In varie località si raccontava la vicenda di quella donna (ma da qualche parte il protagonista era un uomo), che da giovane aveva osato dare uno schiaffo o un calcio alla madre (o al padre). Questo atto scellerato aveva pesato sulla coscienza della colpevole per tutta la vita e aveva avuto conseguenze anche dopo la morte. Giunta alla fine dei suoi giorni, infatti, la donna che aveva picchiato sua madre era stata sepolta nel camposanto, ma non aveva trovato pace. Qualche giorno dopo la sepoltura, i visitatori del cimitero avevano notato che sopra la tomba della donna c’era della terra smossa e dalla stessa fuoriusciva un braccio con la mano aperta rivolta verso il cielo. Con grande spavento di tutti, erano stati chiamati i necrofori che avevano provveduto a rimettere tutto al loro posto. Ma invano, dopo alcuni giorni la mano colpevole era riapparsa con le sue dita secche e orrendamente rivolte all’insù a ghermire l’aria. Per poter rimettere le cosa a posto era dovuto intervenire il parroco che, ottenutane licenza dal vescovo, aveva impartito a quella defunta senza pace una speciale benedizione che le aveva finalmente garantito il riposo eterno. Stessa sorte era toccata a un giovane di Calusco che era annegato nell’Adda e poi era stato sepolto nel cimitero del paese. Nei giorni seguenti, con grande spavento di tutti, era stato trovato con la gamba destra che sporgeva fuori della tomba, e anche in questo caso non ci fu verso di farla stare al suo posto, tanto che finì con l’essere lasciata lì e fu in seguito divorata dai cani. Anche in questo caso si apprese che il giovane aveva gravemente mancato di rispetto al padre, colpendolo con una pedata. Non meno spaventosa la sorte di una donna di Valcanale che aveva osato sfidare il sonno eterno dei defunti. Si racconta che durante una delle solite serate passate a far veglia in una stalla, intente a filare la lana e a rammendare vecchie calze consumate dall’uso quotidiano, alcune donne di Valcanale portarono i loro discorsi sulla paura dei morti e sul coraggio. Si sosteneva che nessuna delle presenti avrebbe osato recarsi da sola, nottetempo, nel cimitero di quel paesino, dove si diceva che ogni tanto accadevano degli strani fenomeni. Ma una di queste donne, che si riteneva coraggiosa e non credeva nelle fandonie circolanti in paese, dichiarò che non avrebbe avuto alcun problema a recarsi nel cimitero, proprio quella sera stessa, allo scoccare della mezzanotte, e per provare che c’era stata veramente avrebbe conficcato il fuso su una tomba. Le altre, invece di dissuaderla, la incitarono a compiere l’impresa e così, allo scoccare della mezzanotte, la coraggiosa si diresse verso il cimitero. Quello che accadde poi può solo essere ipotizzato, perché nessuno assistette alla tremenda scena. La donna, aperto il cancello del cimitero, si aggirò un momento tra le tombe, poi raggiunse quella di un uomo che, da vivo, le aveva mancato più volte di rispetto e conficcò con rabbia il fuso nella terra che la ricopriva. Ma, mentre si voltava per andarsene, sentì una mano che le ghermiva la gonna e la tirava con una forza irresistibile dentro la tomba. Lo spavento fu tale che la poveretta cadde a terra morta.
La mattina seguente le altre donne, non avendola vista tornare, si recarono al cimitero e scoprirono una scena raccapricciante: la loro compagna era stesa sopra la tomba con la faccia digrignata in una smorfia atroce e le braccia rivolte verso l’uscita, come se volesse scappare. La sua gonna, strappata, era stata tirata quasi del tutto dentro la terra, come se il morto avesse voluto trascinare la donna con sé dentro la bara. Assai paurosa fu anche l’avventura vissuta parecchi anni fa dalla comunità di Luzzana. Una sera alcune donne, intente a recitare il rosario all’ingresso del cimitero, furono scosse da una sonora risata proveniente dall’interno. Dopo l’iniziale comprensibile sbigottimento, si fecero coraggio ed entrarono nel cimitero, così poterono scorgere, appollaiato sopra una pietra tombale, il fantasma di un loro compaesano, detto il Moèta, un libertino impenitente, morto alcuni giorni addietro, dopo aver rifiutato i conforti religiosi. Fu subito avvisato il parroco, il quale si precipitò nel cimitero e riuscì a parlare col Moèta, venendo così a sapere che il morto non poteva sopportare di stare sepolto in quel luogo, a causa del suono delle campane che gli procuravano ogni volta atroci sofferenze. Egli chiedeva solo una cosa: essere trasportato lontano dal paese e sepolto in una valle dove non arrivasse il suono delle campane. Il parroco, consultatosi con il sindaco, decise di accogliere la richiesta del Moèta e, aiutato da due necrofori, si recò la notte seguente nel cimitero, portando un capiente sacco. Il fantasma del Moèta stava ancora lì, sopra la sua tomba, in attesa del loro arrivo e non fu difficile convincerlo ad entrare nel sacco. Il difficile venne dopo, durante il tragitto verso la valle. Il sacco, portato a turno dai due necrofori, diventava infatti sempre più pesante e la strada era lunga e impervia, per cui pareva quasi impossibile portare a termine l’impresa. Poi il sacco cominciò anche a scottare e così i due poveri becchini dovettero più volte passarsi quell’orribile fardello, costretti a fermarsi ogni pochi metri, sudati e ansimanti, per tirate un po’ il fiato. Finalmente, quando ormai il sacco era diventato pesantissimo e quasi incandescente, la strana comitiva raggiunse la valle solitaria dove non arrivava il suono delle campane. Qui il sacco contenente l’anima dannata del Moèta fu fatto precipitare in un profondo burrone, dal quale poco dopo giunsero urla selvagge e sinistri bagliori. Poi tutto tornò tranquillo. Da allora il Moèta non si è fatto più sentire e quella valle adesso porta il suo nome.
A proposito di picchiatori, si racconta anche di quel parrocchiano che durante un diverbio col parroco gli aveva affibbiato un potente calcione. Il sacerdote messo fuori combattimento da quel colpo inatteso, si era rivolto al suo picchiatore e gli aveva intimato: “Vattene dal paese e non farti più vedere a meno che non ti penta del tuo gesto e torni a chiedere perdono. Intanto porterai con te il ricordo di questa sacrilega aggressione!”. L’altro se ne era dovuto andare, anche perché i suoi compaesani non lo accettavano più dopo quello che aveva fatto. Ma dopo qualche giorno cominciò a sentire i primi effetti della profezia del suo parroco: la gamba che aveva sferrato il calcio cominciò a dolergli di un dolore sordo e persistente che non lo lasciava un attimo. Il male andò via via aumentando fino a diventare insopportabile e finalmente l’uomo comprese che questo era il castigo che gli toccava per aver mancato di rispetto al parroco. Allora decise di tornare al suo paese per chiedere perdono, ma arrivato, apprese che il parroco era morto da qualche giorno, di crepacuore, non avendo potuto superare l’umiliazione della percossa subita. Così il colpevole non poté chiedere perdono e non ottenne di guarire dal suo male alla gamba, che peggiorò ancora di più fino a farlo morire tra atroci sofferenze.
Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001
In varie località si raccontava la vicenda di quella donna (ma da qualche parte il protagonista era un uomo), che da giovane aveva osato dare uno schiaffo o un calcio alla madre (o al padre). Questo atto scellerato aveva pesato sulla coscienza della colpevole per tutta la vita e aveva avuto conseguenze anche dopo la morte. Giunta alla fine dei suoi giorni, infatti, la donna che aveva picchiato sua madre era stata sepolta nel camposanto, ma non aveva trovato pace. Qualche giorno dopo la sepoltura, i visitatori del cimitero avevano notato che sopra la tomba della donna c’era della terra smossa e dalla stessa fuoriusciva un braccio con la mano aperta rivolta verso il cielo. Con grande spavento di tutti, erano stati chiamati i necrofori che avevano provveduto a rimettere tutto al loro posto. Ma invano, dopo alcuni giorni la mano colpevole era riapparsa con le sue dita secche e orrendamente rivolte all’insù a ghermire l’aria. Per poter rimettere le cosa a posto era dovuto intervenire il parroco che, ottenutane licenza dal vescovo, aveva impartito a quella defunta senza pace una speciale benedizione che le aveva finalmente garantito il riposo eterno. Stessa sorte era toccata a un giovane di Calusco che era annegato nell’Adda e poi era stato sepolto nel cimitero del paese. Nei giorni seguenti, con grande spavento di tutti, era stato trovato con la gamba destra che sporgeva fuori della tomba, e anche in questo caso non ci fu verso di farla stare al suo posto, tanto che finì con l’essere lasciata lì e fu in seguito divorata dai cani. Anche in questo caso si apprese che il giovane aveva gravemente mancato di rispetto al padre, colpendolo con una pedata. Non meno spaventosa la sorte di una donna di Valcanale che aveva osato sfidare il sonno eterno dei defunti. Si racconta che durante una delle solite serate passate a far veglia in una stalla, intente a filare la lana e a rammendare vecchie calze consumate dall’uso quotidiano, alcune donne di Valcanale portarono i loro discorsi sulla paura dei morti e sul coraggio. Si sosteneva che nessuna delle presenti avrebbe osato recarsi da sola, nottetempo, nel cimitero di quel paesino, dove si diceva che ogni tanto accadevano degli strani fenomeni. Ma una di queste donne, che si riteneva coraggiosa e non credeva nelle fandonie circolanti in paese, dichiarò che non avrebbe avuto alcun problema a recarsi nel cimitero, proprio quella sera stessa, allo scoccare della mezzanotte, e per provare che c’era stata veramente avrebbe conficcato il fuso su una tomba. Le altre, invece di dissuaderla, la incitarono a compiere l’impresa e così, allo scoccare della mezzanotte, la coraggiosa si diresse verso il cimitero. Quello che accadde poi può solo essere ipotizzato, perché nessuno assistette alla tremenda scena. La donna, aperto il cancello del cimitero, si aggirò un momento tra le tombe, poi raggiunse quella di un uomo che, da vivo, le aveva mancato più volte di rispetto e conficcò con rabbia il fuso nella terra che la ricopriva. Ma, mentre si voltava per andarsene, sentì una mano che le ghermiva la gonna e la tirava con una forza irresistibile dentro la tomba. Lo spavento fu tale che la poveretta cadde a terra morta.
La mattina seguente le altre donne, non avendola vista tornare, si recarono al cimitero e scoprirono una scena raccapricciante: la loro compagna era stesa sopra la tomba con la faccia digrignata in una smorfia atroce e le braccia rivolte verso l’uscita, come se volesse scappare. La sua gonna, strappata, era stata tirata quasi del tutto dentro la terra, come se il morto avesse voluto trascinare la donna con sé dentro la bara. Assai paurosa fu anche l’avventura vissuta parecchi anni fa dalla comunità di Luzzana. Una sera alcune donne, intente a recitare il rosario all’ingresso del cimitero, furono scosse da una sonora risata proveniente dall’interno. Dopo l’iniziale comprensibile sbigottimento, si fecero coraggio ed entrarono nel cimitero, così poterono scorgere, appollaiato sopra una pietra tombale, il fantasma di un loro compaesano, detto il Moèta, un libertino impenitente, morto alcuni giorni addietro, dopo aver rifiutato i conforti religiosi. Fu subito avvisato il parroco, il quale si precipitò nel cimitero e riuscì a parlare col Moèta, venendo così a sapere che il morto non poteva sopportare di stare sepolto in quel luogo, a causa del suono delle campane che gli procuravano ogni volta atroci sofferenze. Egli chiedeva solo una cosa: essere trasportato lontano dal paese e sepolto in una valle dove non arrivasse il suono delle campane. Il parroco, consultatosi con il sindaco, decise di accogliere la richiesta del Moèta e, aiutato da due necrofori, si recò la notte seguente nel cimitero, portando un capiente sacco. Il fantasma del Moèta stava ancora lì, sopra la sua tomba, in attesa del loro arrivo e non fu difficile convincerlo ad entrare nel sacco. Il difficile venne dopo, durante il tragitto verso la valle. Il sacco, portato a turno dai due necrofori, diventava infatti sempre più pesante e la strada era lunga e impervia, per cui pareva quasi impossibile portare a termine l’impresa. Poi il sacco cominciò anche a scottare e così i due poveri becchini dovettero più volte passarsi quell’orribile fardello, costretti a fermarsi ogni pochi metri, sudati e ansimanti, per tirate un po’ il fiato. Finalmente, quando ormai il sacco era diventato pesantissimo e quasi incandescente, la strana comitiva raggiunse la valle solitaria dove non arrivava il suono delle campane. Qui il sacco contenente l’anima dannata del Moèta fu fatto precipitare in un profondo burrone, dal quale poco dopo giunsero urla selvagge e sinistri bagliori. Poi tutto tornò tranquillo. Da allora il Moèta non si è fatto più sentire e quella valle adesso porta il suo nome.
A proposito di picchiatori, si racconta anche di quel parrocchiano che durante un diverbio col parroco gli aveva affibbiato un potente calcione. Il sacerdote messo fuori combattimento da quel colpo inatteso, si era rivolto al suo picchiatore e gli aveva intimato: “Vattene dal paese e non farti più vedere a meno che non ti penta del tuo gesto e torni a chiedere perdono. Intanto porterai con te il ricordo di questa sacrilega aggressione!”. L’altro se ne era dovuto andare, anche perché i suoi compaesani non lo accettavano più dopo quello che aveva fatto. Ma dopo qualche giorno cominciò a sentire i primi effetti della profezia del suo parroco: la gamba che aveva sferrato il calcio cominciò a dolergli di un dolore sordo e persistente che non lo lasciava un attimo. Il male andò via via aumentando fino a diventare insopportabile e finalmente l’uomo comprese che questo era il castigo che gli toccava per aver mancato di rispetto al parroco. Allora decise di tornare al suo paese per chiedere perdono, ma arrivato, apprese che il parroco era morto da qualche giorno, di crepacuore, non avendo potuto superare l’umiliazione della percossa subita. Così il colpevole non poté chiedere perdono e non ottenne di guarire dal suo male alla gamba, che peggiorò ancora di più fino a farlo morire tra atroci sofferenze.
Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001
Ai nostri giorni ci pensa la televisione a riempire le serate di racconti più o meno avvincenti e intriganti, non per questo è venuta meno la predisposizione della gente comune a dar vita a suggestioni collettive che fanno capolino qua e là nei modi più impensati. Si tratta, ad esempio, delle famose leggende metropolitane, trasposizione moderna delle incredibili vicende di una volta, che prendono corpo, anche e soprattutto negli ambienti giovanili, e si alimentano sull’onda del passaparola, finendo talvolta per acquistare un’improbabile quanto effimera veridicità. Non estranea a queste tendenze è la Valle Brembana, dove pure si assiste con sorpresa al riproporsi di questi temi cari alle generazioni passate.
E’ il caso, ad esempio, della leggenda dell’autostoppista fantasma che circola da tempo tra i giovani della valle ed ora è di dominio pubblico, anche per merito della professoressa Stefania Fumagalli che ne ha fatto oggetto di un interessante studio antropologico. La serata non era stata delle più elettrizzanti. Il disk jockey dello Snoopy di Serina ce l’aveva messa tutta per tenere alta l’atmosfera, ma la musica, le luci e gli amici non erano riusciti a dargli la solita carica e così Luca, superata da un bel po’ la mezzanotte, si era deciso di lasciare la compagnia e tornarsene a casa a smaltire il sonno arretrato, anche perché il pomeriggio del giorno dopo l’attendeva una impegnativa gara di atletica, in vista della quale si era preparato ben bene per tutta la settimana. Vuotò il bicchiere di birra, salutò gli amici e uscì all’aperto, respirando di gusto l’aria fresca e umida della notte. Raggiunse la sua piccola auto sportiva, mise in moto e uscì dal parcheggio, districandosi non senza difficoltà nella selva di veicoli parcheggiati alla rinfusa. Fu allora che scorse sul margine della strada la figura minuta di una ragazza che col braccio teso chiedeva un passaggio.
Doveva essere uscita da poco dalla discoteca, per quanto il suo abbigliamento, una giacchetta bianca attillata e una gonnellina blu a pieghe, lunga fino al ginocchio e di taglio piuttosto antiquato, apparisse poco intonato con la moda degli abituali frequentatori del locale, decisamente sul casual e con tonalità in prevalenza scure e poco appariscenti. Come era sua abitudine, alla vista dell’autostoppista, Luca bloccò l’automobile, che stridette sulla sabbia del ciglio stradale. “Vuoi un passaggio?” chiese abbassando il finestrino di destra. “Mi porti fino a Zogno?” annuì la ragazza con voce incolore, aprendo la portiera e accomodandosi sul sedile. “Ciao, sono Luca” fece lui, ripartendo di gran carriera. “Cristina” biascicò la ragazza, sistemandosi i capelli con le mani “Eri allo Snoopy? Non ti ho notato in tutta la serata”. “Per la verità sono stata seduta in un angolo tutta la serata. Sempre la stessa musica, monotona e assordante. E poi ho dovuto tenere a bada un rompiscatole che mi ha importunata fin dall’inizio”. “Hai ragione, la musica che passa qui non è il massimo. Sempre la solita storia, è per questo che ci vengo di rado.
A me piace ben altro”. Così dicendo accese lo stereo e subito l’abitacolo fu inondato dalle note limpide e cristalline dell’ultimo disco di Vasco Rossi. “Che ne dici?” chiese il ragazzo alzando un po’ il volume e canticchiando il motivo sopra la voce roca del cantautore. “Mai sentita” rispose la ragazza assorta in chissà quali pensieri. L’automobile procedeva veloce lungo i tornanti e le strettoie della Val Serina. Erano quasi arrivati nell’orrido di Bracca e i fanali illuminavano le alte e nere pareti strapiombanti sulla strada, conferendo alla roccia un aspetto inquietante. “Non mi sembra di averti mai vista. Sei di Zogno? – riprese Luca con la vaga intenzione di imbastire con la ragazza una parvenza di dialogo – non ti ho mai notata nemmeno a scuola. Io sono stato fino all’anno scorso a Camanghé”.
“Anch’io ho frequentato quella scuola per un po’, ma adesso manco dalla valle da parecchio tempo” rispose stancamente la ragazza, dando a vedere che non aveva la minima intenzione di continuare la conversazione. L’automobile uscì dall’orrido e imboccò rombando il rettilineo antistante lo stabilimento della Fonte Bracca. “Lasciami qui – fece all’improvviso la ragazza – sono arrivata”. Luca accostò l’auto al marciapiedi e si fermò, ma non poté fare a meno di manifestare la propria sorpresa: in quella zona, a parte lo stabilimento, non c’erano costruzioni, nessuna casa d’abitazione, lui lo sapeva bene, perché ci aveva lavorato, alla Bracca, per un paio di estati, tra un anno scolastico e l’altro. Nessun altro edificio, salvo il piccolo cimitero di Ambria, quasi soffocato dall’impianto industriale. “Ma dove abiti? Qui non ci sono case. Non è che ti sei sbagliata?”. “Ciao, buona notte” fece la ragazza per tutta risposta, scendendo dall’auto con un sospiro e accostando stancamente la portiera. “Ma vai al Diavolo!” mormorò tra sé Luca, ripartendo come un razzo e dando volume al suo Clarion che lo ripagò con le superbe note del concerto di Imola di Vasco. Dovette ripensare a quello strano incontro la mattina del giorno dopo, quando tirò fuori l’auto dal box per andare in paese.
Notò infatti che da sotto sedile laterale sporgevano i manici di una piccola borsetta nera, certamente dimenticata dalla ragazza della sera prima. Per niente entusiasta della prospettiva di dover consegnare la borsetta alla legittima proprietaria, cercò tra gli oggetti che vi erano contenuti i documenti, li trovò e così poté risalire all’identità e al domicilio della ragazza. Ma quello che vide sulla carta di identità non mancò di sorprenderlo un’altra volta: Cristina era nata il 10 agosto 1965, aveva quindi trentaquattro anni e questo gli sembrava incomprensibile, dato che all’apparenza la ragazza ne dimostrava a malapena venti. Con fastidio ripose i documenti nella borsetta, la gettò in malo modo sul sedile della vettura, mise in moto, uscì dal box e partì con la sua solita irruenza, suscitando l’immancabile commento isterico della madre che dal terrazzo aveva osservato i suoi movimenti, ma non aveva avuto il tempo di chiedere spiegazioni e informarsi sul perché di quella improvvisa partenza, né tanto meno di somministrare al figlio le solite, inascoltate, raccomandazioni alla prudenza. Pochi minuti dopo l’auto si arrestò davanti a una villetta unifamiliare di Ambria, circondata da un bel giardino delimitato da una bassa inferriata. Luca scese dall’auto tenendo in mano la borsetta, si diresse verso il cancello, premette il pulsante del citofono e rimase in attesa. Dopo un attimo si affacciò alla porta una donna di bassa statura, dalla folta capigliatura brizzolata e dall’aria interrogativa. “Buongiorno, signora, abita qui Cristina? Ieri sera mi ha chiesto un passaggio e ha dimenticato la borsetta sulla mia macchina, eccola, gliel’ho riportata”.
“Arda che me gh’o miga òia de schersà! Va’ a ca tò, vilàno, e laga sta la me tusa”. Questa fu la risposta risentita e angosciata della donna che subito rientrò in casa sbattendo la porta. Convinto di essere incappato in una famiglia di matti, ma comunque desideroso di chiudere questa faccenda, Luca premette di nuovo e a lungo il pulsante. Questa volta apparvero sul pianerottolo due uomini, uno magro, sulla sessantina, certamente il marito della donna di prima, e l’altro giovane e robusto, probabilmente il figlio. I due raggiunsero quasi correndo il cancello, l’aprirono e si avvicinarono con fare minaccioso a Luca. “De che banda ègnela chèla bursèta? Famla ‘mpó èt a me!” chiese bruscamente quello che sembrava il padre. Luca, alquanto preoccupato per la piega che stava prendendo quello strano incontro, fece del suo meglio per apparire credibile e raccontò come la sera precedente avesse dato un passaggio a una ragazza di nome Cristina, descrivendone meticolosamente l’aspetto e l’abbigliamento e come costei si fosse poi bruscamente congedata all’altezza del cimitero di Ambria senza dare spiegazioni, infine mostrò la borsetta dimenticata in macchina.
“Io sono venuto solo per restituire la borsetta e ho dovuto aprirla per trovare l’indirizzo di quella che penso sia vostra figlia, chiedete a lei se non è vero. Ecco, prendete – proseguì porgendo la borsetta all’uomo più anziano – verificate che non manchi niente”. “Mi ricordo che aveva una borsetta come questa – singhiozzò la madre che nel frattempo si era avvicinata ai tre ed era rimasta ad ascoltare in silenzio il racconto di Luca – ma non può essere sua, comunque la ragazza non poteva certo essere la mia Cristina”. Poi prese la borsetta dalle mani del marito e cominciò a rovistarne affannosamente il contenuto, quindi, trovata la carta d’identità, la aprì con le mani tremanti per l’emozione. Impallidì e quasi perse l’equilibrio, poi, appoggiandosi al marito, esclamò con un filo di voce: “Madóna me, l’è pròpe le Arda ‘n po a’ te. Com’el pusìbel se la me Cristina l’è morta quìndes àgn fa?”. E così Luca venne a sapere che la misteriosa ragazza era morta quindici anni prima in un incidente stradale, verificatosi proprio all’uscita dell’orrido di Bracca, mentre stava rincasando in autostop dopo una serata trascorsa nella discoteca Snoopy di Serina. E la sua tomba era nel piccolo cimitero davanti al quale aveva chiesto di scendere dall’auto.
Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001