alla fuga con il resto della compagnia, convinta di averlo ucciso. Nel frattempo il compagno di viaggio era giunto a Poscante ed aveva dato l’allarme. I parenti e gli amici del rapinato si precipitarono a prestargli soccorso, ma lo trovarono ormai dissanguato e in fin di vita. Prima di spirare il poveretto ebbe però il tempo di denunciare la colpevole, che pochi giorni dopo venne arrestata, condannata a morte ed impiccata sugli spalti della Fara a Bergamo. Fu l’ultima esecuzione della giustizia austriaca prima delle rivolte patriottiche del 1848. La storia di un’altra brigantessa è ambientata nella media Valle Seriana e precisamente ad Abbazia di Albino dove c’era un’osteria gestita da un’ostessa talmente bella e gentile da richiamare nel locale la migliore clientela della zona. L’ostessa si intratteneva volentieri a chiacchierare con gli avventori e sempre si dimostrava disponibile verso ogni loro esigenza, ma sotto l’apparenza così a modo si celava una ben diversa realtà: la donna era niente meno che a capo di una banda di briganti i quali imperversavano nella media valle e tenevano la base operativa in una caverna del monte Misma, dove nascondevano il bottino e si riunivano per progettare nuove aggressioni ai danni dei malcapitati viandanti che percorrevano le buie strade della zona.

L’ostessa, di notte, si travestiva da uomo e con i capelli che le coprivano le guance simulava una lunga barba biondiccia. Tuttavia non era proprio così malvagia come potrebbe sembrare, infatti, quando nella sua osteria capitava qualche individuo che le andava a genio, faceva di tutto per convincerlo a non inoltrarsi di notte lungo strade deserte e sconosciute e in tal modo gli evitava di cadere nelle mani dei briganti. Ovviamente questo strano comportamento dell’ostessa riguardava solo gli avventori a lei simpatici e solitamente persone giovani ed eleganti, mentre per tutti gli altri non c’era scampo. Fortunato fu quel giovane medico che si era fermato all’osteria per bersi un bicchiere di vino ed essendo ormai prossima la notte fu più volte avvertito dalla donna di non mettersi in viaggio a quell’ora, perché correva il rischio di brutti incontri. Ma siccome il medico non voleva saperne e insisteva per riprendere il viaggio, avendo urgenza di visitare alcuni suoi pazienti, l’ostessa volle a tutti i costi farlo accompagnare da un suo figliolo. La mattina dopo giunse notizia di una sanguinosa aggressione compiuta dalla solita banda ai danni di alcuni mercanti di ritorno dalla fiera di Bergamo. La rapina era stata compiuta proprio lungo la strada dove era da poco transitato anche il giovane medico, il quale ne era però uscito incolume proprio perché in compagnia del ragazzo. Le preziose informazioni fornite alla polizia da alcuni viandanti che erano riusciti a fuggire consentirono di arrestare il marito e il fratello della bella ostessa, la quale risultò pure implicata nell’azione e nel processo che ne seguì si beccò dieci anni di galera.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Come sempre accadeva, anche quella domenica di fine luglio aveva preferito prendere la via dei boschi anziché stare tra i suoi compaesani a rispettare il sacrosanto riposo settimanale. E sì che quello era il giorno più atteso dell’anno, il giorno in cui si festeggiava la patrona del paese, Santa Brigida, nella chiesa più antica della Valle Averara. Era una festa assai solenne, a cui prendeva parte tutta la popolazione della vallata, richiamata lassù non solo per le cerimonie religiose, la processione al suono della banda, il solenne rituale dell’offerta dei doni alla chiesa, ma anche per la sagra popolare che ne seguiva e che teneva tutti svegli e allegri fino a tarda ora. Al Rossàl, così si chiamava per via del colore fulvo di barba e capelli, il protagonista di questa storia che si racconta ancora oggi a Santa Brigida e negli altri paesi della Valle Averara, tutto questo non interessava affatto. Per lui quello era un giorno come un altro, per nulla diverso dal resto della settimana e dell’anno. Un giorno da trascorrere nelle solite occupazioni: accudire le quattro bestie nella stalla e nel piccolo pollaio, prepararsi i pasti, aggiustare qualche attrezzo o riparare qualche struttura della sua misera casa e, a seconda della stagione, tagliare il fieno nei prati, spargere il letame o andar per boschi a fare legna per sé e strame per il letto dei suoi animali.

L’unico svago che si concedeva, e a cui non avrebbe rinunciato per niente al mondo, era la caccia, praticata in ogni periodo dell’anno, fosse o no permessa, col fucile, con le reti, gli archetti e altri marchingegni che piazzava con infallibile competenza nei luoghi più adatti per catturare uccelli, lepri e ogni altra specie di selvaggina che costituivano la base quasi esclusiva della sua alimentazione, eccezion fatta di quant’altro gli metteva a disposizione la natura nelle diverse stagioni e cioè, rane, lumache, funghi, castagne e noci, senza trascurare, ben inteso, la quotidiana polenta, il latte delle sue mucche e le uova delle sue galline. Il Rossàl abitava in una stamberga circondata da un piccolo prato e da un fitto bosco, poco distante da Carale, una contrada di Santa Brigida. Faceva una vita da eremita e non permetteva ad alcuno di avvicinarsi alla sua casa, rivolgendosi minaccioso a chiunque passasse da quelle parti, agitando per aria l’attrezzo che si trovava in quel momento per le mani e accompagnando il gesto con urlacci convulsi e incomprensibili.

Quella mattina, dunque, il Rossàl stava girovagando già da un po’ di tempo nel bosco, incurante della giornata festiva, ma per quanto prestasse attenzione a ogni minimo fruscio, non era ancora riuscito a catturare il più piccolo uccellino. Strada facendo si era premurato di controllare le sue trappole, piazzate con cura nei posti più adatti per sorprendere le prede, ma anche quelle erano tutte desolatamente vuote. Assai contrariato e in preda a un fastidioso nervosismo per l’insuccesso della battuta, correva qua e là per il bosco, brontolando a mezza voce e imprecando contro la cattiva sorte. Così intento nel suo inutile e lamentoso girovagare, non si accorse di una strana presenza che si era materializzata da qualche tempo: un cane nero, di razza incerta, che lo stava seguendo in silenzio. Quando se ne avvide, si stupì di tale imprevisto compagno e si domandò da dove fosse saltato fuori e che cosa ci facesse così attaccato alle sue calcagna.

Poi cercò di scacciarlo con male parole, ma il cane non accolse l’invito, anzi, gli si fece ancora più vicino, quasi a dimostrargli di averlo eletto a suo padrone. Gli stava un po’ davanti e un po’ dietro, scodinzolava, annusava per terra, rimaneva qualche attimo in ascolto con le orecchie tese, fiutando l’aria, proprio come fanno tutti i cani in queste situazioni. Ma il Rossàl non gradiva la sua presenza e provò di nuovo, a più riprese, a scacciarlo, lanciandogli anche un sasso. Niente da fare! Allora, per toglierlo di mezzo, o forse solo per spaventarlo, gli puntò contro il fucile, facendo l’atto di sparare: “Adès ta spare, perché so stöf che te me ègnet dré”. Il cane si bloccò di colpo, drizzò le orecchie, arruffò il pelo, ringhiò cupamente, poi aprì la bocca e parlò: “Arda Rossàl, no sta’ a tirà!”. Il Rossàl rimase a bocca aperta per la sorpresa, poi, notando che il cane lo fissava con un ghigno inquietante, fu sopraffatto dallo spavento e invece di sparare se la diede a gambe e corse senza fermarsi fino a Santa Brigida. Arrivò in paese che era quasi mezzogiorno e la gente era ancora riunita in chiesa per la messa grande. Trovò un’osteria aperta e vi entrò per bere qualcosa di forte che lo sollevasse dallo spavento. C’era solo l’oste che si meravigliò assai dell’insolita visita di quel tipo solitamente così restio a farsi vedere e notò subito i segni della paura sul suo volto angosciato. Il Rossàl ordinò un quarto di vino e lo scolò d’un fiato, poi rinfrancato alquanto raccontò la brutta avventura all’oste, il quale ovviamente non credette una sola parola dello strano racconto, immaginando che l’avventore fosse rimasto vittima di qualche scherzo di cattivo gusto o che si fosse immaginato tutto, sotto gli effetti di una cattiva bevuta. Tuttavia cercò di rincuorarlo dicendogli che forse la strana visione era dovuta alla stanchezza o alla fame.

Ma nel giro di poche ore tutto il paese era al corrente dell’insolita avventura del Rossàl, che divenne ancora di più la vittima dei lazzi di grandi e piccoli. Passarono i giorni e anche il Rossàl si convinse che forse la storia del cane nero era stata solo frutto della sua fantasia, così non ci pensò più. Ben presto tornò alle sue solite abitudini e riprese ad andare a caccia tutti i giorni, compresi quelli festivi. Un paio di mesi dopo quell’oscuro episodio, verso la fine di settembre, eccolo dunque di nuovo col fucile in spalla salire su per la montagna a caccia di camosci. Era una domenica mattina e nemmeno quella era una domenica qualsiasi, bensì il giorno della festa dell’Addolorata, altra ricorrenza speciale, dopo quella della patrona, per la comunità parrocchiale di Santa Brigida. Il Rossàl, invece, proprio come era suo solito, aveva preferito scappare dal paese in festa, disdegnando le sacre cerimonie e la conseguente sagra paesana, per andare a solitaria caccia su per il Piàcc. E questa volta la caccia fu premiata con una preda superba: un grosso camoscio abbattuto con un solo colpo da considerevole distanza, cosa che lo riempì di orgoglio e gli fece tornare il gusto per la vita a contatto diretto con la natura selvaggia.

Caricatosi l’animale in spalla, l’empio cacciatore prese la via di casa, superando non senza difficoltà, curvo sotto il pesante fardello, le costanti insidie di impervi sentieri e di intricati ammassi cespugliosi. Era ormai arrivato in vista di Santa Brigida, precisamente nel luogo chiamato il Sàcc, quando udì un forte e persistente fruscio proveniente dal fitto della boscaglia. Si fermò e si mise in ascolto. Il fruscio si fece più intenso e continuo, come se tra le piante ci fosse un animale impazzito. Stava per deporre il camoscio e imbracciare il fucile per andare a verificare l’origine di questo affannoso andirivieni, quando dal cespuglio sbucò una figura scura in cui riconobbe con raccapriccio il misterioso cane di due mesi addietro. L’aspetto dell’animale era assai mutato rispetto alla prima apparizione: al posto del cane all’apparenza normale e addirittura mansueto di allora, c’era adesso una belva furiosa che gli si avventò contro con un impeto terrificante. Quell’essere immondo con il pelo irto e arruffato, gli occhi infuocati, la bocca bavosa, la coda ripiegata tra le zampe posteriori lo incalzava sempre più da vicino, col preciso intento di azzannarlo, digrignando i denti e latrando furiosamente. Ma quello che più spaventava il Rossàl erano i versi disarticolati, i suoni gutturali quasi umani, abbozzi di parole smozzicate che l’animale emetteva assieme ai latrati, quasi a voler esprimere chissà quale sorta di infernale minaccia. A furia di indietreggiare, l’uomo era arrivato sul ciglio di un burrone che si apriva sotto il sentiero. Il pesante fardello che gli gravava le spalle lo rendeva impacciato nei movimenti e gli impediva di organizzare un’efficace difesa contro la furia dell’assalitore che invece sembrava acquistare nuovo impeto via via che l’assalito dava segni di cedimento. Impossibile lasciar cadere il camoscio per terra e imbracciare il fucile: sarebbe significato sguarnire per un attimo la difesa e lasciarsi sopraffare. Ormai il Rossàl era allo stremo delle forze, aveva raggiunto l’orlo del precipizio e la vista gli si stava annebbiando per la fatica. Ancora un attimo e sarebbe stato sbranato da quella furia scatenata o sarebbe precipitato nel vuoto. Senza più speranza, in un estremo tentativo di difesa, mentre il cane stava ormai per agguantarlo, raccolse tutte le sue forze e lasciò partire un poderoso calcio, riuscendo a colpire in pieno l’animale che reagì, emettendo lamentosi guaiti e compiendo una serie di folli piroette su se stesso che smossero il terreno in forma di cerchio.

Ma nello sferrare il calcio il Rossàl aveva perso l’equilibrio e così precipitò nel burrone. Nello stesso tempo la strada franò dietro di lui ed egli venne trascinato in basso in un’accozzaglia di terriccio, sassi, alberi sradicati che lo travolsero sommergendolo sotto il loro peso. Si riebbe dopo qualche tempo. Era ferito in varie parti del corpo, sanguinava abbondantemente ed era tutto indolenzito, ma il camoscio che egli non aveva mai lasciato, era caduto con lui riparandolo in parte dai detriti più pesanti. Malgrado le ferite e lo spavento per il terribile incontro di poco prima, il Rossàl cercò di mettersi in piedi e di ritornare sul sentiero, ma si sentiva troppo debole per il sangue versato e la fatica lo opprimeva, così, dopo un ultimo inutile sforzo, dovette desistere e non poté fare altro che iniziare a gridare, chiedendo aiuto. Lo trovarono il giorno dopo alcuni cacciatori di Santa Brigida, richiamati dai suoi ormai flebili lamenti. Non senza difficoltà, lo riportarono sul sentiero, poi lo adagiarono su una barella di rami intrecciati e presero la via del ritorno. Ma il Rossàl non rivide più il suo paese. Spirò lungo la strada, non prima però di essere riuscito a raccontare ai soccorritori, tra lacrime e lamenti, la sua tremenda avventura, assicurando che quel dannato cane altri non era se non il Diavolo in persona che era venuto a prenderlo.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Autostoppista fantasma della Val Serina

Ai nostri giorni ci pensa la televisione a riempire le serate di racconti più o meno avvincenti e intriganti, non per questo è venuta meno la predisposizione della gente comune a dar vita a suggestioni collettive che fanno capolino qua e là nei modi più impensati. Si tratta, ad esempio, delle famose leggende metropolitane, trasposizione moderna delle incredibili vicende di una volta, che prendono corpo, anche e soprattutto negli ambienti giovanili, e si alimentano sull’onda del passaparola, finendo talvolta per acquistare un’improbabile quanto effimera veridicità. Non estranea a queste tendenze è la Valle Brembana, dove pure si assiste con sorpresa al riproporsi di questi temi cari alle generazioni passate.

E’ il caso, ad esempio, della leggenda dell’autostoppista fantasma che circola da tempo tra i giovani della valle ed ora è di dominio pubblico, anche per merito della professoressa Stefania Fumagalli che ne ha fatto oggetto di un interessante studio antropologico. La serata non era stata delle più elettrizzanti. Il disk jockey dello Snoopy di Serina ce l’aveva messa tutta per tenere alta l’atmosfera, ma la musica, le luci e gli amici non erano riusciti a dargli la solita carica e così Luca, superata da un bel po’ la mezzanotte, si era deciso di lasciare la compagnia e tornarsene a casa a smaltire il sonno arretrato, anche perché il pomeriggio del giorno dopo l’attendeva una impegnativa gara di atletica, in vista della quale si era preparato ben bene per tutta la settimana. Vuotò il bicchiere di birra, salutò gli amici e uscì all’aperto, respirando di gusto l’aria fresca e umida della notte. Raggiunse la sua piccola auto sportiva, mise in moto e uscì dal parcheggio, districandosi non senza difficoltà nella selva di veicoli parcheggiati alla rinfusa. Fu allora che scorse sul margine della strada la figura minuta di una ragazza che col braccio teso chiedeva un passaggio.

Doveva essere uscita da poco dalla discoteca, per quanto il suo abbigliamento, una giacchetta bianca attillata e una gonnellina blu a pieghe, lunga fino al ginocchio e di taglio piuttosto antiquato, apparisse poco intonato con la moda degli abituali frequentatori del locale, decisamente sul casual e con tonalità in prevalenza scure e poco appariscenti. Come era sua abitudine, alla vista dell’autostoppista, Luca bloccò l’automobile, che stridette sulla sabbia del ciglio stradale. “Vuoi un passaggio?” chiese abbassando il finestrino di destra. “Mi porti fino a Zogno?” annuì la ragazza con voce incolore, aprendo la portiera e accomodandosi sul sedile. “Ciao, sono Luca” fece lui, ripartendo di gran carriera. “Cristina” biascicò la ragazza, sistemandosi i capelli con le mani “Eri allo Snoopy? Non ti ho notato in tutta la serata”. “Per la verità sono stata seduta in un angolo tutta la serata. Sempre la stessa musica, monotona e assordante. E poi ho dovuto tenere a bada un rompiscatole che mi ha importunata fin dall’inizio”. “Hai ragione, la musica che passa qui non è il massimo. Sempre la solita storia, è per questo che ci vengo di rado.

A me piace ben altro”. Così dicendo accese lo stereo e subito l’abitacolo fu inondato dalle note limpide e cristalline dell’ultimo disco di Vasco Rossi. “Che ne dici?” chiese il ragazzo alzando un po’ il volume e canticchiando il motivo sopra la voce roca del cantautore. “Mai sentita” rispose la ragazza assorta in chissà quali pensieri. L’automobile procedeva veloce lungo i tornanti e le strettoie della Val Serina. Erano quasi arrivati nell’orrido di Bracca e i fanali illuminavano le alte e nere pareti strapiombanti sulla strada, conferendo alla roccia un aspetto inquietante. “Non mi sembra di averti mai vista. Sei di Zogno? – riprese Luca con la vaga intenzione di imbastire con la ragazza una parvenza di dialogo – non ti ho mai notata nemmeno a scuola. Io sono stato fino all’anno scorso a Camanghé”.

“Anch’io ho frequentato quella scuola per un po’, ma adesso manco dalla valle da parecchio tempo” rispose stancamente la ragazza, dando a vedere che non aveva la minima intenzione di continuare la conversazione. L’automobile uscì dall’orrido e imboccò rombando il rettilineo antistante lo stabilimento della Fonte Bracca. “Lasciami qui – fece all’improvviso la ragazza – sono arrivata”. Luca accostò l’auto al marciapiedi e si fermò, ma non poté fare a meno di manifestare la propria sorpresa: in quella zona, a parte lo stabilimento, non c’erano costruzioni, nessuna casa d’abitazione, lui lo sapeva bene, perché ci aveva lavorato, alla Bracca, per un paio di estati, tra un anno scolastico e l’altro. Nessun altro edificio, salvo il piccolo cimitero di Ambria, quasi soffocato dall’impianto industriale. “Ma dove abiti? Qui non ci sono case. Non è che ti sei sbagliata?”. “Ciao, buona notte” fece la ragazza per tutta risposta, scendendo dall’auto con un sospiro e accostando stancamente la portiera. “Ma vai al Diavolo!” mormorò tra sé Luca, ripartendo come un razzo e dando volume al suo Clarion che lo ripagò con le superbe note del concerto di Imola di Vasco. Dovette ripensare a quello strano incontro la mattina del giorno dopo, quando tirò fuori l’auto dal box per andare in paese.

Notò infatti che da sotto sedile laterale sporgevano i manici di una piccola borsetta nera, certamente dimenticata dalla ragazza della sera prima. Per niente entusiasta della prospettiva di dover consegnare la borsetta alla legittima proprietaria, cercò tra gli oggetti che vi erano contenuti i documenti, li trovò e così poté risalire all’identità e al domicilio della ragazza. Ma quello che vide sulla carta di identità non mancò di sorprenderlo un’altra volta: Cristina era nata il 10 agosto 1965, aveva quindi trentaquattro anni e questo gli sembrava incomprensibile, dato che all’apparenza la ragazza ne dimostrava a malapena venti. Con fastidio ripose i documenti nella borsetta, la gettò in malo modo sul sedile della vettura, mise in moto, uscì dal box e partì con la sua solita irruenza, suscitando l’immancabile commento isterico della madre che dal terrazzo aveva osservato i suoi movimenti, ma non aveva avuto il tempo di chiedere spiegazioni e informarsi sul perché di quella improvvisa partenza, né tanto meno di somministrare al figlio le solite, inascoltate, raccomandazioni alla prudenza. Pochi minuti dopo l’auto si arrestò davanti a una villetta unifamiliare di Ambria, circondata da un bel giardino delimitato da una bassa inferriata. Luca scese dall’auto tenendo in mano la borsetta, si diresse verso il cancello, premette il pulsante del citofono e rimase in attesa. Dopo un attimo si affacciò alla porta una donna di bassa statura, dalla folta capigliatura brizzolata e dall’aria interrogativa. “Buongiorno, signora, abita qui Cristina? Ieri sera mi ha chiesto un passaggio e ha dimenticato la borsetta sulla mia macchina, eccola, gliel’ho riportata”.

“Arda che me gh’o miga òia de schersà! Va’ a ca tò, vilàno, e laga sta la me tusa”. Questa fu la risposta risentita e angosciata della donna che subito rientrò in casa sbattendo la porta. Convinto di essere incappato in una famiglia di matti, ma comunque desideroso di chiudere questa faccenda, Luca premette di nuovo e a lungo il pulsante. Questa volta apparvero sul pianerottolo due uomini, uno magro, sulla sessantina, certamente il marito della donna di prima, e l’altro giovane e robusto, probabilmente il figlio. I due raggiunsero quasi correndo il cancello, l’aprirono e si avvicinarono con fare minaccioso a Luca. “De che banda ègnela chèla bursèta? Famla ‘mpó èt a me!” chiese bruscamente quello che sembrava il padre. Luca, alquanto preoccupato per la piega che stava prendendo quello strano incontro, fece del suo meglio per apparire credibile e raccontò come la sera precedente avesse dato un passaggio a una ragazza di nome Cristina, descrivendone meticolosamente l’aspetto e l’abbigliamento e come costei si fosse poi bruscamente congedata all’altezza del cimitero di Ambria senza dare spiegazioni, infine mostrò la borsetta dimenticata in macchina.

“Io sono venuto solo per restituire la borsetta e ho dovuto aprirla per trovare l’indirizzo di quella che penso sia vostra figlia, chiedete a lei se non è vero. Ecco, prendete – proseguì porgendo la borsetta all’uomo più anziano – verificate che non manchi niente”. “Mi ricordo che aveva una borsetta come questa – singhiozzò la madre che nel frattempo si era avvicinata ai tre ed era rimasta ad ascoltare in silenzio il racconto di Luca – ma non può essere sua, comunque la ragazza non poteva certo essere la mia Cristina”. Poi prese la borsetta dalle mani del marito e cominciò a rovistarne affannosamente il contenuto, quindi, trovata la carta d’identità, la aprì con le mani tremanti per l’emozione. Impallidì e quasi perse l’equilibrio, poi, appoggiandosi al marito, esclamò con un filo di voce: “Madóna me, l’è pròpe le Arda ‘n po a’ te. Com’el pusìbel se la me Cristina l’è morta quìndes àgn fa?”. E così Luca venne a sapere che la misteriosa ragazza era morta quindici anni prima in un incidente stradale, verificatosi proprio all’uscita dell’orrido di Bracca, mentre stava rincasando in autostop dopo una serata trascorsa nella discoteca Snoopy di Serina. E la sua tomba era nel piccolo cimitero davanti al quale aveva chiesto di scendere dall’auto.

 

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Ai nostri giorni ci pensa la televisione a riempire le serate di racconti più o meno avvincenti e intriganti, non per questo è venuta meno la predisposizione della gente comune a dar vita a suggestioni collettive che fanno capolino qua e là nei modi più impensati. Si tratta, ad esempio, delle famose leggende metropolitane, trasposizione moderna delle incredibili vicende di una volta, che prendono corpo, anche e soprattutto negli ambienti giovanili, e si alimentano sull’onda del passaparola, finendo talvolta per acquistare un’improbabile quanto effimera veridicità. Non estranea a queste tendenze è la Valle Brembana, dove pure si assiste con sorpresa al riproporsi di questi temi cari alle generazioni passate.

E’ il caso, ad esempio, della leggenda dell’autostoppista fantasma che circola da tempo tra i giovani della valle ed ora è di dominio pubblico, anche per merito della professoressa Stefania Fumagalli che ne ha fatto oggetto di un interessante studio antropologico. La serata non era stata delle più elettrizzanti. Il disk jockey dello Snoopy di Serina ce l’aveva messa tutta per tenere alta l’atmosfera, ma la musica, le luci e gli amici non erano riusciti a dargli la solita carica e così Luca, superata da un bel po’ la mezzanotte, si era deciso di lasciare la compagnia e tornarsene a casa a smaltire il sonno arretrato, anche perché il pomeriggio del giorno dopo l’attendeva una impegnativa gara di atletica, in vista della quale si era preparato ben bene per tutta la settimana. Vuotò il bicchiere di birra, salutò gli amici e uscì all’aperto, respirando di gusto l’aria fresca e umida della notte. Raggiunse la sua piccola auto sportiva, mise in moto e uscì dal parcheggio, districandosi non senza difficoltà nella selva di veicoli parcheggiati alla rinfusa. Fu allora che scorse sul margine della strada la figura minuta di una ragazza che col braccio teso chiedeva un passaggio.

Doveva essere uscita da poco dalla discoteca, per quanto il suo abbigliamento, una giacchetta bianca attillata e una gonnellina blu a pieghe, lunga fino al ginocchio e di taglio piuttosto antiquato, apparisse poco intonato con la moda degli abituali frequentatori del locale, decisamente sul casual e con tonalità in prevalenza scure e poco appariscenti. Come era sua abitudine, alla vista dell’autostoppista, Luca bloccò l’automobile, che stridette sulla sabbia del ciglio stradale. “Vuoi un passaggio?” chiese abbassando il finestrino di destra. “Mi porti fino a Zogno?” annuì la ragazza con voce incolore, aprendo la portiera e accomodandosi sul sedile. “Ciao, sono Luca” fece lui, ripartendo di gran carriera. “Cristina” biascicò la ragazza, sistemandosi i capelli con le mani “Eri allo Snoopy? Non ti ho notato in tutta la serata”. “Per la verità sono stata seduta in un angolo tutta la serata. Sempre la stessa musica, monotona e assordante. E poi ho dovuto tenere a bada un rompiscatole che mi ha importunata fin dall’inizio”. “Hai ragione, la musica che passa qui non è il massimo. Sempre la solita storia, è per questo che ci vengo di rado.

A me piace ben altro”. Così dicendo accese lo stereo e subito l’abitacolo fu inondato dalle note limpide e cristalline dell’ultimo disco di Vasco Rossi. “Che ne dici?” chiese il ragazzo alzando un po’ il volume e canticchiando il motivo sopra la voce roca del cantautore. “Mai sentita” rispose la ragazza assorta in chissà quali pensieri. L’automobile procedeva veloce lungo i tornanti e le strettoie della Val Serina. Erano quasi arrivati nell’orrido di Bracca e i fanali illuminavano le alte e nere pareti strapiombanti sulla strada, conferendo alla roccia un aspetto inquietante. “Non mi sembra di averti mai vista. Sei di Zogno? – riprese Luca con la vaga intenzione di imbastire con la ragazza una parvenza di dialogo – non ti ho mai notata nemmeno a scuola. Io sono stato fino all’anno scorso a Camanghé”.

“Anch’io ho frequentato quella scuola per un po’, ma adesso manco dalla valle da parecchio tempo” rispose stancamente la ragazza, dando a vedere che non aveva la minima intenzione di continuare la conversazione. L’automobile uscì dall’orrido e imboccò rombando il rettilineo antistante lo stabilimento della Fonte Bracca. “Lasciami qui – fece all’improvviso la ragazza – sono arrivata”. Luca accostò l’auto al marciapiedi e si fermò, ma non poté fare a meno di manifestare la propria sorpresa: in quella zona, a parte lo stabilimento, non c’erano costruzioni, nessuna casa d’abitazione, lui lo sapeva bene, perché ci aveva lavorato, alla Bracca, per un paio di estati, tra un anno scolastico e l’altro. Nessun altro edificio, salvo il piccolo cimitero di Ambria, quasi soffocato dall’impianto industriale. “Ma dove abiti? Qui non ci sono case. Non è che ti sei sbagliata?”. “Ciao, buona notte” fece la ragazza per tutta risposta, scendendo dall’auto con un sospiro e accostando stancamente la portiera. “Ma vai al Diavolo!” mormorò tra sé Luca, ripartendo come un razzo e dando volume al suo Clarion che lo ripagò con le superbe note del concerto di Imola di Vasco. Dovette ripensare a quello strano incontro la mattina del giorno dopo, quando tirò fuori l’auto dal box per andare in paese.

Notò infatti che da sotto sedile laterale sporgevano i manici di una piccola borsetta nera, certamente dimenticata dalla ragazza della sera prima. Per niente entusiasta della prospettiva di dover consegnare la borsetta alla legittima proprietaria, cercò tra gli oggetti che vi erano contenuti i documenti, li trovò e così poté risalire all’identità e al domicilio della ragazza. Ma quello che vide sulla carta di identità non mancò di sorprenderlo un’altra volta: Cristina era nata il 10 agosto 1965, aveva quindi trentaquattro anni e questo gli sembrava incomprensibile, dato che all’apparenza la ragazza ne dimostrava a malapena venti. Con fastidio ripose i documenti nella borsetta, la gettò in malo modo sul sedile della vettura, mise in moto, uscì dal box e partì con la sua solita irruenza, suscitando l’immancabile commento isterico della madre che dal terrazzo aveva osservato i suoi movimenti, ma non aveva avuto il tempo di chiedere spiegazioni e informarsi sul perché di quella improvvisa partenza, né tanto meno di somministrare al figlio le solite, inascoltate, raccomandazioni alla prudenza. Pochi minuti dopo l’auto si arrestò davanti a una villetta unifamiliare di Ambria, circondata da un bel giardino delimitato da una bassa inferriata. Luca scese dall’auto tenendo in mano la borsetta, si diresse verso il cancello, premette il pulsante del citofono e rimase in attesa. Dopo un attimo si affacciò alla porta una donna di bassa statura, dalla folta capigliatura brizzolata e dall’aria interrogativa. “Buongiorno, signora, abita qui Cristina? Ieri sera mi ha chiesto un passaggio e ha dimenticato la borsetta sulla mia macchina, eccola, gliel’ho riportata”.

“Arda che me gh’o miga òia de schersà! Va’ a ca tò, vilàno, e laga sta la me tusa”. Questa fu la risposta risentita e angosciata della donna che subito rientrò in casa sbattendo la porta. Convinto di essere incappato in una famiglia di matti, ma comunque desideroso di chiudere questa faccenda, Luca premette di nuovo e a lungo il pulsante. Questa volta apparvero sul pianerottolo due uomini, uno magro, sulla sessantina, certamente il marito della donna di prima, e l’altro giovane e robusto, probabilmente il figlio. I due raggiunsero quasi correndo il cancello, l’aprirono e si avvicinarono con fare minaccioso a Luca. “De che banda ègnela chèla bursèta? Famla ‘mpó èt a me!” chiese bruscamente quello che sembrava il padre. Luca, alquanto preoccupato per la piega che stava prendendo quello strano incontro, fece del suo meglio per apparire credibile e raccontò come la sera precedente avesse dato un passaggio a una ragazza di nome Cristina, descrivendone meticolosamente l’aspetto e l’abbigliamento e come costei si fosse poi bruscamente congedata all’altezza del cimitero di Ambria senza dare spiegazioni, infine mostrò la borsetta dimenticata in macchina.

“Io sono venuto solo per restituire la borsetta e ho dovuto aprirla per trovare l’indirizzo di quella che penso sia vostra figlia, chiedete a lei se non è vero. Ecco, prendete – proseguì porgendo la borsetta all’uomo più anziano – verificate che non manchi niente”. “Mi ricordo che aveva una borsetta come questa – singhiozzò la madre che nel frattempo si era avvicinata ai tre ed era rimasta ad ascoltare in silenzio il racconto di Luca – ma non può essere sua, comunque la ragazza non poteva certo essere la mia Cristina”. Poi prese la borsetta dalle mani del marito e cominciò a rovistarne affannosamente il contenuto, quindi, trovata la carta d’identità, la aprì con le mani tremanti per l’emozione. Impallidì e quasi perse l’equilibrio, poi, appoggiandosi al marito, esclamò con un filo di voce: “Madóna me, l’è pròpe le Arda ‘n po a’ te. Com’el pusìbel se la me Cristina l’è morta quìndes àgn fa?”. E così Luca venne a sapere che la misteriosa ragazza era morta quindici anni prima in un incidente stradale, verificatosi proprio all’uscita dell’orrido di Bracca, mentre stava rincasando in autostop dopo una serata trascorsa nella discoteca Snoopy di Serina. E la sua tomba era nel piccolo cimitero davanti al quale aveva chiesto di scendere dall’auto.

 

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Il Drago Volante (così chiamato) abitava nei dintorni di Santa Brigida oggi luogo di villeggiatura, ben noto a tanti. Nessuno sapeva però dove avesse la sua tana, quando appariva come una furia, scoperchiava i tetti delle case con lo sbattere delle ali e poi spariva non dimenticandosi pero’ di portarsi via qualche agnello o capretto. Quando poi il drago decideva di avventurarsi sulle sue prede di notte, si calava dal cielo tenendo tra le zampe 2 grosse gemme che utilizzava per illuminarsi il cammino. Un giorno un certo Bulgher, uomo forte e astuto, decise di sfidare il drago. Il Bulgher di Santa Brigida riuscì a scoprire dove il drago si rifugiava: le pendici del Monte Pugna.

Una notte quatto quatto con una cappa nera sulle spalle, salì sul pianoro e approfittando di un attimo di distrazione del drago si avventò su una delle due gemme fosforescenti ma appena la toccò lanciò un urlo mentre intorno a lui si scatenava l’inferno… vento e tempesta scuotevano gli alberi del bosco. Quella furia si placò solo al mattino, Bulgher più morto che vivo per lo spavento, tornò al paese di Santa Brigida con le mani ancora bruciacchiate e per cento e cento volte ripete’ quello che gli era successo e per secoli lo ripeterono i nonni ai loro nipoti.

La zia del carrettiere

Una piovosa sera d’autunno, di un’epoca imprecisata, un giovane carrettiere stava discendendo la Valle Brembana guidando il suo cavallo che trainava a fatica un carro carico di legna. L’acciottolato della mulattiera, reso viscido dalla pioggia, e le ampie pozzanghere sparse per ogni dove creavano non poche difficoltà all’animale che doveva essere continuamente pungolato dal suo padrone, il quale, a sua volta, stanco e bagnato fradicio, non vedeva l’ora di concludere il viaggio, pentendosi ad ogni passo di averlo intrapreso malgrado il tempo si annunciasse pessimo. Il paese ormai non era lontano e il giovane sperava di arrivare a casa prima che fosse troppo tardi, in tempo per trovare ancora alzata la sua vecchia e cara zia con la quale viveva da quando gli erano morti i genitori. La strada in quel tratto si inoltrava in un fitto bosco e il carrettiere si trovò immerso di colpo in un buio quasi assoluto, dal momento che la lanterna attaccata a una stanga del carro si era spenta da tempo, investita dai violenti scrosci di pioggia, e non c’era stato verso di riaccenderla. Bisognava quindi procedere quasi a tentoni, fidando nell’istinto del cavallo che doveva conoscere a memoria la strada su cui transitava quasi ogni giorno.

Ma, oltre al buio e all’acquazzone, il giovane era preoccupato da qualcosa di più inquietante e misterioso: quel luogo era famoso per essere infestato da spiriti e da banditi, che non mancavano di importunare i viandanti, facendoli oggetto di aggressioni che non di rado si concludevano con la morte delle vittime. Il carrettiere si dava quindi da fare per uscire dal bosco il più presto possibile, ma la strada in quel tratto era ancora più impraticabile e il carro finì per impantanarsi del tutto, cosicché, malgrado gli sforzi, non fu possibile smuoverlo. Ormai sfinito e senza più speranza di poter riprendere il cammino, il giovane desistette dai suoi sforzi, si rialzò e si guardò intorno nel fitto del bosco che tra acqua, vento e tuoni era immerso in un turbinio infernale.

Fu allora che, con grande stupore, si accorse di una luce fioca che filtrava tra gli alberi a poca distanza. Intenzionato a chiedere aiuto, staccò il cavallo dal carro e tenendo l’animale per le redini si avvicinò alla luce, trovandosi ben presto di fronte a una casetta che non aveva mai visto prima, per quanto passasse spesso da quelle parti. La luce proveniva da una finestrella del piano terreno, attraverso la quale il giovane intravide un’accogliente cucina con un caminetto acceso e una tavola apparecchiata per una persona. Non notò però anima viva. Legato il cavallo alla staccionata, si avvicinò al portone e bussò a lungo, prima timidamente e poi con più energia, chiedendo aiuto e gridando per farsi sentire. Ma nessun segno di vita proveniva dalla casa, allora provò a tirare il catenaccio del portone e si accorse che non era chiuso a chiave. Lo aprì ed entrò in casa, accolto dal piacevole tepore del focolare e dal profumo del pane fresco posto in un cesto al centro della tavola, accanto a un piatto di colmo di grossi pezzi di formaggio, a un vassoio di castagne cotte e a un fiasco di vino.

Dopo aver cercato ancora una volta, ma inutilmente, di far notare la sua presenza ai padroni di casa, il giovane si avvicinò alla tavola e, poiché aveva una fame da lupi, si diede a mangiare di buona lena, consumando in un batter d’occhio quel cibo semplice ma saporito, che sembrava essere stato preparato apposta per lui. Poi, ormai sazio e un po’ brillo per il vino tracannato senza risparmio, si tolse i vestiti inzuppati d’acqua e li pose ad asciugare accanto al focolare. Solo allora si accorse di un grosso gatto soriano che sonnecchiava in un angolo del caminetto. “Toh, eccolo il padrone di casa” esclamò a voce alta il giovane sorridendo soddisfatto, poi si sdraiò su una comoda poltrona e, vinto dalla stanchezza, si addormentò. Fu svegliato dopo un tempo imprecisato da qualcosa di morbido che gli solleticava i piedi. Era il gatto che si stava trastullando con i suoi calzettoni di lana e si strusciava attorno alle sue gambe facendo le fusa. Tentò di riaddormentarsi, ma il gatto lo infastidiva, così dopo averlo sopportato un po’ e dopo aver cercato di allontanarlo con le buone, finì col perdere la pazienza e gli affibbiò un potente calcio sul muso, mandandolo a sbattere contro una gamba del tavolo e costringendolo a scappare, in preda a lamentosi mugolii di dolore. Finalmente solo, il giovane carrettiere poté riprendere sonno e dormì tutta la notte, risvegliandosi quando ormai era giorno fatto e il sole splendeva alto nel cielo limpido.

Mentre stava rivestendosi dei panni asciugati durante la notte, notò con grande sorpresa che la tavola era stata di nuovo apparecchiata per una sola persona, con pane, latte, miele e una soffice torta. Fatto un estremo tentativo di conoscere quei singolari padroni di casa e un po’ inquieto per via di sopraggiunti pensieri legati agli spiriti e ai banditi, fece in fretta la colazione, quindi uscì di casa, slegò il cavallo, tornò verso il carro, lo liberò a fatica dal fango e finalmente riprese il suo viaggio. Arrivato a casa, sistemò il cavallo, poi cercò subito la zia, non vedendo l’ora di raccontarle la sua incredibile avventura. La trovò a letto in preda a forti dolori, con la testa e un braccio avvolti da una spessa benda. “Che cosa ti è successo, zia?” le chiese tutto preoccupato. E la zia di rimando: “Hai anche il coraggio di chiedermelo, malandrino senza cuore che non sei altro? Io ti avevo preparato una casetta accogliente, tutta a tua disposizione, e tu mi hai ripagato prendendomi a calci!”. Il giovane ripensò allora al gatto della notte precedente e la guardò sbalordito, senza più la forza di dire una parola.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Una piovosa sera d’autunno, di un’epoca imprecisata, un giovane carrettiere stava discendendo la Valle Brembana guidando il suo cavallo che trainava a fatica un carro carico di legna. L’acciottolato della mulattiera, reso viscido dalla pioggia, e le ampie pozzanghere sparse per ogni dove creavano non poche difficoltà all’animale che doveva essere continuamente pungolato dal suo padrone, il quale, a sua volta, stanco e bagnato fradicio, non vedeva l’ora di concludere il viaggio, pentendosi ad ogni passo di averlo intrapreso malgrado il tempo si annunciasse pessimo. Il paese ormai non era lontano e il giovane sperava di arrivare a casa prima che fosse troppo tardi, in tempo per trovare ancora alzata la sua vecchia e cara zia con la quale viveva da quando gli erano morti i genitori. La strada in quel tratto si inoltrava in un fitto bosco e il carrettiere si trovò immerso di colpo in un buio quasi assoluto, dal momento che la lanterna attaccata a una stanga del carro si era spenta da tempo, investita dai violenti scrosci di pioggia, e non c’era stato verso di riaccenderla. Bisognava quindi procedere quasi a tentoni, fidando nell’istinto del cavallo che doveva conoscere a memoria la strada su cui transitava quasi ogni giorno.

Ma, oltre al buio e all’acquazzone, il giovane era preoccupato da qualcosa di più inquietante e misterioso: quel luogo era famoso per essere infestato da spiriti e da banditi, che non mancavano di importunare i viandanti, facendoli oggetto di aggressioni che non di rado si concludevano con la morte delle vittime. Il carrettiere si dava quindi da fare per uscire dal bosco il più presto possibile, ma la strada in quel tratto era ancora più impraticabile e il carro finì per impantanarsi del tutto, cosicché, malgrado gli sforzi, non fu possibile smuoverlo. Ormai sfinito e senza più speranza di poter riprendere il cammino, il giovane desistette dai suoi sforzi, si rialzò e si guardò intorno nel fitto del bosco che tra acqua, vento e tuoni era immerso in un turbinio infernale.

Fu allora che, con grande stupore, si accorse di una luce fioca che filtrava tra gli alberi a poca distanza. Intenzionato a chiedere aiuto, staccò il cavallo dal carro e tenendo l’animale per le redini si avvicinò alla luce, trovandosi ben presto di fronte a una casetta che non aveva mai visto prima, per quanto passasse spesso da quelle parti. La luce proveniva da una finestrella del piano terreno, attraverso la quale il giovane intravide un’accogliente cucina con un caminetto acceso e una tavola apparecchiata per una persona. Non notò però anima viva. Legato il cavallo alla staccionata, si avvicinò al portone e bussò a lungo, prima timidamente e poi con più energia, chiedendo aiuto e gridando per farsi sentire. Ma nessun segno di vita proveniva dalla casa, allora provò a tirare il catenaccio del portone e si accorse che non era chiuso a chiave. Lo aprì ed entrò in casa, accolto dal piacevole tepore del focolare e dal profumo del pane fresco posto in un cesto al centro della tavola, accanto a un piatto di colmo di grossi pezzi di formaggio, a un vassoio di castagne cotte e a un fiasco di vino.

Dopo aver cercato ancora una volta, ma inutilmente, di far notare la sua presenza ai padroni di casa, il giovane si avvicinò alla tavola e, poiché aveva una fame da lupi, si diede a mangiare di buona lena, consumando in un batter d’occhio quel cibo semplice ma saporito, che sembrava essere stato preparato apposta per lui. Poi, ormai sazio e un po’ brillo per il vino tracannato senza risparmio, si tolse i vestiti inzuppati d’acqua e li pose ad asciugare accanto al focolare. Solo allora si accorse di un grosso gatto soriano che sonnecchiava in un angolo del caminetto. “Toh, eccolo il padrone di casa” esclamò a voce alta il giovane sorridendo soddisfatto, poi si sdraiò su una comoda poltrona e, vinto dalla stanchezza, si addormentò. Fu svegliato dopo un tempo imprecisato da qualcosa di morbido che gli solleticava i piedi. Era il gatto che si stava trastullando con i suoi calzettoni di lana e si strusciava attorno alle sue gambe facendo le fusa. Tentò di riaddormentarsi, ma il gatto lo infastidiva, così dopo averlo sopportato un po’ e dopo aver cercato di allontanarlo con le buone, finì col perdere la pazienza e gli affibbiò un potente calcio sul muso, mandandolo a sbattere contro una gamba del tavolo e costringendolo a scappare, in preda a lamentosi mugolii di dolore. Finalmente solo, il giovane carrettiere poté riprendere sonno e dormì tutta la notte, risvegliandosi quando ormai era giorno fatto e il sole splendeva alto nel cielo limpido.

Mentre stava rivestendosi dei panni asciugati durante la notte, notò con grande sorpresa che la tavola era stata di nuovo apparecchiata per una sola persona, con pane, latte, miele e una soffice torta. Fatto un estremo tentativo di conoscere quei singolari padroni di casa e un po’ inquieto per via di sopraggiunti pensieri legati agli spiriti e ai banditi, fece in fretta la colazione, quindi uscì di casa, slegò il cavallo, tornò verso il carro, lo liberò a fatica dal fango e finalmente riprese il suo viaggio. Arrivato a casa, sistemò il cavallo, poi cercò subito la zia, non vedendo l’ora di raccontarle la sua incredibile avventura. La trovò a letto in preda a forti dolori, con la testa e un braccio avvolti da una spessa benda. “Che cosa ti è successo, zia?” le chiese tutto preoccupato. E la zia di rimando: “Hai anche il coraggio di chiedermelo, malandrino senza cuore che non sei altro? Io ti avevo preparato una casetta accogliente, tutta a tua disposizione, e tu mi hai ripagato prendendomi a calci!”. Il giovane ripensò allora al gatto della notte precedente e la guardò sbalordito, senza più la forza di dire una parola.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Il Fienile della Pastora, è la prima stalla al di là del Ponte di Poscante e la gente diceva che lì dentro abitava una strega. E quando passavano da quel luogo, mettevano il ditone della mano destra tra l’indice e il medio, perché quello era un segno contro l’influenza maligna di quella strega che abitava nella stalla. Questa strega si aggirava per le vallette con in mano un tridente per acchiappare sirgagnole e topi per mangiare; e come frutta mangiava pastura di sabucco e pungitopo e beveva acqua marcia di stagno e quando si fermava, tutte le mosche le volavano addosso per l’odore che emanava.

S’aggirava per prati, dietro alle stalle e intorno alle case per stregare vacche cavalli porcelli e tutti gli animali domestici che vedeva. E andava anche nei boschi e tutti i nidi di uccelli che vedeva li abbatteva a sassate e uccideva tutte le bestie che trovava vaganti libere sulla madre terra. Un inverno un mandriano venuto dal Monte di Nese a Poscante per dar del fieno alle sue mucche, non sapeva che in quei posti girava la strega. Per di più il mandriano non aveva toccato il quadro del Sant’Antonio Abbandonato, che stava sulla porta della stalla e che è il protettore degli animali. La strega arriva sulla porta, e poi va dentro: e rapidamente tocca la pancia alle vacche che devono partorire. Arriva il mandriano nella stalla, s’accorge della strega e subito chiude la porta per non lasciarla scappare.

Prende in mano il tridente e, a colpi, batte e batte fin che l’ammazza. Ma le sue mucche, quelle da latte, son rimaste asciutte e ha dovuto abbatterle. E quelle che dovevano partorire sono morte nel parto. La gente di Poscante che e’ buona e di cuore, sia per il coraggio, sia per premiarlo perché li aveva liberati della strega, fece una raccolta di danaro in modo da ricompensarlo per il bestiame che aveva perduto. E la strega morta l’hanno trascinata giù dal pendio nel fondo della Valle e lì è stata coperta di ortiche e di spine.

Streghe bollite in pentola

Un sistema ritenuto efficace per combattere le streghe era di far bollire in un grande calderone gli oggetti domestici o gli indumenti che si ritenevano portatori delle fatture. Durante la bollitura, se qualcuno degli oggetti era stato stregato, si cominciavano a sentire lamenti sempre più forti e insistenti, finché la strega responsabile della malefatta, solitamente celata sotto le sembianze di una persona all’apparenza innocua, si doveva svelare per non rischiare la bollitura che la colpiva tramite l’oggetto stregato, e di conseguenza subiva il castigo previsto per questi casi. Una vicenda del genere capitò a un giovane mulattiere di Dossena il quale aveva solo una sorella, sposata con un fannullone, assai cattiva e invidiosa del fratello che era invece stimato da tutti per la sua intraprendenza e abilità nel portare a termine gli incarichi assegnatigli. A forza di lavorare dall’alba al tramonto, il giovane era riuscito a mettere insieme un certo numero di muli e cavalli da tiro, con i quali trasportava ovunque per conto terzi ogni sorta di materiali.

I quadrupedi erano la sua fonte di guadagno e perciò il mulattiere li trattava con ogni cura, badando che mangiassero a dovere, si riposassero dopo le fatiche quotidiane e non prendessero freddo quando erano sudati. Tuttavia, malgrado le attenzioni, non passava anno senza che un animale si ammalasse improvvisamente e morisse per cause inspiegabili. Convinto di essere vittima del malocchio, il giovane si rivolse finalmente a un vecchio saggio del paese il quale gli indicò cosa avrebbe dovuto fare se si fosse ripetuto un caso di malattia improvvisa tra gli animali. Così, quando notò che il mulo più mansueto e più apprezzato per la sua forza si era ammalato e stava morendo, mise in pratica i consigli del vecchio: riempì d’acqua una grande pentola, vi immerse tutti i finimenti del mulo e li mise a bollire sul fuoco del camino. Dopo un po’, quando l’acqua stava per bollire, cominciò a sentire richieste di aiuto e lamenti emessi da una voce femminile che sembrava provenire dalla pentola.

Il giovane, al quale era stato preannunciato questo strano fenomeno, non se ne curò e continuò a tener vivo il fuoco con grossi ceppi di legna. Ma i lamenti divennero sempre più acuti e si trasformarono in urla strazianti, poi la porta fu scossa da un bussare furioso, accompagnato dalle suppliche spasmodiche della voce che implorava il giovane di togliere la pentola dal fuoco. Alla fine la donna svelò la propria identità: era la sorella del mulattiere che gli chiedeva perdono, dicendogli che se non avesse fatto in fretta a levarla dal fuoco sarebbe cotta fino a morire. Al sentire la voce della sorella, il giovane comprese finalmente chi era la strega che gli aveva fatto morire i muli, ma dato che aveva buon cuore spense subito il fuoco e aggiunse acqua fredda a quella bollente. Poi corse ad aprire la porta, ma ormai era troppo tardi: la sorella giaceva a terra, morta bollita. La disperazione del fratello si trasformò poco dopo in rassegnazione, quando, entrato nella stalla, vide il mulo in piedi, completamente guarito e intento a mangiare di buona lena il fieno dalla greppia.

L’espediente della bollitura come rimedio contro le streghe era ritenuto efficace un po’ in tutta la Bergamasca. A Casnigo, quando capitavano episodi attribuiti a stregoneria, si decideva di immergere un crocifisso a testa in giù in una pentola piena d’acqua bollente in cui erano stati immessi degli indumenti della persona ritenuta all’origine delle scellerate fatture. Capitava allora che il colpevole (o, più spesso, la colpevole) si mettesse a urlare di dolore, come se il suo corpo stesse bollendo in pentola e chiedesse a gran voce di essere liberato da quel tormento, svelando così la sua vera natura. La pratica della bollitura del crocifisso era rigorosamente vietata dalle autorità ecclesiastiche, ma quando era in ballo la salvezza delle persone care non si tenevano in gran considerazione i divieti. A Villa d’Almè, ad esempio, le mamme ricorrevano alla bollitura preventiva, assieme al crocifisso, degli indumenti dei bambini quando ci poteva essere il rischio che i loro piccoli frequentassero ambienti infestati da streghe. Credenze ovviamente piuttosto balzane, come quella che aveva individuato nientemeno che il quartier generale delle streghe, per alcuni situato al passo del Tonale, per altri in una stretta e tortuosa vallata delle Orobie, dove nottetempo si davano convegno migliaia di queste inquietanti entità della notte per ritemprarsi prima di intraprendere le altre inique spedizioni.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Un sistema ritenuto efficace per combattere le streghe era di far bollire in un grande calderone gli oggetti domestici o gli indumenti che si ritenevano portatori delle fatture. Durante la bollitura, se qualcuno degli oggetti era stato stregato, si cominciavano a sentire lamenti sempre più forti e insistenti, finché la strega responsabile della malefatta, solitamente celata sotto le sembianze di una persona all’apparenza innocua, si doveva svelare per non rischiare la bollitura che la colpiva tramite l’oggetto stregato, e di conseguenza subiva il castigo previsto per questi casi. Una vicenda del genere capitò a un giovane mulattiere di Dossena il quale aveva solo una sorella, sposata con un fannullone, assai cattiva e invidiosa del fratello che era invece stimato da tutti per la sua intraprendenza e abilità nel portare a termine gli incarichi assegnatigli. A forza di lavorare dall’alba al tramonto, il giovane era riuscito a mettere insieme un certo numero di muli e cavalli da tiro, con i quali trasportava ovunque per conto terzi ogni sorta di materiali.

I quadrupedi erano la sua fonte di guadagno e perciò il mulattiere li trattava con ogni cura, badando che mangiassero a dovere, si riposassero dopo le fatiche quotidiane e non prendessero freddo quando erano sudati. Tuttavia, malgrado le attenzioni, non passava anno senza che un animale si ammalasse improvvisamente e morisse per cause inspiegabili. Convinto di essere vittima del malocchio, il giovane si rivolse finalmente a un vecchio saggio del paese il quale gli indicò cosa avrebbe dovuto fare se si fosse ripetuto un caso di malattia improvvisa tra gli animali. Così, quando notò che il mulo più mansueto e più apprezzato per la sua forza si era ammalato e stava morendo, mise in pratica i consigli del vecchio: riempì d’acqua una grande pentola, vi immerse tutti i finimenti del mulo e li mise a bollire sul fuoco del camino. Dopo un po’, quando l’acqua stava per bollire, cominciò a sentire richieste di aiuto e lamenti emessi da una voce femminile che sembrava provenire dalla pentola.

Il giovane, al quale era stato preannunciato questo strano fenomeno, non se ne curò e continuò a tener vivo il fuoco con grossi ceppi di legna. Ma i lamenti divennero sempre più acuti e si trasformarono in urla strazianti, poi la porta fu scossa da un bussare furioso, accompagnato dalle suppliche spasmodiche della voce che implorava il giovane di togliere la pentola dal fuoco. Alla fine la donna svelò la propria identità: era la sorella del mulattiere che gli chiedeva perdono, dicendogli che se non avesse fatto in fretta a levarla dal fuoco sarebbe cotta fino a morire. Al sentire la voce della sorella, il giovane comprese finalmente chi era la strega che gli aveva fatto morire i muli, ma dato che aveva buon cuore spense subito il fuoco e aggiunse acqua fredda a quella bollente. Poi corse ad aprire la porta, ma ormai era troppo tardi: la sorella giaceva a terra, morta bollita. La disperazione del fratello si trasformò poco dopo in rassegnazione, quando, entrato nella stalla, vide il mulo in piedi, completamente guarito e intento a mangiare di buona lena il fieno dalla greppia.

L’espediente della bollitura come rimedio contro le streghe era ritenuto efficace un po’ in tutta la Bergamasca. A Casnigo, quando capitavano episodi attribuiti a stregoneria, si decideva di immergere un crocifisso a testa in giù in una pentola piena d’acqua bollente in cui erano stati immessi degli indumenti della persona ritenuta all’origine delle scellerate fatture. Capitava allora che il colpevole (o, più spesso, la colpevole) si mettesse a urlare di dolore, come se il suo corpo stesse bollendo in pentola e chiedesse a gran voce di essere liberato da quel tormento, svelando così la sua vera natura. La pratica della bollitura del crocifisso era rigorosamente vietata dalle autorità ecclesiastiche, ma quando era in ballo la salvezza delle persone care non si tenevano in gran considerazione i divieti. A Villa d’Almè, ad esempio, le mamme ricorrevano alla bollitura preventiva, assieme al crocifisso, degli indumenti dei bambini quando ci poteva essere il rischio che i loro piccoli frequentassero ambienti infestati da streghe. Credenze ovviamente piuttosto balzane, come quella che aveva individuato nientemeno che il quartier generale delle streghe, per alcuni situato al passo del Tonale, per altri in una stretta e tortuosa vallata delle Orobie, dove nottetempo si davano convegno migliaia di queste inquietanti entità della notte per ritemprarsi prima di intraprendere le altre inique spedizioni.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Come se non bastassero i serpenti a rovinare la vita ai nostri antenati, ci si mettevano anche i gatti. Si racconta che un contadino, di ritorno dal lavoro nei campi, cominciò ad essere seguito da un grosso gatto, che non lo abbandonava finché non metteva piede in casa. Una sera, stanco di vedere questo gatto, gli diede una bastonata, colpendolo a una zampa e il gatto se ne fuggì zoppicando e miagolando mestamente. Il contadino, arrivato a casa, venne a sapere che poco prima la sua moglie era stata colpita da un pezzo di legna caduto da una catasta e aveva riportato la frattura di una gamba. Allora non poté fare a meno di pensare che quel gatto vendicativo altri non era se non la moglie che, sotto sembianze feline, lo seguiva chissà poi per quale strano motivo! A volte, però, i gatti tornavano anche utili all’uomo, come accadde a un giovane di Oltre il Colle che stava rientrando dal lavoro dopo aver ricevuto la paga mensile. Arrivato presso il ponte della Val Parina, il giovane vide in mezzo alla strada un grosso gatto che sembrava intenzionato a impedirgli di passare. Prima con le buone e poi con le cattive, cercò allora di scansare l’animale, ma questo rimaneva lì, imperterrito, con fare minaccioso, ben deciso a non arretrare di un passo. Il giovane, incapace di venire a capo di questa insolita situazione, finì col sedersi a lato della strada, sperando che il gatto decidesse finalmente di andarsene.

Aspetta e aspetta, passò parecchio tempo, ma il gatto non si muoveva. E fu un bene, perché di là dal ponte, appostati dietro un cespuglio, c’erano due briganti armati di bastoni, che attendevano il giovane per aggredirlo e derubarlo. Stanchi di aspettare e visto che la situazione non si sarebbe sbloccata, i due malfattori dovettero venire allo scoperto e il gatto si avventò contro di loro con tale furia da costringerli alla fuga nel fitto del bosco. Così il giovane poté riprendere il cammino e tornare a casa sano e salvo, convincendosi in cuor suo che quel gatto in verità non era altro che l’anima di un suo caro defunto, tornato sulla terra ad aiutarlo. Assai strano è anche il gatto parlante, protagonista di una storiella che si racconta a Casnigo. Si dice che una ragazza, mentre stava facendo ritorno a casa dopo una giornata di lavoro in filanda, incontrò un gatto che si diede a seguirla docilmente come un cagnolino. Arrivata fuori la ragazza si accostò alla fontanella che stava nel suo giardino e, dopo aver bevuto un sorso d’acqua, si mise a spogliarsi e a lavarsi, senza curarsi di chicchessia. Mentre era intenta a tale disinvolta operazione, la giovane notò che il gatto se ne stava lì vicino e la osservava con interesse ridendo di gusto! Infastidita dall’impertinenza del felino e stupefatta per quel singolare sorriso, la ragazza esclamò: “Toh, adesso mi tocca anche di vedere un gatto che ride!”. E prontamente il gatto, che non solo sapeva ridere, ma anche parlare, rispose: “E a me tocca di vedere una ragazza scostumata che si toglie i vestiti all’aria aperta!”.

Ed eccoci alla gatta cornia, detta da altri la gatta carogna e da altri ancora la gratta corna. Proprio quest’ultima accezione sembra meglio definire il senso che si vuole attribuire a questo essere difficilmente definibile, il cui ruolo sarebbe stato di corrodere le montagne, riempiendole di grotte e caverne, quasi che fosse una sorta di topo alle prese con una forma di cacio. La gatta cornia era un felino molto grosso, famelico e dal pelo nero, dotato di un paio di poderose corna, ed era solita uscire dalla sua tana nelle notti di luna piena per aggirarsi tra i boschi e le montagne nel vano tentativo di saziare il suo insaziabile appetito. Era difficile, se non impossibile sorprenderla, ma si potevano facilmente trovare i segni della sua presenza quando, andando a spasso tra i boschi, si notavano caverne sempre più profonde scavate nelle rocce calcaree. Questi scavi erano il frutto del lungo grattare della gatta cornia, la quale del resto non era cattiva e non aveva mai fatto male a nessuno, salvo recarsi nottetempo nelle camere dei bambini disubbidienti, sorprenderli nel sonno e grattare i loro morbidi piedini, facendoli svegliare di soprassalto per il fastidioso solletico.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Quelle strane orme bovine

Non è raro ancora oggi imbattersi lungo i sentieri di montagna in resti fossili di grosse conchiglie bivalvi, i concodon, che hanno una forma curiosamente simile a grossi zoccoli bovini. La credenza popolare attribuiva queste strane orme alla presenza del Diavolo che avrebbe lasciato le sue “peste” impresse nella roccia, in segno del suo passaggio. Attorno a questi segni sono nate nel corso dei secoli delle curiose leggende che interessano varie località delle nostre vallate. La più nota è quella ambientata in Val Serina, nella zona tra Miragolo e Perello, dove si stende il vasto bosco della Val Pagana, nome adatto ad evocare inquietanti presenze. Qui viveva una ragazza bellissima che trascorreva gran parte del suo tempo libero dedicandosi al ballo più sfrenato. Non si sapeva bene chi frequentasse e dove in particolare si recasse per dare sfogo al suo divertimento preferito.

I genitori e i fratelli la ostacolavano con tutte le loro forze, il padre addirittura, quando la vedeva tornare a tarda ora, tutta sudata e scarmigliata, con le scarpe consumate a furia di giravolte, la picchiava di santa ragione con la cintura dei pantaloni, lasciandole sulle gambe certe fiacche da far pietà. L’avevano anche chiusa in casa, ma lei non “portava botta” e continuava imperterrita a scappare di casa per dare libero sfogo alla sua grande passione ballerina, anzi, consigliava pure le amiche di seguirla, così avrebbero potuto conoscere nuove persone e magari trovare un buon partito. Nessuno sapeva dove andasse a ballare, perché si inoltrava in certi luoghi impervi e rocciosi situati sotto il santuario del Perello e in fretta faceva perdere le sue tracce. Più volte i fratelli avevano provato a seguirla, ma dopo un po’, improvvisamente, la ragazza spariva e i suoi inseguitori non potevano fare altro che ascoltare le note di una musichetta allegra provenienti da un luogo indeterminato.

Una sera il padre, esasperato per il comportamento della figlia e angosciato per la prospettiva di vederla partire ancora una volta per la consueta notte di follia, decise di adottare provvedimenti drastici: la portò in cantina e la legò stretta alla gamba di un tavolo, sprangando poi in modo impenetrabile la porta e la finestra del locale. Ma quando arrivò la mezzanotte, si udirono rumori spaventosi e risate agghiaccianti provenienti dall’esterno della casa. Tutti rimasero impietriti e non ebbero il coraggio di uscire a vedere quello che stava succedendo. Sbirciando da dietro le imposte, poterono scorgere un misterioso giovanotto, alto e aitante, che si era avvicinato alla finestra della cantina e stava scardinandola. In un batter d’occhio lo sconosciuto riuscì ad abbattere ogni protezione e a penetrare nel locale. Quindi, liberata la ragazza, se ne uscì portandola con sé ed avviandosi per la strada che si inoltrava nel bosco. Fatti pochi passi, mentre la ragazza si stringeva a lui affettuosamente, il giovane si voltò un attimo per controllare se qualcuno li stesse seguendo. Fu allora che i familiari della ragazza, che erano rimasti alla finestra, poterono notare la spaventosa trasformazione che si era verificata nella fisionomia dello sconosciuto: gli occhi si erano dilatati diventando dei grossi cerchi fiammeggianti, sulla testa erano spuntate due piccole corna aguzze e tutto il corpo si era ricoperto di un lungo pelo fulvo, al posto delle scarpe c’erano due poderosi zoccoli bovini e una coda lunga e attorcigliata fendeva l’aria senza sosta. Era il Diavolo!

Il padre e i fratelli della ragazza si precipitarono fuori di casa, nel disperato tentativo di portare soccorso alla loro cara, ma il Diavolo correva velocissimo, tenendo quasi sollevata la sua preda. Anche la ragazza si rese conto con spavento della orribile natura del suo accompagnatore e si mise a urlare, chiedendo aiuto e cercando di liberarsi da quell’abbraccio che era diventato improvvisamente mortale, ma il Diavolo, dopo qualche altro passo di corsa, prese il volo buttandosi nello strapiombo che si apre sotto il santuario del Perello. Sul fondo si spalancò una voragine e il Diavolo vi entrò, portando con sé la sventurata ragazza, che venne avvolta dalle fiamme dell’Inferno. I parenti che arrivarono trafelati sull’orlo dello strapiombo non poterono far altro che osservare, con orrore, una grossa nuvola di fumo nero e denso proveniente dal fondo. E per terra, sull’orlo del precipizio, impresse nella roccia, alcune grandi orme bovine, lasciate dal Diavolo al momento di spiccare il folle volo. Quelle orme sono ancora lì e possono essere osservate da chi si affaccia sullo strapiombo per ammirare la selvaggia bellezza della Val Pagana. E può anche capitare, in certe serate buie e misteriose, di udire i flebili e disperati lamenti della sventurata fanciulla provenienti dal fondo dell’abisso.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Non è raro ancora oggi imbattersi lungo i sentieri di montagna in resti fossili di grosse conchiglie bivalvi, i concodon, che hanno una forma curiosamente simile a grossi zoccoli bovini. La credenza popolare attribuiva queste strane orme alla presenza del Diavolo che avrebbe lasciato le sue “peste” impresse nella roccia, in segno del suo passaggio. Attorno a questi segni sono nate nel corso dei secoli delle curiose leggende che interessano varie località delle nostre vallate. La più nota è quella ambientata in Val Serina, nella zona tra Miragolo e Perello, dove si stende il vasto bosco della Val Pagana, nome adatto ad evocare inquietanti presenze. Qui viveva una ragazza bellissima che trascorreva gran parte del suo tempo libero dedicandosi al ballo più sfrenato. Non si sapeva bene chi frequentasse e dove in particolare si recasse per dare sfogo al suo divertimento preferito.

I genitori e i fratelli la ostacolavano con tutte le loro forze, il padre addirittura, quando la vedeva tornare a tarda ora, tutta sudata e scarmigliata, con le scarpe consumate a furia di giravolte, la picchiava di santa ragione con la cintura dei pantaloni, lasciandole sulle gambe certe fiacche da far pietà. L’avevano anche chiusa in casa, ma lei non “portava botta” e continuava imperterrita a scappare di casa per dare libero sfogo alla sua grande passione ballerina, anzi, consigliava pure le amiche di seguirla, così avrebbero potuto conoscere nuove persone e magari trovare un buon partito. Nessuno sapeva dove andasse a ballare, perché si inoltrava in certi luoghi impervi e rocciosi situati sotto il santuario del Perello e in fretta faceva perdere le sue tracce. Più volte i fratelli avevano provato a seguirla, ma dopo un po’, improvvisamente, la ragazza spariva e i suoi inseguitori non potevano fare altro che ascoltare le note di una musichetta allegra provenienti da un luogo indeterminato.

Una sera il padre, esasperato per il comportamento della figlia e angosciato per la prospettiva di vederla partire ancora una volta per la consueta notte di follia, decise di adottare provvedimenti drastici: la portò in cantina e la legò stretta alla gamba di un tavolo, sprangando poi in modo impenetrabile la porta e la finestra del locale. Ma quando arrivò la mezzanotte, si udirono rumori spaventosi e risate agghiaccianti provenienti dall’esterno della casa. Tutti rimasero impietriti e non ebbero il coraggio di uscire a vedere quello che stava succedendo. Sbirciando da dietro le imposte, poterono scorgere un misterioso giovanotto, alto e aitante, che si era avvicinato alla finestra della cantina e stava scardinandola. In un batter d’occhio lo sconosciuto riuscì ad abbattere ogni protezione e a penetrare nel locale. Quindi, liberata la ragazza, se ne uscì portandola con sé ed avviandosi per la strada che si inoltrava nel bosco. Fatti pochi passi, mentre la ragazza si stringeva a lui affettuosamente, il giovane si voltò un attimo per controllare se qualcuno li stesse seguendo. Fu allora che i familiari della ragazza, che erano rimasti alla finestra, poterono notare la spaventosa trasformazione che si era verificata nella fisionomia dello sconosciuto: gli occhi si erano dilatati diventando dei grossi cerchi fiammeggianti, sulla testa erano spuntate due piccole corna aguzze e tutto il corpo si era ricoperto di un lungo pelo fulvo, al posto delle scarpe c’erano due poderosi zoccoli bovini e una coda lunga e attorcigliata fendeva l’aria senza sosta. Era il Diavolo!

Il padre e i fratelli della ragazza si precipitarono fuori di casa, nel disperato tentativo di portare soccorso alla loro cara, ma il Diavolo correva velocissimo, tenendo quasi sollevata la sua preda. Anche la ragazza si rese conto con spavento della orribile natura del suo accompagnatore e si mise a urlare, chiedendo aiuto e cercando di liberarsi da quell’abbraccio che era diventato improvvisamente mortale, ma il Diavolo, dopo qualche altro passo di corsa, prese il volo buttandosi nello strapiombo che si apre sotto il santuario del Perello. Sul fondo si spalancò una voragine e il Diavolo vi entrò, portando con sé la sventurata ragazza, che venne avvolta dalle fiamme dell’Inferno. I parenti che arrivarono trafelati sull’orlo dello strapiombo non poterono far altro che osservare, con orrore, una grossa nuvola di fumo nero e denso proveniente dal fondo. E per terra, sull’orlo del precipizio, impresse nella roccia, alcune grandi orme bovine, lasciate dal Diavolo al momento di spiccare il folle volo. Quelle orme sono ancora lì e possono essere osservate da chi si affaccia sullo strapiombo per ammirare la selvaggia bellezza della Val Pagana. E può anche capitare, in certe serate buie e misteriose, di udire i flebili e disperati lamenti della sventurata fanciulla provenienti dal fondo dell’abisso.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Non è raro ancora oggi imbattersi lungo i sentieri di montagna in resti fossili di grosse conchiglie bivalvi, i concodon, che hanno una forma curiosamente simile a grossi zoccoli bovini. La credenza popolare attribuiva queste strane orme alla presenza del Diavolo che avrebbe lasciato le sue “peste” impresse nella roccia, in segno del suo passaggio. Attorno a questi segni sono nate nel corso dei secoli delle curiose leggende che interessano varie località delle nostre vallate. La più nota è quella ambientata in Val Serina, nella zona tra Miragolo e Perello, dove si stende il vasto bosco della Val Pagana, nome adatto ad evocare inquietanti presenze. Qui viveva una ragazza bellissima che trascorreva gran parte del suo tempo libero dedicandosi al ballo più sfrenato. Non si sapeva bene chi frequentasse e dove in particolare si recasse per dare sfogo al suo divertimento preferito.

I genitori e i fratelli la ostacolavano con tutte le loro forze, il padre addirittura, quando la vedeva tornare a tarda ora, tutta sudata e scarmigliata, con le scarpe consumate a furia di giravolte, la picchiava di santa ragione con la cintura dei pantaloni, lasciandole sulle gambe certe fiacche da far pietà. L’avevano anche chiusa in casa, ma lei non “portava botta” e continuava imperterrita a scappare di casa per dare libero sfogo alla sua grande passione ballerina, anzi, consigliava pure le amiche di seguirla, così avrebbero potuto conoscere nuove persone e magari trovare un buon partito. Nessuno sapeva dove andasse a ballare, perché si inoltrava in certi luoghi impervi e rocciosi situati sotto il santuario del Perello e in fretta faceva perdere le sue tracce. Più volte i fratelli avevano provato a seguirla, ma dopo un po’, improvvisamente, la ragazza spariva e i suoi inseguitori non potevano fare altro che ascoltare le note di una musichetta allegra provenienti da un luogo indeterminato.

Una sera il padre, esasperato per il comportamento della figlia e angosciato per la prospettiva di vederla partire ancora una volta per la consueta notte di follia, decise di adottare provvedimenti drastici: la portò in cantina e la legò stretta alla gamba di un tavolo, sprangando poi in modo impenetrabile la porta e la finestra del locale. Ma quando arrivò la mezzanotte, si udirono rumori spaventosi e risate agghiaccianti provenienti dall’esterno della casa. Tutti rimasero impietriti e non ebbero il coraggio di uscire a vedere quello che stava succedendo. Sbirciando da dietro le imposte, poterono scorgere un misterioso giovanotto, alto e aitante, che si era avvicinato alla finestra della cantina e stava scardinandola. In un batter d’occhio lo sconosciuto riuscì ad abbattere ogni protezione e a penetrare nel locale. Quindi, liberata la ragazza, se ne uscì portandola con sé ed avviandosi per la strada che si inoltrava nel bosco. Fatti pochi passi, mentre la ragazza si stringeva a lui affettuosamente, il giovane si voltò un attimo per controllare se qualcuno li stesse seguendo. Fu allora che i familiari della ragazza, che erano rimasti alla finestra, poterono notare la spaventosa trasformazione che si era verificata nella fisionomia dello sconosciuto: gli occhi si erano dilatati diventando dei grossi cerchi fiammeggianti, sulla testa erano spuntate due piccole corna aguzze e tutto il corpo si era ricoperto di un lungo pelo fulvo, al posto delle scarpe c’erano due poderosi zoccoli bovini e una coda lunga e attorcigliata fendeva l’aria senza sosta. Era il Diavolo!

Il padre e i fratelli della ragazza si precipitarono fuori di casa, nel disperato tentativo di portare soccorso alla loro cara, ma il Diavolo correva velocissimo, tenendo quasi sollevata la sua preda. Anche la ragazza si rese conto con spavento della orribile natura del suo accompagnatore e si mise a urlare, chiedendo aiuto e cercando di liberarsi da quell’abbraccio che era diventato improvvisamente mortale, ma il Diavolo, dopo qualche altro passo di corsa, prese il volo buttandosi nello strapiombo che si apre sotto il santuario del Perello. Sul fondo si spalancò una voragine e il Diavolo vi entrò, portando con sé la sventurata ragazza, che venne avvolta dalle fiamme dell’Inferno. I parenti che arrivarono trafelati sull’orlo dello strapiombo non poterono far altro che osservare, con orrore, una grossa nuvola di fumo nero e denso proveniente dal fondo. E per terra, sull’orlo del precipizio, impresse nella roccia, alcune grandi orme bovine, lasciate dal Diavolo al momento di spiccare il folle volo. Quelle orme sono ancora lì e possono essere osservate da chi si affaccia sullo strapiombo per ammirare la selvaggia bellezza della Val Pagana. E può anche capitare, in certe serate buie e misteriose, di udire i flebili e disperati lamenti della sventurata fanciulla provenienti dal fondo dell’abisso.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La baita della capra (Carona)

Non c’è paese che non abbia la sua storia legata ad apparizioni del Diavolo, rappresentato con le fogge più bizzarre e con gli immancabili zoccoli bovini o caprini. Non fa eccezione Carona, dove si racconta la vicenda che diede il nome a quella che è nota oggi come la baita della capra. Due giovani cacciatori avevano trascorso un’intera giornata a caccia di camosci nella zona dell’attuale rifugio Calvi. La giornata era stata propizia perché dopo un lungo inseguimento avevano abbattuto un bell’esemplare di camoscio, ma poiché nel frattempo si era fatto tardi e sarebbe stato impossibile fare ritorno in paese prima del tramonto, decisero di passare la notte in una baita della zona, cosa che avevano fatto già altre volte. Sistematisi nella baita e acceso il fuoco nel camino, decisero di far abbrustolire sulla brace il fegato del camoscio e di mangiarselo per cena. Stando seduti attorno al fuoco, in attesa che il fegato fosse cotto a puntino, ripercorrevano gli avvenimenti della giornata: il paziente appostamento seguito dall’apparizione, sulla cima di un’alta rupe, della sagoma slanciata e imponente di un camoscio maschio, il successivo inseguimento tra dirupi, creste e canaloni, i due precisi colpi di carabina che avevano steso l’animale. Una bella giornata davvero, una di quelle che sarebbe stato più opportuno concludere in un’osteria, davanti a un fiasco di vino e in compagnia degli altri cacciatori di Carona e, magari, di una bella ragazza.

A un certo punto uno dei due giovani esclamò: “Oh, che bello sarebbe se adesso si aprisse la porta ed entrasse quella tipa, allora sì che ci divertiremmo!”. “La serata sarebbe proprio perfetta” convenne l’altro che ben conosceva le qualità della “tipa” a cui alludeva il compare, una ragazza del paese, piuttosto chiacchierata per non essere proprio una santarellina. Strano a dirsi, il sogno dei due giovani si realizzò in un batter d’occhio: qualcuno bussò e, aperta la porta della baita, si presentò nientemeno che la ragazza appena evocata. I due cacciatori rimasero a bocca aperta per la sorpresa, al punto che, tutti occupati ad accogliere nel migliore dei modi l’ospite inattesa, dimenticarono di controllare il fegato che rischiava di abbrustolire oltre il dovuto. Se ne accorse la ragazza che li richiamò: “Ultì chel fìdec, che ‘l brüsa!”. Ma la voce che le era uscita dalla bocca aveva un non so che di sinistro che contrastava con i lineamenti delicati del suo viso.

Il particolare non sfuggì al più attento dei due cacciatori il quale, mentre stava avvicinandosi al fuoco per rigirare il fegato, notò con spavento che da sotto la lunga gonna spuntavano un paio di zoccoli di capra. Ormai non c’erano più dubbi: quella “tipa” era il Diavolo in persona! Un brivido di terrore corse giù per la schiena del giovane, che tuttavia seppe conservare un po’ di sangue freddo. Quanto bastava a far rispondere a tono all’ordine dell’ormai indesiderata ospite: “Se ‘l brüsa, làghel brüsà!”. Poi, preso per un braccio il compagno ancora ignaro di tutto, lo trascinò fuori dalla baita e via di corsa verso casa, incuranti del buio e dei pericoli, dimentichi del camoscio e dei sogni proibiti con l’unico desiderio di sfuggire alle grinfie del Diavolo. La loro avventura divenne presto di dominio pubblico e quando i compaesani incontravano i due giovani, la domanda era sempre la stessa: “Com’éla ‘ndacia chèla ölta con chèla cavra?”. E da allora quella baita fu per tutti la “baita della capra”.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Non c’è paese che non abbia la sua storia legata ad apparizioni del Diavolo, rappresentato con le fogge più bizzarre e con gli immancabili zoccoli bovini o caprini. Non fa eccezione Carona, dove si racconta la vicenda che diede il nome a quella che è nota oggi come la baita della capra. Due giovani cacciatori avevano trascorso un’intera giornata a caccia di camosci nella zona dell’attuale rifugio Calvi. La giornata era stata propizia perché dopo un lungo inseguimento avevano abbattuto un bell’esemplare di camoscio, ma poiché nel frattempo si era fatto tardi e sarebbe stato impossibile fare ritorno in paese prima del tramonto, decisero di passare la notte in una baita della zona, cosa che avevano fatto già altre volte. Sistematisi nella baita e acceso il fuoco nel camino, decisero di far abbrustolire sulla brace il fegato del camoscio e di mangiarselo per cena. Stando seduti attorno al fuoco, in attesa che il fegato fosse cotto a puntino, ripercorrevano gli avvenimenti della giornata: il paziente appostamento seguito dall’apparizione, sulla cima di un’alta rupe, della sagoma slanciata e imponente di un camoscio maschio, il successivo inseguimento tra dirupi, creste e canaloni, i due precisi colpi di carabina che avevano steso l’animale. Una bella giornata davvero, una di quelle che sarebbe stato più opportuno concludere in un’osteria, davanti a un fiasco di vino e in compagnia degli altri cacciatori di Carona e, magari, di una bella ragazza.

A un certo punto uno dei due giovani esclamò: “Oh, che bello sarebbe se adesso si aprisse la porta ed entrasse quella tipa, allora sì che ci divertiremmo!”. “La serata sarebbe proprio perfetta” convenne l’altro che ben conosceva le qualità della “tipa” a cui alludeva il compare, una ragazza del paese, piuttosto chiacchierata per non essere proprio una santarellina. Strano a dirsi, il sogno dei due giovani si realizzò in un batter d’occhio: qualcuno bussò e, aperta la porta della baita, si presentò nientemeno che la ragazza appena evocata. I due cacciatori rimasero a bocca aperta per la sorpresa, al punto che, tutti occupati ad accogliere nel migliore dei modi l’ospite inattesa, dimenticarono di controllare il fegato che rischiava di abbrustolire oltre il dovuto. Se ne accorse la ragazza che li richiamò: “Ultì chel fìdec, che ‘l brüsa!”. Ma la voce che le era uscita dalla bocca aveva un non so che di sinistro che contrastava con i lineamenti delicati del suo viso.

Il particolare non sfuggì al più attento dei due cacciatori il quale, mentre stava avvicinandosi al fuoco per rigirare il fegato, notò con spavento che da sotto la lunga gonna spuntavano un paio di zoccoli di capra. Ormai non c’erano più dubbi: quella “tipa” era il Diavolo in persona! Un brivido di terrore corse giù per la schiena del giovane, che tuttavia seppe conservare un po’ di sangue freddo. Quanto bastava a far rispondere a tono all’ordine dell’ormai indesiderata ospite: “Se ‘l brüsa, làghel brüsà!”. Poi, preso per un braccio il compagno ancora ignaro di tutto, lo trascinò fuori dalla baita e via di corsa verso casa, incuranti del buio e dei pericoli, dimentichi del camoscio e dei sogni proibiti con l’unico desiderio di sfuggire alle grinfie del Diavolo. La loro avventura divenne presto di dominio pubblico e quando i compaesani incontravano i due giovani, la domanda era sempre la stessa: “Com’éla ‘ndacia chèla ölta con chèla cavra?”. E da allora quella baita fu per tutti la “baita della capra”.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Nel paese di Spino al Brembo, in comune di Zogno, viveva un vedovo con due figli, una bambina di cinque anni e un ragazzo di otto. L’uomo solo da tempo, pensava che gli occorreva in casa una donna e che avrebbe dovuto risposarsi. Finche’ un giorno incontrò una vedova, che a sua volta aveva due figli; proprio come lui, cioè un ragazzo e una ragazza, e se la sposò. La donna era piuttosto brutta di carattere invidioso e malevolo e così erano anche i suoi figli. Quando fu sposato accade che la donna voleva bene soltanto ai suoi figli e ai figli del vedovo, che erano belli e bravi, non dava nulla da mangiare e dava invece sferzate con la verga.

Quando tornava a casa il padre, la donna non faceva che dire male dei suoi figli e diceva che erano cattivi e lazzaroni e lui ci credeva. Allora per punizione venivano sgridati e mandati a letto senza cena; e loro che non avevano colpa, salivano le scale piangendo ed invocando la loro mamma, che era morta. La matrigna, e i suoi due figli, erano contenti della punizione e ridevano dietro le spalle dei poveretti. Durante la notte i due bambini sognavano gli spiriti; udivano dei versacci e sentivano qualcuno che batteva alla porta: si ritiravano in un angolo a piangere e morivano per la paura. Ma chi batteva la porta, chi faceva loro paura ? Era la matrigna, che in realtà era una strega, che si trasformava ogni notte in un cane rabbioso, in un gatto soriano, in una cornacchia che emetteva dei belati come capra < sbregola> . Tutto questo per intimorire i due bambini. Ma accadde un giorno, essendo andati i fanciulli a far legna nel bosco, s’erano fermati al ritorno davanti ad una chiesina di campagna per riposare e deporre le fascine di legna.

Intorno c’era un prato tutto fiorito; e loro raccolsero un bel mazzetto di fiori e lo posero davanti al cancello della chiesina per darlo alla madonna. Poi stando vicini e piangenti si misero a pregare e raccontarono alla madonna tutto quello che loro accadeva di notte, le loro paure e il loro pianto. La madonna sembrava guardarli e sorridere; e loro con l’impressione che quel sorriso li avrebbe protetti, se ne tornavano a casa molto contenti. Arrivati a casa, sulla porta trovano la matrigna e i suoi due figli che si divertivano giocando; loro depongono la legna e vogliono partecipare al gioco; ma la matrigna li fa subito rientrare in casa a fare i mestieri e li impegna fino a tarda sera; poi da loro un po’ di minestra e subito li manda a dormire. Ad alta notte, la matrigna si levò senza far rumore e col suo potere di strega si trasformò in un cane rabbioso; stava per andare nella stanza dei bambini; quando la madonna provocò nel padre un brutto sogno. L’uomo spaventato si leva dal letto prende il suo bastone ed esce a cercare il cane rabbioso che aveva sognato.

Lo vede innanzi alla porta dei suoi figli e si mette a dargli bastonate di santa ragione; e dopo averlo così battuto con un calcio lo fa ruzzolare giù dalle scale. Quando il cane arrivò in fondo alle scale, scoppio’ una gran fiammata e un gran fumo. Ma che cosa vide allora il padre ? Vide la sua donna che si lamentava e piangeva per le bastonate ricevute. E dopo un certo tempo la donna muore, e quando e’ morta si trasforma in una strega, con gli occhi accesi e spiritati, e vola via. L’uomo finalmente si rese conto dei fatti, risalì dai suoi figli e li trovò piangenti e spaventati; e vedendoli così miseri e soli si mise a piangere anche lui e li abbracciò e li baciò teneramente. E dopo questo avvenimento non li lasciò più soli né di giorno né di notte; così i suoi figli crebbero sani e contenti. Quanto agli altri due, i figli della strega, furono cacciati di casa e per nutrirsi dovettero ridursi a medicare.

Il lupo di Stabello

Mancavano pochi giorni a Natale e una coltre di soffice neve aveva imbiancato il paese che aveva assunto l’aspetto di un minuscolo presepe. La gente sentiva nel cuore la gioia per la festa imminente e anche le stelle, riapparse nel cielo dopo la nevicata, sembravano splendere di una luce più intensa e gioiosa. La luna rischiarava la strada lungo la quale camminavano due fratellini, accompagnati dal loro cagnolino, un cocker dal pelo fulvo e setoso, per andare alla stalla a prendere il latte. Il più grandicello, Luigino, teneva per mano Beppino, più piccolo di lui di tre anni, per evitare che scivolasse sulla neve e facesse un capitombolo sulla strada. Il cane, dando sfogo a tutta la sua voglia di libertà, correva felice avanti e indietro, incurante del freddo pungente, annusando tutti i buchi e strisciando il fulvo pelo sulla neve, sordo ai richiami dei due padroncini. “Full, dove sei? Non ti vedo più” gridava Luigino preoccupato per il fatto che erano piuttosto lontani da casa e ad un’ora alquanto insolita. La mamma, infatti, aveva incaricato per tempo di questo piccolo servizio quotidiano i due bambini, i quali, però, attratti dalla nevicata, si erano attardati a giocare e divertirsi per strada, lanciandosi palle di neve e costruendo un grande pupazzo, finché erano stati sorpresi dal buio.

Finalmente, intirizziti dal freddo, perchè i loro cappottini di lana erano fradici, i due fratelli si erano presi per mano e, seguiti dal cane, si erano avviati verso la stalla, arrivando quando il contadino stava ormai portando a termine il suo lavoro. Entrando nella stalla furono accolti dal calore umidiccio delle mucche che, munte e alimentate a dovere, stavano riposando e ruminavano tranquillamente. Luigino e Beppino salutarono il contadino che stava sistemando gli attrezzi utilizzati per la mungitura, si levarono i cappottini bagnati e si buttarono con un gridolino di gioia su un mucchio di fieno, secco e profumato, imitati dal cane, che subito si diede ad arrotolarvisi con evidente piacere. Ultimate le sue faccende, il contadino riempì di latte il pentolino, facendone assaggiare ai due fratelli una tazza coperta da morbida e tiepida schiuma prodotta dalla mungitura. I due lo sorseggiarono con gusto, deridendosi a vicenda per i grandi baffi lasciati dalla schiuma sui loro volti arrossati, poi ne diedero a Full, che lo sorbì con non minore piacere. Finalmente ripresero la via di casa. Ma non avevano fatto che pochi passi, quando il bosco risuonò di un terribile ululato che li fece sobbalzare dallo spavento. Luigino e Beppino si strinsero l’un l’altro tremanti, il cane arruffò il pelo, mise la coda tra le zampe e ringhiò, più per paura che per intento aggressivo, cercando rifugio tra le gambe dei ragazzi. Il contadino, che aveva sentito l’ululato, si affacciò all’uscio della stalla, alquanto preoccupato, mentre una certa inquietudine serpeggiava anche tra le mucche. Notati i bambini, che erano ancora piuttosto vicini, li chiamò e cercò di rassicurarli: “Non preoccupatevi, bambini, si tratta solo di un cane che non riesce ad addormentarsi, ma non c’è nulla da temere, andate a casa, svelti!”. Un pochino rincuorati, Luigino e il fratello, sempre con il cane incollato alle loro gambe, ripresero a camminare nella notte gelida.

Ma il contadino, che non credeva a quanto lui stesso aveva appena detto, pensò bene di seguirli da lontano per un po’. “Quell’ululato non mi piace – mormorava tra sé – vorrei sbagliarmi ma temo che si tratti di un lupo, e se è così, i due piccoli corrono un serio pericolo”. Ormai i piccoli nottambuli erano arrivati a metà strada e dovevano attraversare un ponticello posto sopra la valle. Ed ecco, in mezzo al ponte, una terribile sorpresa: un lupo enorme, grosso come un vitello, con la bocca aperta e la lingua a penzoloni, gli occhi fiammeggianti, la coda tesa e il pelo ritto! Aveva una gran fame e alla vista dei tre pregustò il piacere di un pranzo con i fiocchi. Aveva solo l’imbarazzo della scelta: chi avrebbe divorato per primo? I due fratellini, si fermarono atterriti e incapaci di qualsiasi reazione. Il lupo si avvicinò con le grandi fauci spalancate grondanti di saliva, pronto a sbranare uno dei due.

Ma a questo punto accadde un fatto imprevedibile: il cagnolino, che fino a quel momento era parso spaventatissimo, spinto dal desiderio di salvare i padroncini, si fece avanti e si piazzò proprio in faccia al lupo, abbaiando furiosamente e facendo strane giravolte che sollevavano ampi spruzzi di neve. Il lupo, infastidito per quella insolita manovra, fece un paio di tentativi per allontanare il cagnetto, cercando di colpirlo con le sue poderose zampe, ma siccome quello continuava a fronteggiarlo senza cedimenti, gli si avventò contro e lo divorò in un sol boccone, sotto lo sguardo atterrito dei bambini. Proprio in quel momento sopraggiunse il contadino e, visto che il lupo non si accontentava del cane, ma stava già cercando di assalire uno dei bambini, lo affrontò senza paura, gli infilò un braccio nella gola e ancora più giù, fino a prendergli la coda, poi, tirando la coda all’interno rivoltò l’animale, come si farebbe con un calzino, mettendo a nudo le interiora della belva. Ed ecco, con grande sorpresa, venir fuori dalla pancia rovesciata il cagnolino, ancora vivo e tutto intero. La gioia dei due fratellini fu grande: abbracciarono il loro Full, ringraziarono il contadino e se ne tornarono a casa a raccontare a mamma e papà quella straordinaria avventura, promettendo che da quel giorno non si sarebbero più attardati per strada fino a tarda sera.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Mancavano pochi giorni a Natale e una coltre di soffice neve aveva imbiancato il paese che aveva assunto l’aspetto di un minuscolo presepe. La gente sentiva nel cuore la gioia per la festa imminente e anche le stelle, riapparse nel cielo dopo la nevicata, sembravano splendere di una luce più intensa e gioiosa. La luna rischiarava la strada lungo la quale camminavano due fratellini, accompagnati dal loro cagnolino, un cocker dal pelo fulvo e setoso, per andare alla stalla a prendere il latte. Il più grandicello, Luigino, teneva per mano Beppino, più piccolo di lui di tre anni, per evitare che scivolasse sulla neve e facesse un capitombolo sulla strada. Il cane, dando sfogo a tutta la sua voglia di libertà, correva felice avanti e indietro, incurante del freddo pungente, annusando tutti i buchi e strisciando il fulvo pelo sulla neve, sordo ai richiami dei due padroncini. “Full, dove sei? Non ti vedo più” gridava Luigino preoccupato per il fatto che erano piuttosto lontani da casa e ad un’ora alquanto insolita. La mamma, infatti, aveva incaricato per tempo di questo piccolo servizio quotidiano i due bambini, i quali, però, attratti dalla nevicata, si erano attardati a giocare e divertirsi per strada, lanciandosi palle di neve e costruendo un grande pupazzo, finché erano stati sorpresi dal buio.

Finalmente, intirizziti dal freddo, perchè i loro cappottini di lana erano fradici, i due fratelli si erano presi per mano e, seguiti dal cane, si erano avviati verso la stalla, arrivando quando il contadino stava ormai portando a termine il suo lavoro. Entrando nella stalla furono accolti dal calore umidiccio delle mucche che, munte e alimentate a dovere, stavano riposando e ruminavano tranquillamente. Luigino e Beppino salutarono il contadino che stava sistemando gli attrezzi utilizzati per la mungitura, si levarono i cappottini bagnati e si buttarono con un gridolino di gioia su un mucchio di fieno, secco e profumato, imitati dal cane, che subito si diede ad arrotolarvisi con evidente piacere. Ultimate le sue faccende, il contadino riempì di latte il pentolino, facendone assaggiare ai due fratelli una tazza coperta da morbida e tiepida schiuma prodotta dalla mungitura. I due lo sorseggiarono con gusto, deridendosi a vicenda per i grandi baffi lasciati dalla schiuma sui loro volti arrossati, poi ne diedero a Full, che lo sorbì con non minore piacere. Finalmente ripresero la via di casa. Ma non avevano fatto che pochi passi, quando il bosco risuonò di un terribile ululato che li fece sobbalzare dallo spavento. Luigino e Beppino si strinsero l’un l’altro tremanti, il cane arruffò il pelo, mise la coda tra le zampe e ringhiò, più per paura che per intento aggressivo, cercando rifugio tra le gambe dei ragazzi. Il contadino, che aveva sentito l’ululato, si affacciò all’uscio della stalla, alquanto preoccupato, mentre una certa inquietudine serpeggiava anche tra le mucche. Notati i bambini, che erano ancora piuttosto vicini, li chiamò e cercò di rassicurarli: “Non preoccupatevi, bambini, si tratta solo di un cane che non riesce ad addormentarsi, ma non c’è nulla da temere, andate a casa, svelti!”. Un pochino rincuorati, Luigino e il fratello, sempre con il cane incollato alle loro gambe, ripresero a camminare nella notte gelida.

Ma il contadino, che non credeva a quanto lui stesso aveva appena detto, pensò bene di seguirli da lontano per un po’. “Quell’ululato non mi piace – mormorava tra sé – vorrei sbagliarmi ma temo che si tratti di un lupo, e se è così, i due piccoli corrono un serio pericolo”. Ormai i piccoli nottambuli erano arrivati a metà strada e dovevano attraversare un ponticello posto sopra la valle. Ed ecco, in mezzo al ponte, una terribile sorpresa: un lupo enorme, grosso come un vitello, con la bocca aperta e la lingua a penzoloni, gli occhi fiammeggianti, la coda tesa e il pelo ritto! Aveva una gran fame e alla vista dei tre pregustò il piacere di un pranzo con i fiocchi. Aveva solo l’imbarazzo della scelta: chi avrebbe divorato per primo? I due fratellini, si fermarono atterriti e incapaci di qualsiasi reazione. Il lupo si avvicinò con le grandi fauci spalancate grondanti di saliva, pronto a sbranare uno dei due.

Ma a questo punto accadde un fatto imprevedibile: il cagnolino, che fino a quel momento era parso spaventatissimo, spinto dal desiderio di salvare i padroncini, si fece avanti e si piazzò proprio in faccia al lupo, abbaiando furiosamente e facendo strane giravolte che sollevavano ampi spruzzi di neve. Il lupo, infastidito per quella insolita manovra, fece un paio di tentativi per allontanare il cagnetto, cercando di colpirlo con le sue poderose zampe, ma siccome quello continuava a fronteggiarlo senza cedimenti, gli si avventò contro e lo divorò in un sol boccone, sotto lo sguardo atterrito dei bambini. Proprio in quel momento sopraggiunse il contadino e, visto che il lupo non si accontentava del cane, ma stava già cercando di assalire uno dei bambini, lo affrontò senza paura, gli infilò un braccio nella gola e ancora più giù, fino a prendergli la coda, poi, tirando la coda all’interno rivoltò l’animale, come si farebbe con un calzino, mettendo a nudo le interiora della belva. Ed ecco, con grande sorpresa, venir fuori dalla pancia rovesciata il cagnolino, ancora vivo e tutto intero. La gioia dei due fratellini fu grande: abbracciarono il loro Full, ringraziarono il contadino e se ne tornarono a casa a raccontare a mamma e papà quella straordinaria avventura, promettendo che da quel giorno non si sarebbero più attardati per strada fino a tarda sera.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Il Fienile della Pastora, è la prima stalla al di là del Ponte di Poscante e la gente diceva che lì dentro abitava una strega. E quando passavano da quel luogo, mettevano il ditone della mano destra tra l’indice e il medio, perché quello era un segno contro l’influenza maligna di quella strega che abitava nella stalla. Questa strega si aggirava per le vallette con in mano un tridente per acchiappare sirgagnole e topi per mangiare; e come frutta mangiava pastura di sabucco e pungitopo e beveva acqua marcia di stagno e quando si fermava, tutte le mosche le volavano addosso per l’odore che emanava.

S’aggirava per prati, dietro alle stalle e intorno alle case per stregare vacche cavalli porcelli e tutti gli animali domestici che vedeva. E andava anche nei boschi e tutti i nidi di uccelli che vedeva li abbatteva a sassate e uccideva tutte le bestie che trovava vaganti libere sulla madre terra. Un inverno un mandriano venuto dal Monte di Nese a Poscante per dar del fieno alle sue mucche, non sapeva che in quei posti girava la strega. Per di più il mandriano non aveva toccato il quadro del Sant’Antonio Abbandonato, che stava sulla porta della stalla e che è il protettore degli animali. La strega arriva sulla porta, e poi va dentro: e rapidamente tocca la pancia alle vacche che devono partorire. Arriva il mandriano nella stalla, s’accorge della strega e subito chiude la porta per non lasciarla scappare.

Prende in mano il tridente e, a colpi, batte e batte fin che l’ammazza. Ma le sue mucche, quelle da latte, son rimaste asciutte e ha dovuto abbatterle. E quelle che dovevano partorire sono morte nel parto. La gente di Poscante che e’ buona e di cuore, sia per il coraggio, sia per premiarlo perché li aveva liberati della strega, fece una raccolta di danaro in modo da ricompensarlo per il bestiame che aveva perduto. E la strega morta l’hanno trascinata giù dal pendio nel fondo della Valle e lì è stata coperta di ortiche e di spine.

La càvra del Zambèl

Una volta una bambina stava cucinando, mentre i genitori erano nei campi. Non avendo più sale per l’acqua della polenta, decise di andarlo a comprare alla bottega, ma durante la sua assenza nella casa si introdusse una capra bisbetica. Al ritorno, la bambina si accorse che qualcuno era entrato in cucina e dal corridoio chiese chi fosse. Per tutta risposta sentì una voce belante:

«Só la càvra del Zambèl
sènsa òs e sènsa pèl
con un corno gusso, gusso
e chi ègnerà dè dét
ghè ‘l daró ‘n dèl canarùsso.»

La bambina fu presa da un tale spavento che uscì di corsa dalla casa, poi in preda alla disperazione si sedette sui gradini dell’ingresso e si mise a piangere a dirotto. Passò di lì un tale che, messo al corrente dell’accaduto, cercò in tutti i modi di convincere la capra ad uscire dalla casa. Ma non ebbe successo: la capra, testarda, lo affrontò a cornate e ripeté la minacciosa filastrocca:

«Só la càvra del Zambèl
sènsa òs e sènsa pèl
con un corno gusso, gusso
e chi ègnerà dè dét
ghè ‘l daró ‘n dèl canarùsso.»

Anche l’uomo fu preso da grande spavento e si allontanò in fretta da quel luogo. La bambina, che ormai a forza di piangere non aveva più lacrime, fu colta da un improvviso e persistente tremore e, quando passò di lì un altro uomo, si affrettò a mettere anche questo al corrente della sua sventura.

Altro tentativo del nuovo arrivato di convincere la capra a lasciare la casa e nuova reazione risoluta e minacciosa dell’animale che ripeté la filastrocca e convinse il malcapitato a darsela a gambe. Finalmente arrivò un uccellino che cinguettando consolò la bambina e resosi conto della brutta situazione in cui si trovava, cercò di portarle aiuto, entrando in cucina e svolazzando freneticamente e a lungo attorno alla capra. Tuttavia non ottenne apprezzabili risultati, perché la capra, imperterrita, belò anche a lui quella strana filastrocca:

«Só la càvra del Zambèl…»

L’uccellino non si perse d’animo e non appena la capra ebbe concluso la sua minaccia belante, le rispose a tono cinguettando minaccioso:

«E me só l’uselì dèl bèc istòrt
e se ta ègnet miga de fò söbet
te l’ casseró ‘n dèl còrp!»

A quelle parole la capra, terrorizzata, se la diede a… zampe levate e così l’uccellino e la bambina poterono rientrare in casa dove mangiarono allegramente tutto quello che trovarono nella madia.

«E i à fàcc pastì e pastù
e i ma n’a ‘nvidàt gnà ü bucù.
Me sére sóta ‘l tàol a mundà ‘l rìs
e i m’a gnà décc:
Gioanìna, öt de bìf?»

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Una volta una bambina stava cucinando, mentre i genitori erano nei campi. Non avendo più sale per l’acqua della polenta, decise di andarlo a comprare alla bottega, ma durante la sua assenza nella casa si introdusse una capra bisbetica. Al ritorno, la bambina si accorse che qualcuno era entrato in cucina e dal corridoio chiese chi fosse. Per tutta risposta sentì una voce belante:

«Só la càvra del Zambèl
sènsa òs e sènsa pèl
con un corno gusso, gusso
e chi ègnerà dè dét
ghè ‘l daró ‘n dèl canarùsso.»

La bambina fu presa da un tale spavento che uscì di corsa dalla casa, poi in preda alla disperazione si sedette sui gradini dell’ingresso e si mise a piangere a dirotto. Passò di lì un tale che, messo al corrente dell’accaduto, cercò in tutti i modi di convincere la capra ad uscire dalla casa. Ma non ebbe successo: la capra, testarda, lo affrontò a cornate e ripeté la minacciosa filastrocca:

«Só la càvra del Zambèl
sènsa òs e sènsa pèl
con un corno gusso, gusso
e chi ègnerà dè dét
ghè ‘l daró ‘n dèl canarùsso.»

Anche l’uomo fu preso da grande spavento e si allontanò in fretta da quel luogo. La bambina, che ormai a forza di piangere non aveva più lacrime, fu colta da un improvviso e persistente tremore e, quando passò di lì un altro uomo, si affrettò a mettere anche questo al corrente della sua sventura.

Altro tentativo del nuovo arrivato di convincere la capra a lasciare la casa e nuova reazione risoluta e minacciosa dell’animale che ripeté la filastrocca e convinse il malcapitato a darsela a gambe. Finalmente arrivò un uccellino che cinguettando consolò la bambina e resosi conto della brutta situazione in cui si trovava, cercò di portarle aiuto, entrando in cucina e svolazzando freneticamente e a lungo attorno alla capra. Tuttavia non ottenne apprezzabili risultati, perché la capra, imperterrita, belò anche a lui quella strana filastrocca:

«Só la càvra del Zambèl…»

L’uccellino non si perse d’animo e non appena la capra ebbe concluso la sua minaccia belante, le rispose a tono cinguettando minaccioso:

«E me só l’uselì dèl bèc istòrt
e se ta ègnet miga de fò söbet
te l’ casseró ‘n dèl còrp!»

A quelle parole la capra, terrorizzata, se la diede a… zampe levate e così l’uccellino e la bambina poterono rientrare in casa dove mangiarono allegramente tutto quello che trovarono nella madia.

«E i à fàcc pastì e pastù
e i ma n’a ‘nvidàt gnà ü bucù.
Me sére sóta ‘l tàol a mundà ‘l rìs
e i m’a gnà décc:
Gioanìna, öt de bìf?»

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Tanti anni fa in una grotta sul monte Secco, in quel di Piazzatorre, viveva un tipo assai strano, che non si faceva mai vedere in paese, ma passava le sue giornate a lavorare nel bosco, tagliando la legna ed allevando qualche capra da cui ricavava quel poco latte che gli serviva per tenersi in vita. Era vestito rozzamente, con una grossa maglia di lana grezza, dei pantaloni di fustagno pieni di toppe e un paio di zoccoli chiodati da cui spuntavano le dita dei piedi malamente coperte da calzini lisi e bucati da più parti. Particolare curioso ed inspiegabile del suo abbigliamento erano i cappellacci, ben sette, che teneva sempre calcati in testa, uno sopra l’altro, e di cui non si separava mai, forse nemmeno quando si coricava sullo sporco pagliericcio che gli fungeva da letto. Un giorno accadde che un cacciatore di Piazzatorre cercasse il suo cane che si era perso sulla montagna durante una lunga e infruttuosa battuta di caccia alla lepre. Calata la sera e fattosi buio, il cacciatore non poté proseguire le ricerche e decise di passare la notte al riparo di una vecchia e sgangherata baita che era già stata il suo provvidenziale rifugio qualche anno prima, durante un furioso temporale.

Benché stanco per la lunga camminata, ebbe difficoltà a prendere sonno, sia perché si era dovuto sdraiare sul freddo e nudo pavimento della baita, ma soprattutto perché era preoccupato per il suo cane, un segugio dal pelo fulvo e dagli occhi cristallini, sempre in movimento e in cerca di qualche avventura, che tuttavia non si era mai allontanato dal suo padrone più di qualche ora, tornando sempre alla sua cuccia, specie quando c’era da assaporare qualche gustoso bocconcino che il padrone gli propinava come premio dei suoi successi venatori. Finalmente la stanchezza ebbe il sopravvento e il cacciatore riuscì ad addormentarsi, ma nel colmo della notte si svegliò di soprassalto: gli era parso di udire in lontananza il guaito disperato del suo cane, il richiamo lamentoso dell’animale in pericolo. Si alzò, uscì dalla baita, tese l’orecchio e rimase in ascolto, ma nessun rumore proveniva dal bosco, se non il flebile scroscio di un ruscello e il richiamo rauco e lugubre di una civetta, ripetuto stancamente ad intervalli regolari. Trascorso parecchio tempo e convintosi di aver sognato, rientrò nella baita, ma non ci fu verso di riaddormentarsi. Così, ai primi chiarori dell’alba, lasciò il suo rifugio notturno e si inoltrò nel bosco per riprendere le ricerche del cane. A un certo punto, dopo un paio d’ore di inutile girovagare senza una meta precisa, si ricordò di quello strano personaggio dai sette cappelli che gli era capitato qualche rara volta di intravedere ai margini del bosco e che al suo apparire si era affrettato a nascondersi nel fitto degli alberi. La dimora di quel tipo così poco socievole doveva essere in quella zona e forse il cane, stanco e affamato, aveva trovato ospitalità presso di lui. Non si sbagliava: l’uomo dai sette cappelli viveva proprio da quelle parti. Ma sarebbe stato meglio che vivesse migliaia di chilometri più lontano, perché il cacciatore lo incontrò, finalmente, nel fitto del bosco, appena dietro una siepe di arbusti e rovi.

E si trattò di un incontro drammatico. La scena che gli si presentò era terrificante: l’uomo dai sette cappelli, tutto sporco di sangue, era seduto a cavalcioni di un grosso tronco posto all’ingresso della grotta e con un lungo coltellaccio stava facendo a pezzi un animale, divorandone avidamente la carne, cruda e sanguinante. Ci volle solo un attimo al cacciatore per accorgersi che la povera preda dell’uomo dai sette cappelli era un cane, il suo fido segugio! Fuori di sé dal dolore e dalla rabbia, si slanciò contro quell’individuo, con furia omicida, ma l’altro si alzò di scatto e gli si rivoltò contro, minaccioso, brandendo il coltello e cercando di colpirlo. Per fortuna il primo fendente andò a vuoto e ciò consentì al cacciatore di portarsi momentaneamente fuori tiro, ma poiché l’altro continuava a rincorrerlo, intenzionato ad ammazzarlo, dovette darsela a gambe e non si fermò finché non ebbe raggiunto il limitare del bosco. Poi, ormai in salvo, riprese mestamente la via di casa, con l’animo angosciato per quanto era successo a lui e al suo povero cane. A Piazzatorre però la sua storia non fu creduta e tutti ritenevano che la macabra visione che il cacciatore continuava a descrivere nei minimi particolari fosse solo frutto della sua fantasia, magari innaffiata con qualche bicchiere di troppo. Gli amici dell’osteria, con i quali trascorreva le serate a giocare a carte, iniziarono a prendersi gioco di lui e a trattarlo da visionario.

Quanto al cane, che non aveva ovviamente più fatto ritorno, cercavano di tranquillizzarne il proprietario sostenendo che si era preso una vacanza avventurosa e che avrebbe ben presto fatto ritorno a casa, una volta spenti i bollori della scappatella con qualche cagnetta dei paesi vicini. Così, col passare dei giorni anche il cacciatore finì per convincersi di essersi sognato tutto e tornò a nutrire una pur timida speranza nel ritorno del suo cane. Ma avvicinandosi la brutta stagione, uno di quegli amici che avevano tanto deriso il malcapitato cacciatore, forse il più incredulo, si trovò un giorno, sul far del tramonto, a passare dalle parti del monte Secco. Era salito fin lassù in cerca di funghi che in autunno crescono abbondanti in quella zona. Inoltratosi nel bosco, giunse senza saperlo vicino alla grotta dell’uomo dai sette cappelli. Alzato lo sguardo, rimase impietrito dalla scena che apparve ai suoi occhi: l’uomo dai sette cappelli era lì, davanti a lui, e cercava di tenere a bada tre lupi famelici che ringhiando sinistramente stavano dilaniando il cadavere di un povero uomo. L’orribile spettacolo paralizzò il cercatore di funghi che per un attimo si sentì perduto. Per fortuna la sua presenza passò inosservata, così, con grande cautela, riuscì ad allontanarsi e a darsi a precipitosa fuga verso casa.

Gli ci volle parecchio tempo per riprendere l’orientamento; ormai si era fatto buio e procedeva a tentoni nel fitto della boscaglia. La luna filtrava tra gli alberi e proiettava sul terreno ombre terrificanti di mostri che sembravano ghermirlo con poderose zampe munite di artigli affilati e il vento contribuiva a questo gioco spaventoso, rendendo i fantasmi del bosco più sinuosi ed angoscianti. Più morto che vivo, arrivò in paese, chiamò alcuni amici, tra cui il cacciatore che aveva perso il cane, raccontò loro la sua terribile esperienza e li convinse ad organizzare una battuta di caccia al mostro del monte Secco. Con precauzione e in preda a una sorda paura, il mattino seguente il gruppetto raggiunse le pendici della montagna, penetrò nel bosco e arrivò fino alla grotta. All’esterno, seduto sul tronco dell’albero, c’era l’uomo dai sette cappelli che stava consumando il suo orrido pasto con i resti umani lasciati dalle tre belve, le quali, ormai sazie, sonnecchiavano sdraiate ai suoi piedi. Una nutrita scarica di fucilate squarciò il silenzio della montagna. Raggiunto da numerosi colpi, l’uomo dai sette cappelli ebbe ancora la forza di alzarsi, rimase un attimo in piedi, con uno sguardo dolorosamente stupito, poi stramazzò al suolo senza un lamento. Anche i lupi, colpiti a morte nel sonno, si accasciarono in una pozza di sangue. Poi, con grande sorpresa dei cacciatori, l’uomo e le bestie scomparvero sotto terra senza lasciare la minima traccia della loro presenza. I cacciatori, dopo aver a lungo, ma inutilmente cercato qualche indizio che rivelasse l’identità di quel misterioso individuo, se ne tornarono a Piazzatorre dove raccontarono l’accaduto. Da allora questa storia viene sempre narrata dai nonni ai loro nipotini nelle lunghe serate d’inverno, e anche adesso che la televisione ha cancellato il gusto di ascoltare le storie, c’è ancora qualche bambino che di notte sogna brutti incontri con l’uomo dai sette cappelli.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

L’homo salvadego e la cavra sbrègiola

Di lui ormai non resta che il ricordo, appena ravvivato dalla sbiadita raffigurazione di qualche affresco scrostato, ma ci fu un tempo in cui questa entità misteriosa e inquietante accompagnava con la sua presenza minacciosa la vita di generazioni di valligiani. Stiamo parlando dell’homo salvadego, noto da noi anche con il semplice appellativo di salvàdec, figura tipica delle comunità alpine, personificazione di un individuo a metà tra l’animale e l’uomo, propria di quasi tutte le culture antiche e sopravvissuta ai giorni nostri in qualche area esotica. La sua immagine è inconfondibile e si propone allo stesso modo, salvo qualche semplice variante, presso tutte le comunità. L’homo salvadego era una creatura robusta, dal corpo interamente coperto di pelo spesso e irsuto, quasi fosse un residuo di uomo-scimmia. Viveva solitario, allo stato selvaggio, nel folto dei boschi disseminati sulle pendici delle montagne, dimorava nelle grotte o nell’incavo dei tronchi d’albero, si nutriva di bacche e frutti del sottobosco e di animali, che cacciava con il suo nodoso randello che portava sempre in spalla e che suscitava lo spavento di chi aveva la ventura di incontrarlo nelle rare e fuggenti occasioni in cui accadeva che si avvicinasse ai luoghi abitati.

Malgrado l’aspetto terrificante, pare che non fosse poi così nocivo come lo si è voluto descrivere: presso qualche comunità lo si identificava, infatti, come una sorta di Polifemo, dedito all’allevamento, all’attività casearia e all’apicoltura. Altri lo ritenevano addirittura un educatore: nelle vallate trentine era chiamato sanguanèl e si riteneva che rapisse i bambini per poi allevarli amorevolmente, insegnando loro le più semplici arti agresti. La sua propensione a rapire i bambini è però legata, dalle nostre parti, alla più diffusa immagine dell’orco che, come si è visto, imperversava un po’ in ogni paese. La tradizione ha ricamato su questo individuo una serie di leggende di cui si sono quasi del tutto perse le tracce, salvo i generici riferimenti all’orco o all’uomo nero. “Chi ha paura dell’uomo nero?” gridavano fino a qualche anno fa i ragazzi dei nostri paesi di montagna all’indirizzo di uno di loro, scelto a turno per ricoprire il ruolo di una creatura rozza e sinistra, fermamente intenzionata a rapire e divorare il primo che le capitava a tiro. Il riferimento più concreto alla figura dell’homo salvadego in territorio brembano si trova nell’affresco posto all’ingresso della casa di Arlecchino, a Oneta di Valtorta. L’irsuto personaggio, munito di un grosso bastone, è posto a guardia dell’edificio e, come recita il cartiglio, minaccia di prendere a randellate eventuali malintenzionati:

Chi non è de chortesia,
non intragi in chasa ma;
se ge venes un poltron,
ce darò col mio baston.

Collegato al mito dell’homo salvadego è quello della cavra sbrègiola, altrove detta anche cavra bèsola, una sorta di misterioso caprone sulla cui esistenza tutti erano pronti a scommettere, ma che nessuno aveva mai visto. Sembra che questo ipotetico animale girovagasse lungo i dirupi montani emettendo belati striduli e insistenti e che avesse il brutto vizio di rapire i bambini cattivi e portarseli nella tana per divorarli. Sia l’homo salvadego che la cavra sbrègiola svolgevano però anche un ruolo positivo: a loro era attribuita l’importante funzione di custodi della natura contro le offese dell’uomo. In tale accezione, mai come oggi ci sarebbe bisogno di creature della loro specie!

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Di lui ormai non resta che il ricordo, appena ravvivato dalla sbiadita raffigurazione di qualche affresco scrostato, ma ci fu un tempo in cui questa entità misteriosa e inquietante accompagnava con la sua presenza minacciosa la vita di generazioni di valligiani. Stiamo parlando dell’homo salvadego, noto da noi anche con il semplice appellativo di salvàdec, figura tipica delle comunità alpine, personificazione di un individuo a metà tra l’animale e l’uomo, propria di quasi tutte le culture antiche e sopravvissuta ai giorni nostri in qualche area esotica. La sua immagine è inconfondibile e si propone allo stesso modo, salvo qualche semplice variante, presso tutte le comunità. L’homo salvadego era una creatura robusta, dal corpo interamente coperto di pelo spesso e irsuto, quasi fosse un residuo di uomo-scimmia. Viveva solitario, allo stato selvaggio, nel folto dei boschi disseminati sulle pendici delle montagne, dimorava nelle grotte o nell’incavo dei tronchi d’albero, si nutriva di bacche e frutti del sottobosco e di animali, che cacciava con il suo nodoso randello che portava sempre in spalla e che suscitava lo spavento di chi aveva la ventura di incontrarlo nelle rare e fuggenti occasioni in cui accadeva che si avvicinasse ai luoghi abitati.

Malgrado l’aspetto terrificante, pare che non fosse poi così nocivo come lo si è voluto descrivere: presso qualche comunità lo si identificava, infatti, come una sorta di Polifemo, dedito all’allevamento, all’attività casearia e all’apicoltura. Altri lo ritenevano addirittura un educatore: nelle vallate trentine era chiamato sanguanèl e si riteneva che rapisse i bambini per poi allevarli amorevolmente, insegnando loro le più semplici arti agresti. La sua propensione a rapire i bambini è però legata, dalle nostre parti, alla più diffusa immagine dell’orco che, come si è visto, imperversava un po’ in ogni paese. La tradizione ha ricamato su questo individuo una serie di leggende di cui si sono quasi del tutto perse le tracce, salvo i generici riferimenti all’orco o all’uomo nero. “Chi ha paura dell’uomo nero?” gridavano fino a qualche anno fa i ragazzi dei nostri paesi di montagna all’indirizzo di uno di loro, scelto a turno per ricoprire il ruolo di una creatura rozza e sinistra, fermamente intenzionata a rapire e divorare il primo che le capitava a tiro. Il riferimento più concreto alla figura dell’homo salvadego in territorio brembano si trova nell’affresco posto all’ingresso della casa di Arlecchino, a Oneta di Valtorta. L’irsuto personaggio, munito di un grosso bastone, è posto a guardia dell’edificio e, come recita il cartiglio, minaccia di prendere a randellate eventuali malintenzionati:

Chi non è de chortesia,
non intragi in chasa ma;
se ge venes un poltron,
ce darò col mio baston.

Collegato al mito dell’homo salvadego è quello della cavra sbrègiola, altrove detta anche cavra bèsola, una sorta di misterioso caprone sulla cui esistenza tutti erano pronti a scommettere, ma che nessuno aveva mai visto. Sembra che questo ipotetico animale girovagasse lungo i dirupi montani emettendo belati striduli e insistenti e che avesse il brutto vizio di rapire i bambini cattivi e portarseli nella tana per divorarli. Sia l’homo salvadego che la cavra sbrègiola svolgevano però anche un ruolo positivo: a loro era attribuita l’importante funzione di custodi della natura contro le offese dell’uomo. In tale accezione, mai come oggi ci sarebbe bisogno di creature della loro specie!

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Nel paese di Spino al Brembo, in comune di Zogno, viveva un vedovo con due figli, una bambina di cinque anni e un ragazzo di otto. L’uomo solo da tempo, pensava che gli occorreva in casa una donna e che avrebbe dovuto risposarsi. Finche’ un giorno incontrò una vedova, che a sua volta aveva due figli; proprio come lui, cioè un ragazzo e una ragazza, e se la sposò. La donna era piuttosto brutta di carattere invidioso e malevolo e così erano anche i suoi figli. Quando fu sposato accade che la donna voleva bene soltanto ai suoi figli e ai figli del vedovo, che erano belli e bravi, non dava nulla da mangiare e dava invece sferzate con la verga.

Quando tornava a casa il padre, la donna non faceva che dire male dei suoi figli e diceva che erano cattivi e lazzaroni e lui ci credeva. Allora per punizione venivano sgridati e mandati a letto senza cena; e loro che non avevano colpa, salivano le scale piangendo ed invocando la loro mamma, che era morta. La matrigna, e i suoi due figli, erano contenti della punizione e ridevano dietro le spalle dei poveretti. Durante la notte i due bambini sognavano gli spiriti; udivano dei versacci e sentivano qualcuno che batteva alla porta: si ritiravano in un angolo a piangere e morivano per la paura. Ma chi batteva la porta, chi faceva loro paura ? Era la matrigna, che in realtà era una strega, che si trasformava ogni notte in un cane rabbioso, in un gatto soriano, in una cornacchia che emetteva dei belati come capra < sbregola> . Tutto questo per intimorire i due bambini. Ma accadde un giorno, essendo andati i fanciulli a far legna nel bosco, s’erano fermati al ritorno davanti ad una chiesina di campagna per riposare e deporre le fascine di legna.

Intorno c’era un prato tutto fiorito; e loro raccolsero un bel mazzetto di fiori e lo posero davanti al cancello della chiesina per darlo alla madonna. Poi stando vicini e piangenti si misero a pregare e raccontarono alla madonna tutto quello che loro accadeva di notte, le loro paure e il loro pianto. La madonna sembrava guardarli e sorridere; e loro con l’impressione che quel sorriso li avrebbe protetti, se ne tornavano a casa molto contenti. Arrivati a casa, sulla porta trovano la matrigna e i suoi due figli che si divertivano giocando; loro depongono la legna e vogliono partecipare al gioco; ma la matrigna li fa subito rientrare in casa a fare i mestieri e li impegna fino a tarda sera; poi da loro un po’ di minestra e subito li manda a dormire. Ad alta notte, la matrigna si levò senza far rumore e col suo potere di strega si trasformò in un cane rabbioso; stava per andare nella stanza dei bambini; quando la madonna provocò nel padre un brutto sogno. L’uomo spaventato si leva dal letto prende il suo bastone ed esce a cercare il cane rabbioso che aveva sognato.

Lo vede innanzi alla porta dei suoi figli e si mette a dargli bastonate di santa ragione; e dopo averlo così battuto con un calcio lo fa ruzzolare giù dalle scale. Quando il cane arrivò in fondo alle scale, scoppio’ una gran fiammata e un gran fumo. Ma che cosa vide allora il padre ? Vide la sua donna che si lamentava e piangeva per le bastonate ricevute. E dopo un certo tempo la donna muore, e quando e’ morta si trasforma in una strega, con gli occhi accesi e spiritati, e vola via. L’uomo finalmente si rese conto dei fatti, risalì dai suoi figli e li trovò piangenti e spaventati; e vedendoli così miseri e soli si mise a piangere anche lui e li abbracciò e li baciò teneramente. E dopo questo avvenimento non li lasciò più soli né di giorno né di notte; così i suoi figli crebbero sani e contenti. Quanto agli altri due, i figli della strega, furono cacciati di casa e per nutrirsi dovettero ridursi a medicare.