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Autore: valbrembanaweb

Il Drago volante di Santa Brigida

Il Drago Volante (così chiamato) abitava nei dintorni di Santa Brigida oggi luogo di villeggiatura, ben noto a tanti. Nessuno sapeva però dove avesse la sua tana, quando appariva come una furia, scoperchiava i tetti delle case con lo sbattere delle ali e poi spariva non dimenticandosi pero’ di portarsi via qualche agnello o capretto. Quando poi il drago decideva di avventurarsi sulle sue prede di notte, si calava dal cielo tenendo tra le zampe 2 grosse gemme che utilizzava per illuminarsi il cammino. Un giorno un certo Bulgher, uomo forte e astuto, decise di sfidare il drago. Il Bulgher di Santa Brigida riuscì a scoprire dove il drago si rifugiava: le pendici del Monte Pugna.

Una notte quatto quatto con una cappa nera sulle spalle, salì sul pianoro e approfittando di un attimo di distrazione del drago si avventò su una delle due gemme fosforescenti ma appena la toccò lanciò un urlo mentre intorno a lui si scatenava l’inferno… vento e tempesta scuotevano gli alberi del bosco. Quella furia si placò solo al mattino, Bulgher più morto che vivo per lo spavento, tornò al paese di Santa Brigida con le mani ancora bruciacchiate e per cento e cento volte ripete’ quello che gli era successo e per secoli lo ripeterono i nonni ai loro nipoti.

Il Drago Volante (così chiamato) abitava nei dintorni di Santa Brigida oggi luogo di villeggiatura, ben noto a tanti. Nessuno sapeva però dove avesse la sua tana, quando appariva come una furia, scoperchiava i tetti delle case con lo sbattere delle ali e poi spariva non dimenticandosi pero’ di portarsi via qualche agnello o capretto. Quando poi il drago decideva di avventurarsi sulle sue prede di notte, si calava dal cielo tenendo tra le zampe 2 grosse gemme che utilizzava per illuminarsi il cammino. Un giorno un certo Bulgher, uomo forte e astuto, decise di sfidare il drago. Il Bulgher di Santa Brigida riuscì a scoprire dove il drago si rifugiava: le pendici del Monte Pugna.

Una notte quatto quatto con una cappa nera sulle spalle, salì sul pianoro e approfittando di un attimo di distrazione del drago si avventò su una delle due gemme fosforescenti ma appena la toccò lanciò un urlo mentre intorno a lui si scatenava l’inferno… vento e tempesta scuotevano gli alberi del bosco. Quella furia si placò solo al mattino, Bulgher più morto che vivo per lo spavento, tornò al paese di Santa Brigida con le mani ancora bruciacchiate e per cento e cento volte ripete’ quello che gli era successo e per secoli lo ripeterono i nonni ai loro nipoti.

Storie di briganti, più o meno famose e romanzesche, sono assai diffuse in tutta la Bergamasca, al punto che la loro narrazione potrebbe occupare un intero libro. In questa sede ci limitiamo a presentare solo alcuni esempi significativi, riferendo anche i casi documentati di due brigantesse che dimostrarono di non essere da meno dei loro più noti compari maschi. A metà dell’Ottocento imperversò in Val Taleggio il brigante Angelo Pessina, detto Tarfù. dal nome dialettale di una grossa larva che si annida nei tronchi degli alberi, di preferenza giovani noci, e si nutre della loro polpa, scavando lunghi cunicoli che arrecano danni gravi e talvolta irreparabili alla pianta. Essendo praticamente impossibile snidare il parassita senza danneggiare il legno, i contadini lo combattono introducendo nel cunicolo un tratto di miccia o uno stoppino imbevuto di liquido infiammabile a cui danno fuoco. Il Tarfù era arrivato in valle all’inizio del 1849, disertore dall’esercito austriaco, nelle cui fila aveva militato fino alla conclusione della guerra contro il Piemonte. L’esercito era in procinto di smobilitare e lui, come tanti altri, di fronte alla prospettiva di un lungo e ostile soggiorno in terra austriaca aveva preferito darsi alla macchia, cosa che del resto aveva già fatto, seppur per un breve periodo, tempo addietro. La Valle Taleggio parve al Pessina il luogo ideale per sfuggire alle ricerche delle forze dell’ordine: guai a farsi mettere le mani addosso dai gendarmi austriaci: essendo disertore recidivo, e per di più in stato di guerra, avrebbe rischiato la fucilazione.

All’inizio si era arrangiato alla meglio, in tutta solitudine, rubando nelle cascine lo stretto necessario per sopravvivere o dandosi alla cattura di uccelli, rane, lumache e quant’altro offrivano i boschi della valle. Ben presto, però, si accorse che ci poteva essere un altro e più redditizio mezzo per campare. Gli era capitato più volte di incontrare, nascosti nelle baite dell’Alben o del Baciamorti, degli sbandati o disertori suoi pari, gente che per un motivo o per l’altro aveva tutte le ragioni per stare alla larga dalla comunità civile, alcuni già dediti al brigantaggio organizzato, altri in procinto di aggregarsi in banda. Che cosa poteva rischiare il Pessina, diventando un brigante, oltre alla pena di morte già meritata con la diserzione? Tanto valeva vivere alla grande più a lungo che poteva, nella remota speranza che qualcosa potesse prima o poi cambiare. La prima rapina fu compiuta ai danni del parroco della Pianca, il quale fu aggredito nella sua canonica e derubato dei soldi e di altri oggetti di valore per l’importo di un migliaio di lire. Probabilmente il Tarfù ebbe in quella prima azione un ruolo subalterno, ma le sue doti di coraggio, l’abilità organizzativa e soprattutto la forte personalità lo portarono quasi subito alla guida del gruppo che verrà poi identificato col suo nome. Questa nuova leadership segnò un salto di qualità nelle successive imprese banditesche. Pochi giorni dopo l’aggressione al parroco della Pianca, la banda fu protagonista di un episodio clamoroso che ebbe per teatro il paese di Sottochiesa. Alla guida di una dozzina di briganti ben armati, il Tarfù penetrò nel municipio e sequestrò il sindaco Locatelli, chiedendo un riscatto di ben tredicimila lire.

Per tutta la giornata il paese rimase in balia dei malviventi che, per convincere la popolazione a consegnare il denaro, sottoposero il sequestrato a ripetuti maltrattamenti e minacce di morte. Alla fine le pretese dei sequestratori si ridussero a poco meno di duemila lire, che vennero effettivamente sborsate. Non senza che il Tarfù si prendesse un interesse supplementare, facendosi consegnare due marenghi d’oro dal vicesindaco, in cambio della garanzia che avrebbe usato la propria autorevole influenza sui compagni nel convincerli a ridimensionare le pretese. Ormai la banda era uscita allo scoperto: l’azione di Sottochiesa aveva rivelato l’identità dei suoi componenti e la polizia aveva spiccato mandati di cattura per ciascuno. Ma di tali mandati la banda Tarfù parve non tener minimamente conto, tanto è vero che mise a segno subito dopo un altro colpo. Calati su Cassiglio, in alta Valle Brembana, i malviventi assalirono l’abitazione di un commerciante e lo rapinarono di sedici talleri. Pochi giorni dopo fu la volta del santuario di Salzana, presso Pizzino, il cui cappellano fu fermato sul sagrato mentre era intento a leggere il breviario e costretto a consegnare i cinque franchi che aveva con sé. Dopo un periodo di oltre un anno, durante il quale dovettero cambiare aria per sfuggire alle attive ricerche dei gendarmi, il Tarfù e i suoi si rifecero vivi nell’agosto del 1850, a spese del parroco di Sottochiesa. Non che i preti, specie da quelle parti, fossero particolarmente ricchi, ma perché non erano pochi i parrocchiani che consegnavano al loro parroco i loro modesti gioielli di famiglia, ritenendo che nella canonica fossero al sicuro, senza contare poi le offerte che venivano fatte in chiesa.

Il parroco fece però in tempo a barricarsi in casa e i banditi non furono in grado di sfondare il robusto portone d’ingresso. Dopo aver cercato a lungo, ma inutilmente un’altra entrata, se ne dovettero andare, non prima però di aver fracassato a sassate alcuni vetri delle finestre. Poi la cattura, avvenuta verso l’autunno di quello stesso anno. La corte marziale lo dichiarò colpevole di duplice diserzione, oltre a rapine, furti e violenze e lo condannò a morte per impiccagione. La sentenza, confermata dal comando militare di Verona, venne eseguita a Bergamo il 28 gennaio 1851. Unica concessione del comando militare, la commutazione delle modalità di esecuzione: alla forca venne sostituita la fucilazione. Un tempo la mulattiera che da Zogno porta al Monte di Nese era assai praticata perché era uno dei percorsi più agevoli per raggiungere la Valle Seriana e Bergamo dalla Valle Brembana. Quanti si recavano da una valle all’altra per trasportare, a dorso di asino o mulo, i loro prodotti, erano soliti sostare in località Gromasnì, un piccolo spiazzo erboso vicino ad una fresca sorgente che sgorga ancora oggi abbondante. Non di rado quello spiazzo era luogo d’incontro e scambio di merci tra mercanti, una specie di mercato dove i prodotti portati dalla città venivano scambiati con quelli delle vallate. Nel 1848 quel luogo fu teatro di un sanguinosa rapina compiuta da una banda di briganti capeggiati da una donna. Vittima della rapina, conclusasi tragicamente, fu Giovan Battista Calvi, un contadino di Poscante il quale si era recato a Bergamo, attraverso la strada del Monte di Nese, per vendere una sua mucca. Passando per Valtesse, era stato notato dalla levatrice del paese, la stessa che faceva servizio anche a Poscante. Costei, appurato che il contadino sarebbe stato di ritorno in serata, senza la mucca, ma con un bel gruzzolo di almeno duecento lire, corse ad avvertire i briganti dell’imminente possibilità di fare un po’ di soldi senza troppe complicazioni. Fu così che levatrice e briganti si appostarono nei pressi della sorgente di Gromasnì, in attesa del ritorno del Calvi, il quale infatti a tarda sera aveva preso la strada di casa, assieme a un compaesano.

Giunto al luogo dell’agguato, il Calvi fu facilmente immobilizzato dai briganti, che erano mascherati e per di più protetti dal buio. Lasciato andare il compagno, si diedero a perquisire il Calvi per sottrargli il denaro, ma il malcapitato, nel tentativo di sottrarsi alla rapina, strappò la maschera alla levatrice e la riconobbe. Costei, allora, per non farsi denunciare, cavò di tasca un lungo coltello e glielo conficcò in un fianco, poi si diede alla fuga con il resto della compagnia, convinta di averlo ucciso. Nel frattempo il compagno di viaggio era giunto a Poscante ed aveva dato l’allarme. I parenti e gli amici del rapinato si precipitarono a prestargli soccorso, ma lo trovarono ormai dissanguato e in fin di vita. Prima di spirare il poveretto ebbe però il tempo di denunciare la colpevole, che pochi giorni dopo venne arrestata, condannata a morte ed impiccata sugli spalti della Fara a Bergamo. Fu l’ultima esecuzione della giustizia austriaca prima delle rivolte patriottiche del 1848. La storia di un’altra brigantessa è ambientata nella media Valle Seriana e precisamente ad Abbazia di Albino dove c’era un’osteria gestita da un’ostessa talmente bella e gentile da richiamare nel locale la migliore clientela della zona. L’ostessa si intratteneva volentieri a chiacchierare con gli avventori e sempre si dimostrava disponibile verso ogni loro esigenza, ma sotto l’apparenza così a modo si celava una ben diversa realtà: la donna era niente meno che a capo di una banda di briganti i quali imperversavano nella media valle e tenevano la base operativa in una caverna del monte Misma, dove nascondevano il bottino e si riunivano per progettare nuove aggressioni ai danni dei malcapitati viandanti che percorrevano le buie strade della zona.

L’ostessa, di notte, si travestiva da uomo e con i capelli che le coprivano le guance simulava una lunga barba biondiccia. Tuttavia non era proprio così malvagia come potrebbe sembrare, infatti, quando nella sua osteria capitava qualche individuo che le andava a genio, faceva di tutto per convincerlo a non inoltrarsi di notte lungo strade deserte e sconosciute e in tal modo gli evitava di cadere nelle mani dei briganti. Ovviamente questo strano comportamento dell’ostessa riguardava solo gli avventori a lei simpatici e solitamente persone giovani ed eleganti, mentre per tutti gli altri non c’era scampo. Fortunato fu quel giovane medico che si era fermato all’osteria per bersi un bicchiere di vino ed essendo ormai prossima la notte fu più volte avvertito dalla donna di non mettersi in viaggio a quell’ora, perché correva il rischio di brutti incontri. Ma siccome il medico non voleva saperne e insisteva per riprendere il viaggio, avendo urgenza di visitare alcuni suoi pazienti, l’ostessa volle a tutti i costi farlo accompagnare da un suo figliolo. La mattina dopo giunse notizia di una sanguinosa aggressione compiuta dalla solita banda ai danni di alcuni mercanti di ritorno dalla fiera di Bergamo. La rapina era stata compiuta proprio lungo la strada dove era da poco transitato anche il giovane medico, il quale ne era però uscito incolume proprio perché in compagnia del ragazzo. Le preziose informazioni fornite alla polizia da alcuni viandanti che erano riusciti a fuggire consentirono di arrestare il marito e il fratello della bella ostessa, la quale risultò pure implicata nell’azione e nel processo che ne seguì si beccò dieci anni di galera.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La matrignia di Spino al Brembo

Nel paese di Spino al Brembo, in comune di Zogno, viveva un vedovo con due figli, una bambina di cinque anni e un ragazzo di otto. L’uomo solo da tempo, pensava che gli occorreva in casa una donna e che avrebbe dovuto risposarsi. Finche’ un giorno incontrò una vedova, che a sua volta aveva due figli; proprio come lui, cioè un ragazzo e una ragazza, e se la sposò. La donna era piuttosto brutta di carattere invidioso e malevolo e così erano anche i suoi figli. Quando fu sposato accade che la donna voleva bene soltanto ai suoi figli e ai figli del vedovo, che erano belli e bravi, non dava nulla da mangiare e dava invece sferzate con la verga.

Quando tornava a casa il padre, la donna non faceva che dire male dei suoi figli e diceva che erano cattivi e lazzaroni e lui ci credeva. Allora per punizione venivano sgridati e mandati a letto senza cena; e loro che non avevano colpa, salivano le scale piangendo ed invocando la loro mamma, che era morta. La matrigna, e i suoi due figli, erano contenti della punizione e ridevano dietro le spalle dei poveretti. Durante la notte i due bambini sognavano gli spiriti; udivano dei versacci e sentivano qualcuno che batteva alla porta: si ritiravano in un angolo a piangere e morivano per la paura. Ma chi batteva la porta, chi faceva loro paura ? Era la matrigna, che in realtà era una strega, che si trasformava ogni notte in un cane rabbioso, in un gatto soriano, in una cornacchia che emetteva dei belati come capra < sbregola> . Tutto questo per intimorire i due bambini. Ma accadde un giorno, essendo andati i fanciulli a far legna nel bosco, s’erano fermati al ritorno davanti ad una chiesina di campagna per riposare e deporre le fascine di legna.

Intorno c’era un prato tutto fiorito; e loro raccolsero un bel mazzetto di fiori e lo posero davanti al cancello della chiesina per darlo alla madonna. Poi stando vicini e piangenti si misero a pregare e raccontarono alla madonna tutto quello che loro accadeva di notte, le loro paure e il loro pianto. La madonna sembrava guardarli e sorridere; e loro con l’impressione che quel sorriso li avrebbe protetti, se ne tornavano a casa molto contenti. Arrivati a casa, sulla porta trovano la matrigna e i suoi due figli che si divertivano giocando; loro depongono la legna e vogliono partecipare al gioco; ma la matrigna li fa subito rientrare in casa a fare i mestieri e li impegna fino a tarda sera; poi da loro un po’ di minestra e subito li manda a dormire. Ad alta notte, la matrigna si levò senza far rumore e col suo potere di strega si trasformò in un cane rabbioso; stava per andare nella stanza dei bambini; quando la madonna provocò nel padre un brutto sogno. L’uomo spaventato si leva dal letto prende il suo bastone ed esce a cercare il cane rabbioso che aveva sognato.

Lo vede innanzi alla porta dei suoi figli e si mette a dargli bastonate di santa ragione; e dopo averlo così battuto con un calcio lo fa ruzzolare giù dalle scale. Quando il cane arrivò in fondo alle scale, scoppio’ una gran fiammata e un gran fumo. Ma che cosa vide allora il padre ? Vide la sua donna che si lamentava e piangeva per le bastonate ricevute. E dopo un certo tempo la donna muore, e quando e’ morta si trasforma in una strega, con gli occhi accesi e spiritati, e vola via. L’uomo finalmente si rese conto dei fatti, risalì dai suoi figli e li trovò piangenti e spaventati; e vedendoli così miseri e soli si mise a piangere anche lui e li abbracciò e li baciò teneramente. E dopo questo avvenimento non li lasciò più soli né di giorno né di notte; così i suoi figli crebbero sani e contenti. Quanto agli altri due, i figli della strega, furono cacciati di casa e per nutrirsi dovettero ridursi a medicare.

Nel paese di Spino al Brembo, in comune di Zogno, viveva un vedovo con due figli, una bambina di cinque anni e un ragazzo di otto. L’uomo solo da tempo, pensava che gli occorreva in casa una donna e che avrebbe dovuto risposarsi. Finche’ un giorno incontrò una vedova, che a sua volta aveva due figli; proprio come lui, cioè un ragazzo e una ragazza, e se la sposò. La donna era piuttosto brutta di carattere invidioso e malevolo e così erano anche i suoi figli. Quando fu sposato accade che la donna voleva bene soltanto ai suoi figli e ai figli del vedovo, che erano belli e bravi, non dava nulla da mangiare e dava invece sferzate con la verga.

Quando tornava a casa il padre, la donna non faceva che dire male dei suoi figli e diceva che erano cattivi e lazzaroni e lui ci credeva. Allora per punizione venivano sgridati e mandati a letto senza cena; e loro che non avevano colpa, salivano le scale piangendo ed invocando la loro mamma, che era morta. La matrigna, e i suoi due figli, erano contenti della punizione e ridevano dietro le spalle dei poveretti. Durante la notte i due bambini sognavano gli spiriti; udivano dei versacci e sentivano qualcuno che batteva alla porta: si ritiravano in un angolo a piangere e morivano per la paura. Ma chi batteva la porta, chi faceva loro paura ? Era la matrigna, che in realtà era una strega, che si trasformava ogni notte in un cane rabbioso, in un gatto soriano, in una cornacchia che emetteva dei belati come capra < sbregola> . Tutto questo per intimorire i due bambini. Ma accadde un giorno, essendo andati i fanciulli a far legna nel bosco, s’erano fermati al ritorno davanti ad una chiesina di campagna per riposare e deporre le fascine di legna.

Intorno c’era un prato tutto fiorito; e loro raccolsero un bel mazzetto di fiori e lo posero davanti al cancello della chiesina per darlo alla madonna. Poi stando vicini e piangenti si misero a pregare e raccontarono alla madonna tutto quello che loro accadeva di notte, le loro paure e il loro pianto. La madonna sembrava guardarli e sorridere; e loro con l’impressione che quel sorriso li avrebbe protetti, se ne tornavano a casa molto contenti. Arrivati a casa, sulla porta trovano la matrigna e i suoi due figli che si divertivano giocando; loro depongono la legna e vogliono partecipare al gioco; ma la matrigna li fa subito rientrare in casa a fare i mestieri e li impegna fino a tarda sera; poi da loro un po’ di minestra e subito li manda a dormire. Ad alta notte, la matrigna si levò senza far rumore e col suo potere di strega si trasformò in un cane rabbioso; stava per andare nella stanza dei bambini; quando la madonna provocò nel padre un brutto sogno. L’uomo spaventato si leva dal letto prende il suo bastone ed esce a cercare il cane rabbioso che aveva sognato.

Lo vede innanzi alla porta dei suoi figli e si mette a dargli bastonate di santa ragione; e dopo averlo così battuto con un calcio lo fa ruzzolare giù dalle scale. Quando il cane arrivò in fondo alle scale, scoppio’ una gran fiammata e un gran fumo. Ma che cosa vide allora il padre ? Vide la sua donna che si lamentava e piangeva per le bastonate ricevute. E dopo un certo tempo la donna muore, e quando e’ morta si trasforma in una strega, con gli occhi accesi e spiritati, e vola via. L’uomo finalmente si rese conto dei fatti, risalì dai suoi figli e li trovò piangenti e spaventati; e vedendoli così miseri e soli si mise a piangere anche lui e li abbracciò e li baciò teneramente. E dopo questo avvenimento non li lasciò più soli né di giorno né di notte; così i suoi figli crebbero sani e contenti. Quanto agli altri due, i figli della strega, furono cacciati di casa e per nutrirsi dovettero ridursi a medicare.

Di lui ormai non resta che il ricordo, appena ravvivato dalla sbiadita raffigurazione di qualche affresco scrostato, ma ci fu un tempo in cui questa entità misteriosa e inquietante accompagnava con la sua presenza minacciosa la vita di generazioni di valligiani. Stiamo parlando dell’homo salvadego, noto da noi anche con il semplice appellativo di salvàdec, figura tipica delle comunità alpine, personificazione di un individuo a metà tra l’animale e l’uomo, propria di quasi tutte le culture antiche e sopravvissuta ai giorni nostri in qualche area esotica. La sua immagine è inconfondibile e si propone allo stesso modo, salvo qualche semplice variante, presso tutte le comunità. L’homo salvadego era una creatura robusta, dal corpo interamente coperto di pelo spesso e irsuto, quasi fosse un residuo di uomo-scimmia. Viveva solitario, allo stato selvaggio, nel folto dei boschi disseminati sulle pendici delle montagne, dimorava nelle grotte o nell’incavo dei tronchi d’albero, si nutriva di bacche e frutti del sottobosco e di animali, che cacciava con il suo nodoso randello che portava sempre in spalla e che suscitava lo spavento di chi aveva la ventura di incontrarlo nelle rare e fuggenti occasioni in cui accadeva che si avvicinasse ai luoghi abitati.

Malgrado l’aspetto terrificante, pare che non fosse poi così nocivo come lo si è voluto descrivere: presso qualche comunità lo si identificava, infatti, come una sorta di Polifemo, dedito all’allevamento, all’attività casearia e all’apicoltura. Altri lo ritenevano addirittura un educatore: nelle vallate trentine era chiamato sanguanèl e si riteneva che rapisse i bambini per poi allevarli amorevolmente, insegnando loro le più semplici arti agresti. La sua propensione a rapire i bambini è però legata, dalle nostre parti, alla più diffusa immagine dell’orco che, come si è visto, imperversava un po’ in ogni paese. La tradizione ha ricamato su questo individuo una serie di leggende di cui si sono quasi del tutto perse le tracce, salvo i generici riferimenti all’orco o all’uomo nero. “Chi ha paura dell’uomo nero?” gridavano fino a qualche anno fa i ragazzi dei nostri paesi di montagna all’indirizzo di uno di loro, scelto a turno per ricoprire il ruolo di una creatura rozza e sinistra, fermamente intenzionata a rapire e divorare il primo che le capitava a tiro. Il riferimento più concreto alla figura dell’homo salvadego in territorio brembano si trova nell’affresco posto all’ingresso della casa di Arlecchino, a Oneta di Valtorta. L’irsuto personaggio, munito di un grosso bastone, è posto a guardia dell’edificio e, come recita il cartiglio, minaccia di prendere a randellate eventuali malintenzionati:

Chi non è de chortesia,
non intragi in chasa ma;
se ge venes un poltron,
ce darò col mio baston.

Collegato al mito dell’homo salvadego è quello della cavra sbrègiola, altrove detta anche cavra bèsola, una sorta di misterioso caprone sulla cui esistenza tutti erano pronti a scommettere, ma che nessuno aveva mai visto. Sembra che questo ipotetico animale girovagasse lungo i dirupi montani emettendo belati striduli e insistenti e che avesse il brutto vizio di rapire i bambini cattivi e portarseli nella tana per divorarli. Sia l’homo salvadego che la cavra sbrègiola svolgevano però anche un ruolo positivo: a loro era attribuita l’importante funzione di custodi della natura contro le offese dell’uomo. In tale accezione, mai come oggi ci sarebbe bisogno di creature della loro specie!

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La cassa da morto del Diavolo

Nelle notti scure di temporale oppure nelle notti calde soffocanti in cui non si riesce a respirare si faceva sentire di Valle in Valle la cassa da Morto del Diavolo. Per sentirla la sentivan tutti, ma quanto a vederla erano pochi a vederla; e quei pochi che l’avevan vista erano divenuti bianchi di capelli per la paura; poi perdevano i denti e dopo un po’ di tempo morivano. Questa cassa era trasportata e accompagnata da molti cani, piccoli e grossi e mal formati; avevano gli occhi rossi come carboni accesi e lingue infuocate; in oltre mandavano dei versi, guaivano e abbaiavano in modo da incutere paura e spavento. Dove la Cassa da Morto del Diavolo passava, bruciava tutto e nei prati e nei campi non restava più niente. Stancatosi di veder morire la brava gente, il Vescovo aveva pensato di mandare nelle Valli uno di quei preti ritenuti santi che di solito, con la sola benedizione, sono capaci di guarire malati e indemoniati. Il prete si era appostato in cima ad un pendio di dove di sovente si era visto passare la Cassa da Morto del Diavolo. Passavano le notti e la Cassa né si faceva vedere né si faceva sentire: e la gente maligna commentava che questa volta, neppure l’acqua santa avrebbe potuto vincere il Diavolo.

Ma una notte di temporale, notte piena di tuoni e di lampi (non esisteva in tutta la Valle Brembana un piccolo lume) la Cassa da Morto del Diavolo, portata come al solito dai cani più brutti e cattivi appare in cima al pendio proprio dove era salito il prete. Sembrò a tutti che in quel momento fosse venuta la fine del mondo perché il cielo e la terra sconvolti, sembravano confondersi l’uno nell’altro. Quando il prete sbiancato dallo spavento, alzo il braccio nel gesto di benedire, la terra si spalancò davanti ai suoi piedi e proprio al momento giusto per inghiottire la Cassa da Morto del Diavolo, nella voragine. Dopo quella notte nessuno nella Valle Brembana ha mai più sentito o visto la Cassa da Morto del Diavolo; soltanto in certe notti buie e temporalesche, oppure in altre notti soffocanti, nelle contrade e i suoi monti i vecchi recitano il rosario, chiudono la porta a chiave e i bambini cacciano la testa sotto le coperte, per paura che torni il sibilo della Cassa da Morto del Diavolo.

Nelle notti scure di temporale oppure nelle notti calde soffocanti in cui non si riesce a respirare si faceva sentire di Valle in Valle la cassa da Morto del Diavolo. Per sentirla la sentivan tutti, ma quanto a vederla erano pochi a vederla; e quei pochi che l’avevan vista erano divenuti bianchi di capelli per la paura; poi perdevano i denti e dopo un po’ di tempo morivano. Questa cassa era trasportata e accompagnata da molti cani, piccoli e grossi e mal formati; avevano gli occhi rossi come carboni accesi e lingue infuocate; in oltre mandavano dei versi, guaivano e abbaiavano in modo da incutere paura e spavento. Dove la Cassa da Morto del Diavolo passava, bruciava tutto e nei prati e nei campi non restava più niente. Stancatosi di veder morire la brava gente, il Vescovo aveva pensato di mandare nelle Valli uno di quei preti ritenuti santi che di solito, con la sola benedizione, sono capaci di guarire malati e indemoniati. Il prete si era appostato in cima ad un pendio di dove di sovente si era visto passare la Cassa da Morto del Diavolo. Passavano le notti e la Cassa né si faceva vedere né si faceva sentire: e la gente maligna commentava che questa volta, neppure l’acqua santa avrebbe potuto vincere il Diavolo.

Ma una notte di temporale, notte piena di tuoni e di lampi (non esisteva in tutta la Valle Brembana un piccolo lume) la Cassa da Morto del Diavolo, portata come al solito dai cani più brutti e cattivi appare in cima al pendio proprio dove era salito il prete. Sembrò a tutti che in quel momento fosse venuta la fine del mondo perché il cielo e la terra sconvolti, sembravano confondersi l’uno nell’altro. Quando il prete sbiancato dallo spavento, alzo il braccio nel gesto di benedire, la terra si spalancò davanti ai suoi piedi e proprio al momento giusto per inghiottire la Cassa da Morto del Diavolo, nella voragine. Dopo quella notte nessuno nella Valle Brembana ha mai più sentito o visto la Cassa da Morto del Diavolo; soltanto in certe notti buie e temporalesche, oppure in altre notti soffocanti, nelle contrade e i suoi monti i vecchi recitano il rosario, chiudono la porta a chiave e i bambini cacciano la testa sotto le coperte, per paura che torni il sibilo della Cassa da Morto del Diavolo.

Sul Monte di Zogno viveva una ragazza che si chiamava Teresina; la gente la chiamava Dispettina per i dispetti che faceva a tutti. Suo padre era in Francia a lavorare nei boschi e tagliare le piante; sua madre era in casa ma era mezza malata e camminava con le stampelle e aveva 2 figli ancora piccoli cui dare da mangiare. Teresina era la più grande dei figli e aveva quindici anni. E invece di essere quella che aiutava in casa, era quella che rispondeva male a sua madre e a tutti coloro che le dicevano qualche cosa; scappava spesso di casa per andare a giocare e fare scherzi alla gente che stava lavorando.

Andava nei campi a far dispetti; scuoteva gli alberi e faceva cadere le mele ancora verdi; strappava i cespi di cavoli ; tirava giù i baccelli dei fagioli e andava dove c’erano le cassette delle api e con un bastone le faceva scappare e poi fuggiva e le api pungevano la gente che passava da quelle parti. Un giorno sua madre dal balcone di casa la chiamava: “Teresinaaaa, Teresinaaa” ; ma lei pur essendo vicina, non rispondeva. In quel momento stava passando un vecchio con una gran barba: il vecchio disse: “Teresina, tua madre ti chiama”. Lei ribatte “Interessati delle tue faccende brutto pitocco” e prende dei sassi e li scaglia sulla testa del vecchio. Lui si ferma e dice: < Sei una ragazza cattiva, villana e dispettosa; ricordati che quando sarò morto verrò a tirarti le gambe >. Il vecchio venne a morire poco tempo dopo. Una sera mentre s’era già fatto buio, Teresina era ancora fuori casa; ha l’impressione che qualcuno la chiami per nome: “Teresina” e non vede nulla. Molto impressionata da quella strana voce, se ne va di corsa e senza dir nulla a nessuno, si mette a letto piena di paura. Ma quella sera non accadde più nulla. Sere dopo, sente ancora la voce che dice: “Teresina, sono qui sotto il portico” .

La notte seguente ecco ancora la voce che dice: < Teresina, sono qui sotto il portico >. La notte seguente ecco ancora la voce che < Teresina sono sul primo gradino > e di li’ a un momento “Teresina sono al secondo gradino” e di lì a poco “Teresina sono al terzo gradino”. La ragazza era a letto nella sua stanza, tremante di paura; batteva i denti come se avesse un gran freddo. Poi ecco che battono alla porta; e poi la porta si apre e poi la voce più vicina che dice: “Teresina ora ci sei”. E lei sente che qualcuno invisibile le gambe e tira e tira: così sviene per lo spavento. Rinvenne molto tempo dopo, ricordando tutto con spavento; fu allora che promise a se stessa a alla Madonna di essere savia; così suo padre e sua madre vissero contenti.

La Maga dei bambini

Nelle forre profonde della valletta di Poscante, dicono che vivesse una Maga. Queste forre profonde sono quelle che si vedono ancor oggi tra il Passo del Monte di Nese e Perello; ancor si vedono rocce e precipizi, in fondo ai quali c’era una grotta ampia, dove viveva questa Maga. Era una Maga che di notte si aggirava per le contrade e intorno ai casolari sparsi sui pendii. Era cattiva e quando vedeva bambini piccoli se li portava via e più nessuno li vedeva. Un uomo che tornava una sera sul tardi dalla sua stalla alla casa, incontra la Maga che portava sulle spalle un sacco.

Dentro il sacco c’era un bambino che piangeva. L’uomo si nascose ai margini della strada e lascia passare la Maga, si mette a seguirla di nascosto fino alla grotta dove lei viveva. La grotta era piena di bambini piccoli che piangevano e invocavano la mamma. Egli cerca di entrare per vedere meglio, ma si accorge che nella grotta c’è un mago. Era vicino al sacco dove c’era il bambino; il sacco era ancora legato; poi dice alla Maga: < sento odore di piccolo cristiano>, e la Maga risponde: “è bello e grassino e domani lo faremo cuocere come un maialino”. Il mago si frega le mani e continua: “e dopo ci leccheremo i baffi”.

Il mago sciolse il sacco; tira fuori il bambino e lo mette in una gabbia da solo; vicino c’era un altra gabbia con dentro altri bambini che i maghi tenevano per farli ingrassare perché erano troppo magri per essere mangiati. E per non farli scappare il mago aveva messo in dosso una coperta e aveva legato alla frangia tanti piccoli campanelli; così se loro si muovevano, i campanelli si mettevano a suonare, svegliando il mago dal suo sonno. L’uomo che ha visto e sentito tutto, coraggiosamente prende la sua decisione: si toglie la giacca, tira fuori dalla tasca il suo coltello e si mette a tagliare a piccoli pezzetti la sua giacca. Lascia andare a dormire il mago e la Maga, e si mette a otturare tutti i campanelli piano piano per non farli suonare. Poi taglia le corde che tenevano chiuse le gabbie e i bambini scappavano ad uno ad uno di corsa. Guidati da chissà quale istinto corrono a precipizio ciascuno alla propria casa. Arrivano davanti alle loro mamme e ai loro padri che erano disperati, ma quando vedono tornare i bambini di colpo sorridono e diventano tutti contenti.

Nelle forre profonde della valletta di Poscante, dicono che vivesse una Maga. Queste forre profonde sono quelle che si vedono ancor oggi tra il Passo del Monte di Nese e Perello; ancor si vedono rocce e precipizi, in fondo ai quali c’era una grotta ampia, dove viveva questa Maga. Era una Maga che di notte si aggirava per le contrade e intorno ai casolari sparsi sui pendii. Era cattiva e quando vedeva bambini piccoli se li portava via e più nessuno li vedeva. Un uomo che tornava una sera sul tardi dalla sua stalla alla casa, incontra la Maga che portava sulle spalle un sacco.

Dentro il sacco c’era un bambino che piangeva. L’uomo si nascose ai margini della strada e lascia passare la Maga, si mette a seguirla di nascosto fino alla grotta dove lei viveva. La grotta era piena di bambini piccoli che piangevano e invocavano la mamma. Egli cerca di entrare per vedere meglio, ma si accorge che nella grotta c’è un mago. Era vicino al sacco dove c’era il bambino; il sacco era ancora legato; poi dice alla Maga: < sento odore di piccolo cristiano>, e la Maga risponde: “è bello e grassino e domani lo faremo cuocere come un maialino”. Il mago si frega le mani e continua: “e dopo ci leccheremo i baffi”.

Il mago sciolse il sacco; tira fuori il bambino e lo mette in una gabbia da solo; vicino c’era un altra gabbia con dentro altri bambini che i maghi tenevano per farli ingrassare perché erano troppo magri per essere mangiati. E per non farli scappare il mago aveva messo in dosso una coperta e aveva legato alla frangia tanti piccoli campanelli; così se loro si muovevano, i campanelli si mettevano a suonare, svegliando il mago dal suo sonno. L’uomo che ha visto e sentito tutto, coraggiosamente prende la sua decisione: si toglie la giacca, tira fuori dalla tasca il suo coltello e si mette a tagliare a piccoli pezzetti la sua giacca. Lascia andare a dormire il mago e la Maga, e si mette a otturare tutti i campanelli piano piano per non farli suonare. Poi taglia le corde che tenevano chiuse le gabbie e i bambini scappavano ad uno ad uno di corsa. Guidati da chissà quale istinto corrono a precipizio ciascuno alla propria casa. Arrivano davanti alle loro mamme e ai loro padri che erano disperati, ma quando vedono tornare i bambini di colpo sorridono e diventano tutti contenti.

Nelle forre profonde della valletta di Poscante, dicono che vivesse una Maga. Queste forre profonde sono quelle che si vedono ancor oggi tra il Passo del Monte di Nese e Perello; ancor si vedono rocce e precipizi, in fondo ai quali c’era una grotta ampia, dove viveva questa Maga. Era una Maga che di notte si aggirava per le contrade e intorno ai casolari sparsi sui pendii. Era cattiva e quando vedeva bambini piccoli se li portava via e più nessuno li vedeva. Un uomo che tornava una sera sul tardi dalla sua stalla alla casa, incontra la Maga che portava sulle spalle un sacco.

Dentro il sacco c’era un bambino che piangeva. L’uomo si nascose ai margini della strada e lascia passare la Maga, si mette a seguirla di nascosto fino alla grotta dove lei viveva. La grotta era piena di bambini piccoli che piangevano e invocavano la mamma. Egli cerca di entrare per vedere meglio, ma si accorge che nella grotta c’è un mago. Era vicino al sacco dove c’era il bambino; il sacco era ancora legato; poi dice alla Maga: < sento odore di piccolo cristiano>, e la Maga risponde: “è bello e grassino e domani lo faremo cuocere come un maialino”. Il mago si frega le mani e continua: “e dopo ci leccheremo i baffi”.

Il mago sciolse il sacco; tira fuori il bambino e lo mette in una gabbia da solo; vicino c’era un altra gabbia con dentro altri bambini che i maghi tenevano per farli ingrassare perché erano troppo magri per essere mangiati. E per non farli scappare il mago aveva messo in dosso una coperta e aveva legato alla frangia tanti piccoli campanelli; così se loro si muovevano, i campanelli si mettevano a suonare, svegliando il mago dal suo sonno. L’uomo che ha visto e sentito tutto, coraggiosamente prende la sua decisione: si toglie la giacca, tira fuori dalla tasca il suo coltello e si mette a tagliare a piccoli pezzetti la sua giacca. Lascia andare a dormire il mago e la Maga, e si mette a otturare tutti i campanelli piano piano per non farli suonare. Poi taglia le corde che tenevano chiuse le gabbie e i bambini scappavano ad uno ad uno di corsa. Guidati da chissà quale istinto corrono a precipizio ciascuno alla propria casa. Arrivano davanti alle loro mamme e ai loro padri che erano disperati, ma quando vedono tornare i bambini di colpo sorridono e diventano tutti contenti.

La pitocca di Olda di Val Taleggio

Nella Val Taleggio a Olda, c’era una vecchia chiamata la “pitocca”. Girava nei paesi della val Taleggio a pitoccare casa per casa; era una brutta vecchia gobba, con 2 occhi di civetta, un naso a uncino dal quale colava sempre una goccia; coi capelli bianchi e tutti impegolati . Portava un cappello da uomo nero pieno di buchi, e si vedevano i pidocchi che vi si arrampicavano grossi. Portava un gilet di lana tutto rappreso e una gonna tutta a pezzi unta e bisunta. Camminava a piedi nudi e i piedi erano neri coi calcagni screpolati. Aveva sul braccio una borsa e in mano un bastone. I ragazzi, al vederla fuggivano spaventati e la gente quando la vedevano spuntare, chiudevano le porte perché temevano che entrasse nelle case; mettevano sulla porta una fetta di polenta e un pezzo di stracchino e quando lei aveva raccolto la polenta e lo stracchino, i cani della contrada cominciavano ad abbaiare e la facevano scappare. Il povero padre racconta che un giorno la pitocca era arrivata a Sottochiesa ed era comparsa nella corte delle case.

Lui e i suoi fratelli bambini, stavano giocando; non appena l’hanno vista sono scappati dentro la casa per la paura; quando alla sera sono andati a letto, la paura era raddoppiata; dormivano al piano di sopra tutti i sei fratelli in uno stanzone; erano tre per paglione e mio padre era il più piccolo, lui aveva cinque anni e il più vecchio era mio zio Battista, che aveva tredici anni. Quando l’olio del lume finì (a quel tempo non c’era la luce elettrica) uno dei fratelli cominciò a dire che c’era la pitocca; gli altri erano saltati fuori dal letto, hanno infilato la porta e giù per la scala di legno un po’ in piedi e un po’ a rotoloni! Il nonno sentì che venivan giù a salti; esce dalla porta con la cinghia delle braghe in mano; loro aveva indosso un camicino corto che arrivava al bottone della pancia e più niente davanti; e zacchette con la cinghia sul culetto nudo. Ma loro non son più saliti nello stanzone finche’ il nonno non uscì a vedere se c’era la pitocca. Poi andò di sopra a dormire con loro. Ma forse questa pitocca non era cattiva.

Nella Val Taleggio a Olda, c’era una vecchia chiamata la “pitocca”. Girava nei paesi della val Taleggio a pitoccare casa per casa; era una brutta vecchia gobba, con 2 occhi di civetta, un naso a uncino dal quale colava sempre una goccia; coi capelli bianchi e tutti impegolati . Portava un cappello da uomo nero pieno di buchi, e si vedevano i pidocchi che vi si arrampicavano grossi. Portava un gilet di lana tutto rappreso e una gonna tutta a pezzi unta e bisunta. Camminava a piedi nudi e i piedi erano neri coi calcagni screpolati. Aveva sul braccio una borsa e in mano un bastone. I ragazzi, al vederla fuggivano spaventati e la gente quando la vedevano spuntare, chiudevano le porte perché temevano che entrasse nelle case; mettevano sulla porta una fetta di polenta e un pezzo di stracchino e quando lei aveva raccolto la polenta e lo stracchino, i cani della contrada cominciavano ad abbaiare e la facevano scappare. Il povero padre racconta che un giorno la pitocca era arrivata a Sottochiesa ed era comparsa nella corte delle case.

Lui e i suoi fratelli bambini, stavano giocando; non appena l’hanno vista sono scappati dentro la casa per la paura; quando alla sera sono andati a letto, la paura era raddoppiata; dormivano al piano di sopra tutti i sei fratelli in uno stanzone; erano tre per paglione e mio padre era il più piccolo, lui aveva cinque anni e il più vecchio era mio zio Battista, che aveva tredici anni. Quando l’olio del lume finì (a quel tempo non c’era la luce elettrica) uno dei fratelli cominciò a dire che c’era la pitocca; gli altri erano saltati fuori dal letto, hanno infilato la porta e giù per la scala di legno un po’ in piedi e un po’ a rotoloni! Il nonno sentì che venivan giù a salti; esce dalla porta con la cinghia delle braghe in mano; loro aveva indosso un camicino corto che arrivava al bottone della pancia e più niente davanti; e zacchette con la cinghia sul culetto nudo. Ma loro non son più saliti nello stanzone finche’ il nonno non uscì a vedere se c’era la pitocca. Poi andò di sopra a dormire con loro. Ma forse questa pitocca non era cattiva.

Nella Val Taleggio a Olda, c’era una vecchia chiamata la “pitocca”. Girava nei paesi della val Taleggio a pitoccare casa per casa; era una brutta vecchia gobba, con 2 occhi di civetta, un naso a uncino dal quale colava sempre una goccia; coi capelli bianchi e tutti impegolati . Portava un cappello da uomo nero pieno di buchi, e si vedevano i pidocchi che vi si arrampicavano grossi. Portava un gilet di lana tutto rappreso e una gonna tutta a pezzi unta e bisunta. Camminava a piedi nudi e i piedi erano neri coi calcagni screpolati. Aveva sul braccio una borsa e in mano un bastone. I ragazzi, al vederla fuggivano spaventati e la gente quando la vedevano spuntare, chiudevano le porte perché temevano che entrasse nelle case; mettevano sulla porta una fetta di polenta e un pezzo di stracchino e quando lei aveva raccolto la polenta e lo stracchino, i cani della contrada cominciavano ad abbaiare e la facevano scappare. Il povero padre racconta che un giorno la pitocca era arrivata a Sottochiesa ed era comparsa nella corte delle case.

Lui e i suoi fratelli bambini, stavano giocando; non appena l’hanno vista sono scappati dentro la casa per la paura; quando alla sera sono andati a letto, la paura era raddoppiata; dormivano al piano di sopra tutti i sei fratelli in uno stanzone; erano tre per paglione e mio padre era il più piccolo, lui aveva cinque anni e il più vecchio era mio zio Battista, che aveva tredici anni. Quando l’olio del lume finì (a quel tempo non c’era la luce elettrica) uno dei fratelli cominciò a dire che c’era la pitocca; gli altri erano saltati fuori dal letto, hanno infilato la porta e giù per la scala di legno un po’ in piedi e un po’ a rotoloni! Il nonno sentì che venivan giù a salti; esce dalla porta con la cinghia delle braghe in mano; loro aveva indosso un camicino corto che arrivava al bottone della pancia e più niente davanti; e zacchette con la cinghia sul culetto nudo. Ma loro non son più saliti nello stanzone finche’ il nonno non uscì a vedere se c’era la pitocca. Poi andò di sopra a dormire con loro. Ma forse questa pitocca non era cattiva.

Il castello della Regina

In una montagna sopra Brembilla, tra Sant’Antonio Abbandonato e la forcella di Bura, c’era un castello che era comandato da una regina. Era una donna forte e guerriera, andava sempre in testa ai suoi soldati nelle battaglie e ritornava ogni volta vittoriosa al suo castello. Quando ritornava dalle sue guerre, appena giunta a Gualguari (questo luogo è attualmente il centro del paese di Brembilla) si fermava nella piazza e provvedeva ad impiccare i suoi nemici, i traditori e i prigionieri. Quando li aveva tutti impiccati, ripartiva per risalire al suo castello e dopo nessuno più poteva vederla per molto tempo.

 

Un bel giorno una staffetta porta alla regina questa notizia: in una località detta Lasiol, si era accampato un re con molti suoi soldati; questo re aveva una corona tutta d’oro, sacchi pieni di marenghi e un vitello tutto d’oro. La regina udita la notizia, radunò tutti i suoi soldati e raccontata la cosa, promise che avrebbe lasciato a loro tutto l’oro che avrebbero conquistato; per sé avrebbe tenuto soltanto il vitello d’oro e la corona. La stessa sera l’esercito della regina partì per la guerra e durante la notte, si preparò per la battaglia.

 

Era una notte d’agosto e c’era la luna piena; a mezzanotte i soldati della regina cominciarono l’attacco, che è durato fino a tanto che il re si è messo in fuga verso le rocce dell’orrido al di la di Brembilla; dall’orrido una alla volta precipitarono nel burrone ma il re prima di morire, mandò una maledizione alla regina che aveva preso il suo vitello d’oro: infatti questo vitello era simbolo della sua religione. La regina tornò al castello vittoriosa portando con sé il bottino di guerra; la corona del re e il suo vitello d’oro. Senonché’ quando era già ritirata nella sua stanza, si scatenò un furioso temporale che faceva tremare la montagna e le muraglie del castello; e dopo poco tempo la terra si spalancò, si aperse una voragine così grande che inghiottì tutto e tutti: la regina, il castello e il vitello.

In una montagna sopra Brembilla, tra Sant’Antonio Abbandonato e la forcella di Bura, c’era un castello che era comandato da una regina. Era una donna forte e guerriera, andava sempre in testa ai suoi soldati nelle battaglie e ritornava ogni volta vittoriosa al suo castello. Quando ritornava dalle sue guerre, appena giunta a Gualguari (questo luogo è attualmente il centro del paese di Brembilla) si fermava nella piazza e provvedeva ad impiccare i suoi nemici, i traditori e i prigionieri. Quando li aveva tutti impiccati, ripartiva per risalire al suo castello e dopo nessuno più poteva vederla per molto tempo.

 

Un bel giorno una staffetta porta alla regina questa notizia: in una località detta Lasiol, si era accampato un re con molti suoi soldati; questo re aveva una corona tutta d’oro, sacchi pieni di marenghi e un vitello tutto d’oro. La regina udita la notizia, radunò tutti i suoi soldati e raccontata la cosa, promise che avrebbe lasciato a loro tutto l’oro che avrebbero conquistato; per sé avrebbe tenuto soltanto il vitello d’oro e la corona. La stessa sera l’esercito della regina partì per la guerra e durante la notte, si preparò per la battaglia.

 

Era una notte d’agosto e c’era la luna piena; a mezzanotte i soldati della regina cominciarono l’attacco, che è durato fino a tanto che il re si è messo in fuga verso le rocce dell’orrido al di la di Brembilla; dall’orrido una alla volta precipitarono nel burrone ma il re prima di morire, mandò una maledizione alla regina che aveva preso il suo vitello d’oro: infatti questo vitello era simbolo della sua religione. La regina tornò al castello vittoriosa portando con sé il bottino di guerra; la corona del re e il suo vitello d’oro. Senonché’ quando era già ritirata nella sua stanza, si scatenò un furioso temporale che faceva tremare la montagna e le muraglie del castello; e dopo poco tempo la terra si spalancò, si aperse una voragine così grande che inghiottì tutto e tutti: la regina, il castello e il vitello.

Nella Val Taleggio a Olda, c’era una vecchia chiamata la “pitocca”. Girava nei paesi della val Taleggio a pitoccare casa per casa; era una brutta vecchia gobba, con 2 occhi di civetta, un naso a uncino dal quale colava sempre una goccia; coi capelli bianchi e tutti impegolati . Portava un cappello da uomo nero pieno di buchi, e si vedevano i pidocchi che vi si arrampicavano grossi. Portava un gilet di lana tutto rappreso e una gonna tutta a pezzi unta e bisunta. Camminava a piedi nudi e i piedi erano neri coi calcagni screpolati. Aveva sul braccio una borsa e in mano un bastone. I ragazzi, al vederla fuggivano spaventati e la gente quando la vedevano spuntare, chiudevano le porte perché temevano che entrasse nelle case; mettevano sulla porta una fetta di polenta e un pezzo di stracchino e quando lei aveva raccolto la polenta e lo stracchino, i cani della contrada cominciavano ad abbaiare e la facevano scappare. Il povero padre racconta che un giorno la pitocca era arrivata a Sottochiesa ed era comparsa nella corte delle case.
Lui e i suoi fratelli bambini, stavano giocando; non appena l’hanno vista sono scappati dentro la casa per la paura; quando alla sera sono andati a letto, la paura era raddoppiata; dormivano al piano di sopra tutti i sei fratelli in uno stanzone; erano tre per paglione e mio padre era il più piccolo, lui aveva cinque anni e il più vecchio era mio zio Battista, che aveva tredici anni. Quando l’olio del lume finì (a quel tempo non c’era la luce elettrica) uno dei fratelli cominciò a dire che c’era la pitocca; gli altri erano saltati fuori dal letto, hanno infilato la porta e giù per la scala di legno un po’ in piedi e un po’ a rotoloni! Il nonno sentì che venivan giù a salti; esce dalla porta con la cinghia delle braghe in mano; loro aveva indosso un camicino corto che arrivava al bottone della pancia e più niente davanti; e zacchette con la cinghia sul culetto nudo. Ma loro non son più saliti nello stanzone finche’ il nonno non uscì a vedere se c’era la pitocca. Poi andò di sopra a dormire con loro. Ma forse questa pitocca non era cattiva.

Il Serpente aveva la Boccia d’oro in bocca

Mio nonno raccontava che quando era bambino, c’era un serpente che volava e che aveva in bocca una BOCCIA d’ORO la quale di notte mandava luce. Tutte le notti il serpente che stava di casa sulla Corna Rossa volava intorno al campanile di Zogno e quando batteva la mezzanotte, sibilava così forte che la gente si rinchiudeva nelle case per la gran paura. Poi andava a volare sul Canto Alto e di lassù sibilava ancora più forte e lo sentivano anche quelli di Bergamo e anche loro si spaventavano non poco. Quando ritornava da suo volo, finiva giù nella Valle del Boer e per dissetarsi deponeva la boccia d’oro sopra un sasso; quando aveva bevuto, riprendeva il volo e tornava sulla Corna Rossa. Una volta un giovanotto di quelli un po’ spacconi, ha atteso un agguato al Serpente nel Boer, per tentare di rubargli la BOCCIA d’ORO. Ma quando il povero giovinotto è stato vicino al serpente, prima è diventato rosso come il fuoco e dopo è rimasto pietrificato.

 

Appena la gente si è accorta del fatto ha chiamato il prevosto di Zogno e lui per farlo rinvenire è stato obbligato a buttargli addosso 3 secchi di acqua benedetta. Per anni e anni, uomini, vacche, pecore e capre si bevevano l’acqua del Boer, che era stata avvelenata dal serpente, morivano e nel posto dove si posava il serpente c’erano soltanto vipere, rospi, scorpioni e salamandre. E la gente ripeteva che il serpente non era altro che un diavolino, piccolo, buono di quelli appena nati. Ecco la ragione per la quale il prevosto di quell’epoca ha fatto mettere in cima al campanile la statua di San Lorenzo. Il Santo infatti porta in mano la graticola del suo martirio e nell’altra un mazzo diverghe, di salice e cura che non ritorni il serpente, pronto giorno e notte a dargliele. Anche la croce sul Canto Alto era stata messa per fugare il serpente. La gente del Boer poi ha fatto il resto con bastoni e vanghe finche’ il serpente sparì del tutto.

 

Mio nonno raccontava che quando era bambino, c’era un serpente che volava e che aveva in bocca una BOCCIA d’ORO la quale di notte mandava luce. Tutte le notti il serpente che stava di casa sulla Corna Rossa volava intorno al campanile di Zogno e quando batteva la mezzanotte, sibilava così forte che la gente si rinchiudeva nelle case per la gran paura. Poi andava a volare sul Canto Alto e di lassù sibilava ancora più forte e lo sentivano anche quelli di Bergamo e anche loro si spaventavano non poco. Quando ritornava da suo volo, finiva giù nella Valle del Boer e per dissetarsi deponeva la boccia d’oro sopra un sasso; quando aveva bevuto, riprendeva il volo e tornava sulla Corna Rossa. Una volta un giovanotto di quelli un po’ spacconi, ha atteso un agguato al Serpente nel Boer, per tentare di rubargli la BOCCIA d’ORO. Ma quando il povero giovinotto è stato vicino al serpente, prima è diventato rosso come il fuoco e dopo è rimasto pietrificato.

 

Appena la gente si è accorta del fatto ha chiamato il prevosto di Zogno e lui per farlo rinvenire è stato obbligato a buttargli addosso 3 secchi di acqua benedetta. Per anni e anni, uomini, vacche, pecore e capre si bevevano l’acqua del Boer, che era stata avvelenata dal serpente, morivano e nel posto dove si posava il serpente c’erano soltanto vipere, rospi, scorpioni e salamandre. E la gente ripeteva che il serpente non era altro che un diavolino, piccolo, buono di quelli appena nati. Ecco la ragione per la quale il prevosto di quell’epoca ha fatto mettere in cima al campanile la statua di San Lorenzo. Il Santo infatti porta in mano la graticola del suo martirio e nell’altra un mazzo diverghe, di salice e cura che non ritorni il serpente, pronto giorno e notte a dargliele. Anche la croce sul Canto Alto era stata messa per fugare il serpente. La gente del Boer poi ha fatto il resto con bastoni e vanghe finche’ il serpente sparì del tutto.

 

Nella Val Taleggio a Olda, c’era una vecchia chiamata la “pitocca”. Girava nei paesi della val Taleggio a pitoccare casa per casa; era una brutta vecchia gobba, con 2 occhi di civetta, un naso a uncino dal quale colava sempre una goccia; coi capelli bianchi e tutti impegolati . Portava un cappello da uomo nero pieno di buchi, e si vedevano i pidocchi che vi si arrampicavano grossi. Portava un gilet di lana tutto rappreso e una gonna tutta a pezzi unta e bisunta. Camminava a piedi nudi e i piedi erano neri coi calcagni screpolati. Aveva sul braccio una borsa e in mano un bastone. I ragazzi, al vederla fuggivano spaventati e la gente quando la vedevano spuntare, chiudevano le porte perché temevano che entrasse nelle case; mettevano sulla porta una fetta di polenta e un pezzo di stracchino e quando lei aveva raccolto la polenta e lo stracchino, i cani della contrada cominciavano ad abbaiare e la facevano scappare. Il povero padre racconta che un giorno la pitocca era arrivata a Sottochiesa ed era comparsa nella corte delle case.
Lui e i suoi fratelli bambini, stavano giocando; non appena l’hanno vista sono scappati dentro la casa per la paura; quando alla sera sono andati a letto, la paura era raddoppiata; dormivano al piano di sopra tutti i sei fratelli in uno stanzone; erano tre per paglione e mio padre era il più piccolo, lui aveva cinque anni e il più vecchio era mio zio Battista, che aveva tredici anni. Quando l’olio del lume finì (a quel tempo non c’era la luce elettrica) uno dei fratelli cominciò a dire che c’era la pitocca; gli altri erano saltati fuori dal letto, hanno infilato la porta e giù per la scala di legno un po’ in piedi e un po’ a rotoloni! Il nonno sentì che venivan giù a salti; esce dalla porta con la cinghia delle braghe in mano; loro aveva indosso un camicino corto che arrivava al bottone della pancia e più niente davanti; e zacchette con la cinghia sul culetto nudo. Ma loro non son più saliti nello stanzone finche’ il nonno non uscì a vedere se c’era la pitocca. Poi andò di sopra a dormire con loro. Ma forse questa pitocca non era cattiva.

Il Folletto della Val Taleggio

A Sottochiesa in Val Taleggio, c’era un uomo che andava poco in chiesa e molto all’osteria. Una sera tornando a casa, trova un uomo che stava male disteso in mezzo alla strada. Lo aiuta a rimettersi in piedi e poi se lo porta a casa e appena arrivato in casa, lo fa stendere sul letto della sua stanza; e intanto va in cucina e gli prepara un po’ di caffè; quando è pronto lo versa in una scodella e lo porta all’uomo che stava nel suo letto. Entrato nella stanza vede che lo sconosciuto si è addormentato profondamente; allora torna in cucina a bere un po’ di caffè anche lui si addormenta seduto sulla sedia con la testa sul tavolo.

 

Passata forse una mezzoretta, sente che nella stanza dove stanno gli stracchini a maturare, gli assi e gli stracchini cadono a terra; come può accadere se gli assi sono appoggiati al soffitto con fili di ferro per evitare che i topi arrivino a rosicchiarli ? Di corsa va a vedere che cosa è successo, e trova assi e stracchini a terra tutti a pezzi..!!! Corre nella stanza per chiamare quell’uomo, ma lui dormiva ancora. Ritorna in cucina senza rendersi ragione di quello che succede e si addormenta con la testa sul tavolo. Più tardi, nella cantina cadono con rumore le bottiglie, i fiaschi e le scatole messe sulle mensole; e sente che si spaccano le panche con sopra le damigiane di vino.

 

Accorre rapido e vede le damigiane del vino spaccate, i bottiglioni dell’olio rotti, i vasi del miele a terra in pezzi e farina, riso, pasta da tutte le parti. Spaventato e pieno di paura, corre nella stanza a chiamare quell’uomo, ma l’uomo dormiva sempre; ritorna in cucina e di li a poco vede entrare dalla porta un grosso gatto di quelli soriani, tutto infarinato col pelo irto: il gatto salta sulla credenza butta giù tutti i piatti dall’alzata per terra; salta sul camino e butta a terra i candelieri; e infine salta sulla finestra, la apre e scompare. Il poveretto torna nella stanza a chiamare quell’uomo che aveva raccolto, sperando nel suo aiuto, ma l’uomo non era più sul letto e il suo letto bruciava. Piangente e spaventato, finalmente capì che cosa era successo e chi era quell’uomo che s’era portato in casa: era un folletto.

 

A Sottochiesa in Val Taleggio, c’era un uomo che andava poco in chiesa e molto all’osteria. Una sera tornando a casa, trova un uomo che stava male disteso in mezzo alla strada. Lo aiuta a rimettersi in piedi e poi se lo porta a casa e appena arrivato in casa, lo fa stendere sul letto della sua stanza; e intanto va in cucina e gli prepara un po’ di caffè; quando è pronto lo versa in una scodella e lo porta all’uomo che stava nel suo letto. Entrato nella stanza vede che lo sconosciuto si è addormentato profondamente; allora torna in cucina a bere un po’ di caffè anche lui si addormenta seduto sulla sedia con la testa sul tavolo.

 

Passata forse una mezzoretta, sente che nella stanza dove stanno gli stracchini a maturare, gli assi e gli stracchini cadono a terra; come può accadere se gli assi sono appoggiati al soffitto con fili di ferro per evitare che i topi arrivino a rosicchiarli ? Di corsa va a vedere che cosa è successo, e trova assi e stracchini a terra tutti a pezzi..!!! Corre nella stanza per chiamare quell’uomo, ma lui dormiva ancora. Ritorna in cucina senza rendersi ragione di quello che succede e si addormenta con la testa sul tavolo. Più tardi, nella cantina cadono con rumore le bottiglie, i fiaschi e le scatole messe sulle mensole; e sente che si spaccano le panche con sopra le damigiane di vino.

 

Accorre rapido e vede le damigiane del vino spaccate, i bottiglioni dell’olio rotti, i vasi del miele a terra in pezzi e farina, riso, pasta da tutte le parti. Spaventato e pieno di paura, corre nella stanza a chiamare quell’uomo, ma l’uomo dormiva sempre; ritorna in cucina e di li a poco vede entrare dalla porta un grosso gatto di quelli soriani, tutto infarinato col pelo irto: il gatto salta sulla credenza butta giù tutti i piatti dall’alzata per terra; salta sul camino e butta a terra i candelieri; e infine salta sulla finestra, la apre e scompare. Il poveretto torna nella stanza a chiamare quell’uomo che aveva raccolto, sperando nel suo aiuto, ma l’uomo non era più sul letto e il suo letto bruciava. Piangente e spaventato, finalmente capì che cosa era successo e chi era quell’uomo che s’era portato in casa: era un folletto.

 

Storie di briganti, più o meno famose e romanzesche, sono assai diffuse in tutta la Bergamasca, al punto che la loro narrazione potrebbe occupare un intero libro. In questa sede ci limitiamo a presentare solo alcuni esempi significativi, riferendo anche i casi documentati di due brigantesse che dimostrarono di non essere da meno dei loro più noti compari maschi. A metà dell’Ottocento imperversò in Val Taleggio il brigante Angelo Pessina, detto Tarfù. dal nome dialettale di una grossa larva che si annida nei tronchi degli alberi, di preferenza giovani noci, e si nutre della loro polpa, scavando lunghi cunicoli che arrecano danni gravi e talvolta irreparabili alla pianta. Essendo praticamente impossibile snidare il parassita senza danneggiare il legno, i contadini lo combattono introducendo nel cunicolo un tratto di miccia o uno stoppino imbevuto di liquido infiammabile a cui danno fuoco. Il Tarfù era arrivato in valle all’inizio del 1849, disertore dall’esercito austriaco, nelle cui fila aveva militato fino alla conclusione della guerra contro il Piemonte. L’esercito era in procinto di smobilitare e lui, come tanti altri, di fronte alla prospettiva di un lungo e ostile soggiorno in terra austriaca aveva preferito darsi alla macchia, cosa che del resto aveva già fatto, seppur per un breve periodo, tempo addietro. La Valle Taleggio parve al Pessina il luogo ideale per sfuggire alle ricerche delle forze dell’ordine: guai a farsi mettere le mani addosso dai gendarmi austriaci: essendo disertore recidivo, e per di più in stato di guerra, avrebbe rischiato la fucilazione.
All’inizio si era arrangiato alla meglio, in tutta solitudine, rubando nelle cascine lo stretto necessario per sopravvivere o dandosi alla cattura di uccelli, rane, lumache e quant’altro offrivano i boschi della valle. Ben presto, però, si accorse che ci poteva essere un altro e più redditizio mezzo per campare. Gli era capitato più volte di incontrare, nascosti nelle baite dell’Alben o del Baciamorti, degli sbandati o disertori suoi pari, gente che per un motivo o per l’altro aveva tutte le ragioni per stare alla larga dalla comunità civile, alcuni già dediti al brigantaggio organizzato, altri in procinto di aggregarsi in banda. Che cosa poteva rischiare il Pessina, diventando un brigante, oltre alla pena di morte già meritata con la diserzione? Tanto valeva vivere alla grande più a lungo che poteva, nella remota speranza che qualcosa potesse prima o poi cambiare. La prima rapina fu compiuta ai danni del parroco della Pianca, il quale fu aggredito nella sua canonica e derubato dei soldi e di altri oggetti di valore per l’importo di un migliaio di lire. Probabilmente il Tarfù ebbe in quella prima azione un ruolo subalterno, ma le sue doti di coraggio, l’abilità organizzativa e soprattutto la forte personalità lo portarono quasi subito alla guida del gruppo che verrà poi identificato col suo nome. Questa nuova leadership segnò un salto di qualità nelle successive imprese banditesche. Pochi giorni dopo l’aggressione al parroco della Pianca, la banda fu protagonista di un episodio clamoroso che ebbe per teatro il paese di Sottochiesa. Alla guida di una dozzina di briganti ben armati, il Tarfù penetrò nel municipio e sequestrò il sindaco Locatelli, chiedendo un riscatto di ben tredicimila lire.
Per tutta la giornata il paese rimase in balia dei malviventi che, per convincere la popolazione a consegnare il denaro, sottoposero il sequestrato a ripetuti maltrattamenti e minacce di morte. Alla fine le pretese dei sequestratori si ridussero a poco meno di duemila lire, che vennero effettivamente sborsate. Non senza che il Tarfù si prendesse un interesse supplementare, facendosi consegnare due marenghi d’oro dal vicesindaco, in cambio della garanzia che avrebbe usato la propria autorevole influenza sui compagni nel convincerli a ridimensionare le pretese. Ormai la banda era uscita allo scoperto: l’azione di Sottochiesa aveva rivelato l’identità dei suoi componenti e la polizia aveva spiccato mandati di cattura per ciascuno. Ma di tali mandati la banda Tarfù parve non tener minimamente conto, tanto è vero che mise a segno subito dopo un altro colpo. Calati su Cassiglio, in alta Valle Brembana, i malviventi assalirono l’abitazione di un commerciante e lo rapinarono di sedici talleri. Pochi giorni dopo fu la volta del santuario di Salzana, presso Pizzino, il cui cappellano fu fermato sul sagrato mentre era intento a leggere il breviario e costretto a consegnare i cinque franchi che aveva con sé. Dopo un periodo di oltre un anno, durante il quale dovettero cambiare aria per sfuggire alle attive ricerche dei gendarmi, il Tarfù e i suoi si rifecero vivi nell’agosto del 1850, a spese del parroco di Sottochiesa. Non che i preti, specie da quelle parti, fossero particolarmente ricchi, ma perché non erano pochi i parrocchiani che consegnavano al loro parroco i loro modesti gioielli di famiglia, ritenendo che nella canonica fossero al sicuro, senza contare poi le offerte che venivano fatte in chiesa.
Il parroco fece però in tempo a barricarsi in casa e i banditi non furono in grado di sfondare il robusto portone d’ingresso. Dopo aver cercato a lungo, ma inutilmente un’altra entrata, se ne dovettero andare, non prima però di aver fracassato a sassate alcuni vetri delle finestre. Poi la cattura, avvenuta verso l’autunno di quello stesso anno. La corte marziale lo dichiarò colpevole di duplice diserzione, oltre a rapine, furti e violenze e lo condannò a morte per impiccagione. La sentenza, confermata dal comando militare di Verona, venne eseguita a Bergamo il 28 gennaio 1851. Unica concessione del comando militare, la commutazione delle modalità di esecuzione: alla forca venne sostituita la fucilazione. Un tempo la mulattiera che da Zogno porta al Monte di Nese era assai praticata perché era uno dei percorsi più agevoli per raggiungere la Valle Seriana e Bergamo dalla Valle Brembana. Quanti si recavano da una valle all’altra per trasportare, a dorso di asino o mulo, i loro prodotti, erano soliti sostare in località Gromasnì, un piccolo spiazzo erboso vicino ad una fresca sorgente che sgorga ancora oggi abbondante. Non di rado quello spiazzo era luogo d’incontro e scambio di merci tra mercanti, una specie di mercato dove i prodotti portati dalla città venivano scambiati con quelli delle vallate. Nel 1848 quel luogo fu teatro di un sanguinosa rapina compiuta da una banda di briganti capeggiati da una donna. Vittima della rapina, conclusasi tragicamente, fu Giovan Battista Calvi, un contadino di Poscante il quale si era recato a Bergamo, attraverso la strada del Monte di Nese, per vendere una sua mucca. Passando per Valtesse, era stato notato dalla levatrice del paese, la stessa che faceva servizio anche a Poscante. Costei, appurato che il contadino sarebbe stato di ritorno in serata, senza la mucca, ma con un bel gruzzolo di almeno duecento lire, corse ad avvertire i briganti dell’imminente possibilità di fare un po’ di soldi senza troppe complicazioni. Fu così che levatrice e briganti si appostarono nei pressi della sorgente di Gromasnì, in attesa del ritorno del Calvi, il quale infatti a tarda sera aveva preso la strada di casa, assieme a un compaesano.
Giunto al luogo dell’agguato, il Calvi fu facilmente immobilizzato dai briganti, che erano mascherati e per di più protetti dal buio. Lasciato andare il compagno, si diedero a perquisire il Calvi per sottrargli il denaro, ma il malcapitato, nel tentativo di sottrarsi alla rapina, strappò la maschera alla levatrice e la riconobbe. Costei, allora, per non farsi denunciare, cavò di tasca un lungo coltello e glielo conficcò in un fianco, poi si diede alla fuga con il resto della compagnia, convinta di averlo ucciso. Nel frattempo il compagno di viaggio era giunto a Poscante ed aveva dato l’allarme. I parenti e gli amici del rapinato si precipitarono a prestargli soccorso, ma lo trovarono ormai dissanguato e in fin di vita. Prima di spirare il poveretto ebbe però il tempo di denunciare la colpevole, che pochi giorni dopo venne arrestata, condannata a morte ed impiccata sugli spalti della Fara a Bergamo. Fu l’ultima esecuzione della giustizia austriaca prima delle rivolte patriottiche del 1848. La storia di un’altra brigantessa è ambientata nella media Valle Seriana e precisamente ad Abbazia di Albino dove c’era un’osteria gestita da un’ostessa talmente bella e gentile da richiamare nel locale la migliore clientela della zona. L’ostessa si intratteneva volentieri a chiacchierare con gli avventori e sempre si dimostrava disponibile verso ogni loro esigenza, ma sotto l’apparenza così a modo si celava una ben diversa realtà: la donna era niente meno che a capo di una banda di briganti i quali imperversavano nella media valle e tenevano la base operativa in una caverna del monte Misma, dove nascondevano il bottino e si riunivano per progettare nuove aggressioni ai danni dei malcapitati viandanti che percorrevano le buie strade della zona.
L’ostessa, di notte, si travestiva da uomo e con i capelli che le coprivano le guance simulava una lunga barba biondiccia. Tuttavia non era proprio così malvagia come potrebbe sembrare, infatti, quando nella sua osteria capitava qualche individuo che le andava a genio, faceva di tutto per convincerlo a non inoltrarsi di notte lungo strade deserte e sconosciute e in tal modo gli evitava di cadere nelle mani dei briganti. Ovviamente questo strano comportamento dell’ostessa riguardava solo gli avventori a lei simpatici e solitamente persone giovani ed eleganti, mentre per tutti gli altri non c’era scampo. Fortunato fu quel giovane medico che si era fermato all’osteria per bersi un bicchiere di vino ed essendo ormai prossima la notte fu più volte avvertito dalla donna di non mettersi in viaggio a quell’ora, perché correva il rischio di brutti incontri. Ma siccome il medico non voleva saperne e insisteva per riprendere il viaggio, avendo urgenza di visitare alcuni suoi pazienti, l’ostessa volle a tutti i costi farlo accompagnare da un suo figliolo. La mattina dopo giunse notizia di una sanguinosa aggressione compiuta dalla solita banda ai danni di alcuni mercanti di ritorno dalla fiera di Bergamo. La rapina era stata compiuta proprio lungo la strada dove era da poco transitato anche il giovane medico, il quale ne era però uscito incolume proprio perché in compagnia del ragazzo. Le preziose informazioni fornite alla polizia da alcuni viandanti che erano riusciti a fuggire consentirono di arrestare il marito e il fratello della bella ostessa, la quale risultò pure implicata nell’azione e nel processo che ne seguì si beccò dieci anni di galera.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

L’uomo che parlava coi morti

Giovannino era un uomo grande e grosso e forte di quelli che non hanno paura di nulla, neppure del diavolo. Faceva volentieri tutti quei mestieri che nessuno vuol fare, e in tal modo faceva contenta molta gente. Così anche quando fu chiamato in comune per fare il sotterra morti, lui fu pronto a farlo senza indugio. La prima settimana non andò molto male, perché non era morto nessuno e lui passava il tempo a pulire i viali del camposanto, a strappare le erbacce, a scopare e ripulire le croci. Si recava sotto negli ossari e con uno straccio puliva e lustrava le teste dei morti e puliva i denti con lo spazzolino e rimetteva insieme gli scheletri: insomma il tempo gli passava bene ed era un lavoro piacevole. Un giorno che piovigginava e lui non sapeva proprio che cosa fare, gli venne in mente di alzare il coperchio di una tomba e di calarsi all’interno per vedere che cosa c’era.

 

I morti erano tranquilli, proprio morti. Poi nel muro intravide una porta e l’aprì per vedere. Non appena aperta la porta scorse una luce, un sole splendente: si vedevano dei giardini pieni di vari fiori e piante cariche di frutti d’ogni qualità; e vicino a lui c’era un albero con dei pomi rossi e belli: “io ne ho colto uno e subito al posto del pomo raccolto ne è cresciuto un altro”. Intanto vedeva i morti che passeggiavano, i ragazzi che giocavano, insomma era una scena che nessuno avrebbe creduto, se non l’avesse visto. A un certo punto vede un tale che era appena morto, lo riconosce e tutto emozionato lo chiama per nome; ma quello non risponde e continua a camminare per la sua strada. Lo rincorre e quando gli è vicino fa il gesto di prenderlo per una mano per fermarlo ma la mano non c’è ! Giovannino gli si para davanti come per sbarrargli la strada: il morto ha una faccia né rossa né pallida con un colore incerto e torbido; ma la bocca era sorridente e gli occhi sembravano quelli di persona contenta. Però non parlava mentre poteva scrivere e scriveva per terra.

 

Egli scrisse per terra che la morte è bella e che è soltanto il corpo che muore mentre l’anima dei buoni vive anche sotto terra, vive bene ed è contenta. “Vivo meglio di tè, e più contento; e così passo l’eternità come puoi constatare. E questa è la vera vita”. Così aveva scritto per terra. Giovannino uscì fuori dalla tomba grandemente meravigliato ma contento per quello che aveva visto. Andò di corsa a cercare il prete per raccontare la sua avventura ma il prete non gli presta fede e lo fa passare per matto. Anche la gente e le autorità non gli credono. Ma questo non vuol dire nulla, perché la verità è sottoterra e resterà sempre dove è.

Giovannino era un uomo grande e grosso e forte di quelli che non hanno paura di nulla, neppure del diavolo. Faceva volentieri tutti quei mestieri che nessuno vuol fare, e in tal modo faceva contenta molta gente. Così anche quando fu chiamato in comune per fare il sotterra morti, lui fu pronto a farlo senza indugio. La prima settimana non andò molto male, perché non era morto nessuno e lui passava il tempo a pulire i viali del camposanto, a strappare le erbacce, a scopare e ripulire le croci. Si recava sotto negli ossari e con uno straccio puliva e lustrava le teste dei morti e puliva i denti con lo spazzolino e rimetteva insieme gli scheletri: insomma il tempo gli passava bene ed era un lavoro piacevole. Un giorno che piovigginava e lui non sapeva proprio che cosa fare, gli venne in mente di alzare il coperchio di una tomba e di calarsi all’interno per vedere che cosa c’era.

 

I morti erano tranquilli, proprio morti. Poi nel muro intravide una porta e l’aprì per vedere. Non appena aperta la porta scorse una luce, un sole splendente: si vedevano dei giardini pieni di vari fiori e piante cariche di frutti d’ogni qualità; e vicino a lui c’era un albero con dei pomi rossi e belli: “io ne ho colto uno e subito al posto del pomo raccolto ne è cresciuto un altro”. Intanto vedeva i morti che passeggiavano, i ragazzi che giocavano, insomma era una scena che nessuno avrebbe creduto, se non l’avesse visto. A un certo punto vede un tale che era appena morto, lo riconosce e tutto emozionato lo chiama per nome; ma quello non risponde e continua a camminare per la sua strada. Lo rincorre e quando gli è vicino fa il gesto di prenderlo per una mano per fermarlo ma la mano non c’è ! Giovannino gli si para davanti come per sbarrargli la strada: il morto ha una faccia né rossa né pallida con un colore incerto e torbido; ma la bocca era sorridente e gli occhi sembravano quelli di persona contenta. Però non parlava mentre poteva scrivere e scriveva per terra.

 

Egli scrisse per terra che la morte è bella e che è soltanto il corpo che muore mentre l’anima dei buoni vive anche sotto terra, vive bene ed è contenta. “Vivo meglio di tè, e più contento; e così passo l’eternità come puoi constatare. E questa è la vera vita”. Così aveva scritto per terra. Giovannino uscì fuori dalla tomba grandemente meravigliato ma contento per quello che aveva visto. Andò di corsa a cercare il prete per raccontare la sua avventura ma il prete non gli presta fede e lo fa passare per matto. Anche la gente e le autorità non gli credono. Ma questo non vuol dire nulla, perché la verità è sottoterra e resterà sempre dove è.

Sono parecchi i racconti aventi per protagonisti cani feroci o mansueti, a seconda dei casi, che a un certo punto della storia si mettono a parlare lasciando di stucco i loro interlocutori. Quelli che seguono sono solo alcuni esempi di tale razza canina. Un boscaiolo di Alzano stava facendo ritorno a casa dopo una giornata di duro lavoro nei boschi di Gavarno. Camminava lentamente lungo la mulattiera rischiarata un poco dalla fievole luce della luna. Ad un tratto notò davanti a sè un cane bianco che scodinzolava e sembrava desideroso della sua compagnia. Alquanto sorpreso per quella inattesa apparizione, ma abbastanza tranquillo per l’atteggiamento tutt’altro che minaccioso dell’animale, il boscaiolo proseguì il cammino, mentre il nuovo venuto scorrazzava un po’ davanti e un po’ dietro a lui. Arrivato vicino a casa e visto che il cane non accennava ad andarsene, anzi sembrava averlo eletto a suo padrone, il viandante gli si avvicinò e allungò la mano con l’intenzione di accarezzarlo. Ma la sua sorpresa fu grande quando l’animale, arrestatosi di colpo e aperta la bocca, gli chiese: “Che cosa vuoi da me?”. Ciò detto, se ne sparì nel folto del bosco, lasciando il boscaiolo con il braccio ancora proteso in avanti, in preda a un comprensibile terrore. Riavutosi un poco, si precipitò verso casa, ma non ebbe la forza di raggiungerla e cadde svenuto in mezzo alla strada. Qui fu trovato qualche ora più tardi dai parenti, allarmati per il suo insolito ritardo.
Gli ci vollero un paio di mesi per ristabilirsi e dopo di allora il boscaiolo di Alzano non ebbe più il coraggio di passare da solo per quella strada. Anche la storia che segue, intitolata ol cagnì, e raccontata da un’anziana donna della media Valle Brembana, ha per protagonista un cane parlante il quale, a differenza degli altri, si rivela buono e incaricato di una missione di salvezza. La riportiamo nel dialetto dell’informatrice.
Öna ölta gh’era öna tusa che la gh’era öna madrégna catìa, che la ga ülìa miga be. Ü dé la madrégna la ga dis a sta tusa: “‘Ndèm che ‘n va ‘n dèl bosc a per ciclamini!”. Quande chi è stade ‘n dèl bosc, cola scüsa dè ‘nda a èt ü laùr, la madrégna l’a lagà la tusa dè per le e l’è scapàda a ca. La tusa, piena dè pura, l’a cimà töta la sìra e l’a sircà la strada per turnà a ca, ma sensa truàla. Quande l’è sta nòcc, l’a truà öna baita e la gh’è riàda a ‘nda dè dét e l’a cumincià a dormé. La matina la sét chi pica àla porta e töta spaentàda, la ‘a a èrs. ‘L gh’è dè fò ü cagnì, con d’ü fagutì ligà sö al còl, che ‘l ga dis: ” ‘L ma manda ol tò angel cüstòde dèl Paradìs, ta gh’é dè dé sö tre ave Marie che domà ‘l vé la Madona a töt, ‘n chesto fagutì gh’è ét öna fèta dè polénta, ü michét dè pà e ‘n po’ dè formài”. La matina dopo la sét chi ciàma fò dela baita, la ‘a a èt e la èt la Madona che la l’a istìda dè bianc, con d’ü nastro blö e la l’a portàda ‘n ciél.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001