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Autore: valbrembanaweb

Picchiatori puniti

In varie località si raccontava la vicenda di quella donna (ma da qualche parte il protagonista era un uomo), che da giovane aveva osato dare uno schiaffo o un calcio alla madre (o al padre). Questo atto scellerato aveva pesato sulla coscienza della colpevole per tutta la vita e aveva avuto conseguenze anche dopo la morte. Giunta alla fine dei suoi giorni, infatti, la donna che aveva picchiato sua madre era stata sepolta nel camposanto, ma non aveva trovato pace. Qualche giorno dopo la sepoltura, i visitatori del cimitero avevano notato che sopra la tomba della donna c’era della terra smossa e dalla stessa fuoriusciva un braccio con la mano aperta rivolta verso il cielo. Con grande spavento di tutti, erano stati chiamati i necrofori che avevano provveduto a rimettere tutto al loro posto. Ma invano, dopo alcuni giorni la mano colpevole era riapparsa con le sue dita secche e orrendamente rivolte all’insù a ghermire l’aria. Per poter rimettere le cosa a posto era dovuto intervenire il parroco che, ottenutane licenza dal vescovo, aveva impartito a quella defunta senza pace una speciale benedizione che le aveva finalmente garantito il riposo eterno. Stessa sorte era toccata a un giovane di Calusco che era annegato nell’Adda e poi era stato sepolto nel cimitero del paese. Nei giorni seguenti, con grande spavento di tutti, era stato trovato con la gamba destra che sporgeva fuori della tomba, e anche in questo caso non ci fu verso di farla stare al suo posto, tanto che finì con l’essere lasciata lì e fu in seguito divorata dai cani. Anche in questo caso si apprese che il giovane aveva gravemente mancato di rispetto al padre, colpendolo con una pedata. Non meno spaventosa la sorte di una donna di Valcanale che aveva osato sfidare il sonno eterno dei defunti. Si racconta che durante una delle solite serate passate a far veglia in una stalla, intente a filare la lana e a rammendare vecchie calze consumate dall’uso quotidiano, alcune donne di Valcanale portarono i loro discorsi sulla paura dei morti e sul coraggio. Si sosteneva che nessuna delle presenti avrebbe osato recarsi da sola, nottetempo, nel cimitero di quel paesino, dove si diceva che ogni tanto accadevano degli strani fenomeni. Ma una di queste donne, che si riteneva coraggiosa e non credeva nelle fandonie circolanti in paese, dichiarò che non avrebbe avuto alcun problema a recarsi nel cimitero, proprio quella sera stessa, allo scoccare della mezzanotte, e per provare che c’era stata veramente avrebbe conficcato il fuso su una tomba. Le altre, invece di dissuaderla, la incitarono a compiere l’impresa e così, allo scoccare della mezzanotte, la coraggiosa si diresse verso il cimitero. Quello che accadde poi può solo essere ipotizzato, perché nessuno assistette alla tremenda scena. La donna, aperto il cancello del cimitero, si aggirò un momento tra le tombe, poi raggiunse quella di un uomo che, da vivo, le aveva mancato più volte di rispetto e conficcò con rabbia il fuso nella terra che la ricopriva. Ma, mentre si voltava per andarsene, sentì una mano che le ghermiva la gonna e la tirava con una forza irresistibile dentro la tomba. Lo spavento fu tale che la poveretta cadde a terra morta.

La mattina seguente le altre donne, non avendola vista tornare, si recarono al cimitero e scoprirono una scena raccapricciante: la loro compagna era stesa sopra la tomba con la faccia digrignata in una smorfia atroce e le braccia rivolte verso l’uscita, come se volesse scappare. La sua gonna, strappata, era stata tirata quasi del tutto dentro la terra, come se il morto avesse voluto trascinare la donna con sé dentro la bara. Assai paurosa fu anche l’avventura vissuta parecchi anni fa dalla comunità di Luzzana. Una sera alcune donne, intente a recitare il rosario all’ingresso del cimitero, furono scosse da una sonora risata proveniente dall’interno. Dopo l’iniziale comprensibile sbigottimento, si fecero coraggio ed entrarono nel cimitero, così poterono scorgere, appollaiato sopra una pietra tombale, il fantasma di un loro compaesano, detto il Moèta, un libertino impenitente, morto alcuni giorni addietro, dopo aver rifiutato i conforti religiosi. Fu subito avvisato il parroco, il quale si precipitò nel cimitero e riuscì a parlare col Moèta, venendo così a sapere che il morto non poteva sopportare di stare sepolto in quel luogo, a causa del suono delle campane che gli procuravano ogni volta atroci sofferenze. Egli chiedeva solo una cosa: essere trasportato lontano dal paese e sepolto in una valle dove non arrivasse il suono delle campane. Il parroco, consultatosi con il sindaco, decise di accogliere la richiesta del Moèta e, aiutato da due necrofori, si recò la notte seguente nel cimitero, portando un capiente sacco. Il fantasma del Moèta stava ancora lì, sopra la sua tomba, in attesa del loro arrivo e non fu difficile convincerlo ad entrare nel sacco. Il difficile venne dopo, durante il tragitto verso la valle. Il sacco, portato a turno dai due necrofori, diventava infatti sempre più pesante e la strada era lunga e impervia, per cui pareva quasi impossibile portare a termine l’impresa. Poi il sacco cominciò anche a scottare e così i due poveri becchini dovettero più volte passarsi quell’orribile fardello, costretti a fermarsi ogni pochi metri, sudati e ansimanti, per tirate un po’ il fiato. Finalmente, quando ormai il sacco era diventato pesantissimo e quasi incandescente, la strana comitiva raggiunse la valle solitaria dove non arrivava il suono delle campane. Qui il sacco contenente l’anima dannata del Moèta fu fatto precipitare in un profondo burrone, dal quale poco dopo giunsero urla selvagge e sinistri bagliori. Poi tutto tornò tranquillo. Da allora il Moèta non si è fatto più sentire e quella valle adesso porta il suo nome.

A proposito di picchiatori, si racconta anche di quel parrocchiano che durante un diverbio col parroco gli aveva affibbiato un potente calcione. Il sacerdote messo fuori combattimento da quel colpo inatteso, si era rivolto al suo picchiatore e gli aveva intimato: “Vattene dal paese e non farti più vedere a meno che non ti penta del tuo gesto e torni a chiedere perdono. Intanto porterai con te il ricordo di questa sacrilega aggressione!”. L’altro se ne era dovuto andare, anche perché i suoi compaesani non lo accettavano più dopo quello che aveva fatto. Ma dopo qualche giorno cominciò a sentire i primi effetti della profezia del suo parroco: la gamba che aveva sferrato il calcio cominciò a dolergli di un dolore sordo e persistente che non lo lasciava un attimo. Il male andò via via aumentando fino a diventare insopportabile e finalmente l’uomo comprese che questo era il castigo che gli toccava per aver mancato di rispetto al parroco. Allora decise di tornare al suo paese per chiedere perdono, ma arrivato, apprese che il parroco era morto da qualche giorno, di crepacuore, non avendo potuto superare l’umiliazione della percossa subita. Così il colpevole non poté chiedere perdono e non ottenne di guarire dal suo male alla gamba, che peggiorò ancora di più fino a farlo morire tra atroci sofferenze.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

In varie località si raccontava la vicenda di quella donna (ma da qualche parte il protagonista era un uomo), che da giovane aveva osato dare uno schiaffo o un calcio alla madre (o al padre). Questo atto scellerato aveva pesato sulla coscienza della colpevole per tutta la vita e aveva avuto conseguenze anche dopo la morte. Giunta alla fine dei suoi giorni, infatti, la donna che aveva picchiato sua madre era stata sepolta nel camposanto, ma non aveva trovato pace. Qualche giorno dopo la sepoltura, i visitatori del cimitero avevano notato che sopra la tomba della donna c’era della terra smossa e dalla stessa fuoriusciva un braccio con la mano aperta rivolta verso il cielo. Con grande spavento di tutti, erano stati chiamati i necrofori che avevano provveduto a rimettere tutto al loro posto. Ma invano, dopo alcuni giorni la mano colpevole era riapparsa con le sue dita secche e orrendamente rivolte all’insù a ghermire l’aria. Per poter rimettere le cosa a posto era dovuto intervenire il parroco che, ottenutane licenza dal vescovo, aveva impartito a quella defunta senza pace una speciale benedizione che le aveva finalmente garantito il riposo eterno. Stessa sorte era toccata a un giovane di Calusco che era annegato nell’Adda e poi era stato sepolto nel cimitero del paese. Nei giorni seguenti, con grande spavento di tutti, era stato trovato con la gamba destra che sporgeva fuori della tomba, e anche in questo caso non ci fu verso di farla stare al suo posto, tanto che finì con l’essere lasciata lì e fu in seguito divorata dai cani. Anche in questo caso si apprese che il giovane aveva gravemente mancato di rispetto al padre, colpendolo con una pedata. Non meno spaventosa la sorte di una donna di Valcanale che aveva osato sfidare il sonno eterno dei defunti. Si racconta che durante una delle solite serate passate a far veglia in una stalla, intente a filare la lana e a rammendare vecchie calze consumate dall’uso quotidiano, alcune donne di Valcanale portarono i loro discorsi sulla paura dei morti e sul coraggio. Si sosteneva che nessuna delle presenti avrebbe osato recarsi da sola, nottetempo, nel cimitero di quel paesino, dove si diceva che ogni tanto accadevano degli strani fenomeni. Ma una di queste donne, che si riteneva coraggiosa e non credeva nelle fandonie circolanti in paese, dichiarò che non avrebbe avuto alcun problema a recarsi nel cimitero, proprio quella sera stessa, allo scoccare della mezzanotte, e per provare che c’era stata veramente avrebbe conficcato il fuso su una tomba. Le altre, invece di dissuaderla, la incitarono a compiere l’impresa e così, allo scoccare della mezzanotte, la coraggiosa si diresse verso il cimitero. Quello che accadde poi può solo essere ipotizzato, perché nessuno assistette alla tremenda scena. La donna, aperto il cancello del cimitero, si aggirò un momento tra le tombe, poi raggiunse quella di un uomo che, da vivo, le aveva mancato più volte di rispetto e conficcò con rabbia il fuso nella terra che la ricopriva. Ma, mentre si voltava per andarsene, sentì una mano che le ghermiva la gonna e la tirava con una forza irresistibile dentro la tomba. Lo spavento fu tale che la poveretta cadde a terra morta.

La mattina seguente le altre donne, non avendola vista tornare, si recarono al cimitero e scoprirono una scena raccapricciante: la loro compagna era stesa sopra la tomba con la faccia digrignata in una smorfia atroce e le braccia rivolte verso l’uscita, come se volesse scappare. La sua gonna, strappata, era stata tirata quasi del tutto dentro la terra, come se il morto avesse voluto trascinare la donna con sé dentro la bara. Assai paurosa fu anche l’avventura vissuta parecchi anni fa dalla comunità di Luzzana. Una sera alcune donne, intente a recitare il rosario all’ingresso del cimitero, furono scosse da una sonora risata proveniente dall’interno. Dopo l’iniziale comprensibile sbigottimento, si fecero coraggio ed entrarono nel cimitero, così poterono scorgere, appollaiato sopra una pietra tombale, il fantasma di un loro compaesano, detto il Moèta, un libertino impenitente, morto alcuni giorni addietro, dopo aver rifiutato i conforti religiosi. Fu subito avvisato il parroco, il quale si precipitò nel cimitero e riuscì a parlare col Moèta, venendo così a sapere che il morto non poteva sopportare di stare sepolto in quel luogo, a causa del suono delle campane che gli procuravano ogni volta atroci sofferenze. Egli chiedeva solo una cosa: essere trasportato lontano dal paese e sepolto in una valle dove non arrivasse il suono delle campane. Il parroco, consultatosi con il sindaco, decise di accogliere la richiesta del Moèta e, aiutato da due necrofori, si recò la notte seguente nel cimitero, portando un capiente sacco. Il fantasma del Moèta stava ancora lì, sopra la sua tomba, in attesa del loro arrivo e non fu difficile convincerlo ad entrare nel sacco. Il difficile venne dopo, durante il tragitto verso la valle. Il sacco, portato a turno dai due necrofori, diventava infatti sempre più pesante e la strada era lunga e impervia, per cui pareva quasi impossibile portare a termine l’impresa. Poi il sacco cominciò anche a scottare e così i due poveri becchini dovettero più volte passarsi quell’orribile fardello, costretti a fermarsi ogni pochi metri, sudati e ansimanti, per tirate un po’ il fiato. Finalmente, quando ormai il sacco era diventato pesantissimo e quasi incandescente, la strana comitiva raggiunse la valle solitaria dove non arrivava il suono delle campane. Qui il sacco contenente l’anima dannata del Moèta fu fatto precipitare in un profondo burrone, dal quale poco dopo giunsero urla selvagge e sinistri bagliori. Poi tutto tornò tranquillo. Da allora il Moèta non si è fatto più sentire e quella valle adesso porta il suo nome.

A proposito di picchiatori, si racconta anche di quel parrocchiano che durante un diverbio col parroco gli aveva affibbiato un potente calcione. Il sacerdote messo fuori combattimento da quel colpo inatteso, si era rivolto al suo picchiatore e gli aveva intimato: “Vattene dal paese e non farti più vedere a meno che non ti penta del tuo gesto e torni a chiedere perdono. Intanto porterai con te il ricordo di questa sacrilega aggressione!”. L’altro se ne era dovuto andare, anche perché i suoi compaesani non lo accettavano più dopo quello che aveva fatto. Ma dopo qualche giorno cominciò a sentire i primi effetti della profezia del suo parroco: la gamba che aveva sferrato il calcio cominciò a dolergli di un dolore sordo e persistente che non lo lasciava un attimo. Il male andò via via aumentando fino a diventare insopportabile e finalmente l’uomo comprese che questo era il castigo che gli toccava per aver mancato di rispetto al parroco. Allora decise di tornare al suo paese per chiedere perdono, ma arrivato, apprese che il parroco era morto da qualche giorno, di crepacuore, non avendo potuto superare l’umiliazione della percossa subita. Così il colpevole non poté chiedere perdono e non ottenne di guarire dal suo male alla gamba, che peggiorò ancora di più fino a farlo morire tra atroci sofferenze.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Ai nostri giorni ci pensa la televisione a riempire le serate di racconti più o meno avvincenti e intriganti, non per questo è venuta meno la predisposizione della gente comune a dar vita a suggestioni collettive che fanno capolino qua e là nei modi più impensati. Si tratta, ad esempio, delle famose leggende metropolitane, trasposizione moderna delle incredibili vicende di una volta, che prendono corpo, anche e soprattutto negli ambienti giovanili, e si alimentano sull’onda del passaparola, finendo talvolta per acquistare un’improbabile quanto effimera veridicità. Non estranea a queste tendenze è la Valle Brembana, dove pure si assiste con sorpresa al riproporsi di questi temi cari alle generazioni passate.

E’ il caso, ad esempio, della leggenda dell’autostoppista fantasma che circola da tempo tra i giovani della valle ed ora è di dominio pubblico, anche per merito della professoressa Stefania Fumagalli che ne ha fatto oggetto di un interessante studio antropologico. La serata non era stata delle più elettrizzanti. Il disk jockey dello Snoopy di Serina ce l’aveva messa tutta per tenere alta l’atmosfera, ma la musica, le luci e gli amici non erano riusciti a dargli la solita carica e così Luca, superata da un bel po’ la mezzanotte, si era deciso di lasciare la compagnia e tornarsene a casa a smaltire il sonno arretrato, anche perché il pomeriggio del giorno dopo l’attendeva una impegnativa gara di atletica, in vista della quale si era preparato ben bene per tutta la settimana. Vuotò il bicchiere di birra, salutò gli amici e uscì all’aperto, respirando di gusto l’aria fresca e umida della notte. Raggiunse la sua piccola auto sportiva, mise in moto e uscì dal parcheggio, districandosi non senza difficoltà nella selva di veicoli parcheggiati alla rinfusa. Fu allora che scorse sul margine della strada la figura minuta di una ragazza che col braccio teso chiedeva un passaggio.

Doveva essere uscita da poco dalla discoteca, per quanto il suo abbigliamento, una giacchetta bianca attillata e una gonnellina blu a pieghe, lunga fino al ginocchio e di taglio piuttosto antiquato, apparisse poco intonato con la moda degli abituali frequentatori del locale, decisamente sul casual e con tonalità in prevalenza scure e poco appariscenti. Come era sua abitudine, alla vista dell’autostoppista, Luca bloccò l’automobile, che stridette sulla sabbia del ciglio stradale. “Vuoi un passaggio?” chiese abbassando il finestrino di destra. “Mi porti fino a Zogno?” annuì la ragazza con voce incolore, aprendo la portiera e accomodandosi sul sedile. “Ciao, sono Luca” fece lui, ripartendo di gran carriera. “Cristina” biascicò la ragazza, sistemandosi i capelli con le mani “Eri allo Snoopy? Non ti ho notato in tutta la serata”. “Per la verità sono stata seduta in un angolo tutta la serata. Sempre la stessa musica, monotona e assordante. E poi ho dovuto tenere a bada un rompiscatole che mi ha importunata fin dall’inizio”. “Hai ragione, la musica che passa qui non è il massimo. Sempre la solita storia, è per questo che ci vengo di rado.

A me piace ben altro”. Così dicendo accese lo stereo e subito l’abitacolo fu inondato dalle note limpide e cristalline dell’ultimo disco di Vasco Rossi. “Che ne dici?” chiese il ragazzo alzando un po’ il volume e canticchiando il motivo sopra la voce roca del cantautore. “Mai sentita” rispose la ragazza assorta in chissà quali pensieri. L’automobile procedeva veloce lungo i tornanti e le strettoie della Val Serina. Erano quasi arrivati nell’orrido di Bracca e i fanali illuminavano le alte e nere pareti strapiombanti sulla strada, conferendo alla roccia un aspetto inquietante. “Non mi sembra di averti mai vista. Sei di Zogno? – riprese Luca con la vaga intenzione di imbastire con la ragazza una parvenza di dialogo – non ti ho mai notata nemmeno a scuola. Io sono stato fino all’anno scorso a Camanghé”.

“Anch’io ho frequentato quella scuola per un po’, ma adesso manco dalla valle da parecchio tempo” rispose stancamente la ragazza, dando a vedere che non aveva la minima intenzione di continuare la conversazione. L’automobile uscì dall’orrido e imboccò rombando il rettilineo antistante lo stabilimento della Fonte Bracca. “Lasciami qui – fece all’improvviso la ragazza – sono arrivata”. Luca accostò l’auto al marciapiedi e si fermò, ma non poté fare a meno di manifestare la propria sorpresa: in quella zona, a parte lo stabilimento, non c’erano costruzioni, nessuna casa d’abitazione, lui lo sapeva bene, perché ci aveva lavorato, alla Bracca, per un paio di estati, tra un anno scolastico e l’altro. Nessun altro edificio, salvo il piccolo cimitero di Ambria, quasi soffocato dall’impianto industriale. “Ma dove abiti? Qui non ci sono case. Non è che ti sei sbagliata?”. “Ciao, buona notte” fece la ragazza per tutta risposta, scendendo dall’auto con un sospiro e accostando stancamente la portiera. “Ma vai al Diavolo!” mormorò tra sé Luca, ripartendo come un razzo e dando volume al suo Clarion che lo ripagò con le superbe note del concerto di Imola di Vasco. Dovette ripensare a quello strano incontro la mattina del giorno dopo, quando tirò fuori l’auto dal box per andare in paese.

Notò infatti che da sotto sedile laterale sporgevano i manici di una piccola borsetta nera, certamente dimenticata dalla ragazza della sera prima. Per niente entusiasta della prospettiva di dover consegnare la borsetta alla legittima proprietaria, cercò tra gli oggetti che vi erano contenuti i documenti, li trovò e così poté risalire all’identità e al domicilio della ragazza. Ma quello che vide sulla carta di identità non mancò di sorprenderlo un’altra volta: Cristina era nata il 10 agosto 1965, aveva quindi trentaquattro anni e questo gli sembrava incomprensibile, dato che all’apparenza la ragazza ne dimostrava a malapena venti. Con fastidio ripose i documenti nella borsetta, la gettò in malo modo sul sedile della vettura, mise in moto, uscì dal box e partì con la sua solita irruenza, suscitando l’immancabile commento isterico della madre che dal terrazzo aveva osservato i suoi movimenti, ma non aveva avuto il tempo di chiedere spiegazioni e informarsi sul perché di quella improvvisa partenza, né tanto meno di somministrare al figlio le solite, inascoltate, raccomandazioni alla prudenza. Pochi minuti dopo l’auto si arrestò davanti a una villetta unifamiliare di Ambria, circondata da un bel giardino delimitato da una bassa inferriata. Luca scese dall’auto tenendo in mano la borsetta, si diresse verso il cancello, premette il pulsante del citofono e rimase in attesa. Dopo un attimo si affacciò alla porta una donna di bassa statura, dalla folta capigliatura brizzolata e dall’aria interrogativa. “Buongiorno, signora, abita qui Cristina? Ieri sera mi ha chiesto un passaggio e ha dimenticato la borsetta sulla mia macchina, eccola, gliel’ho riportata”.

“Arda che me gh’o miga òia de schersà! Va’ a ca tò, vilàno, e laga sta la me tusa”. Questa fu la risposta risentita e angosciata della donna che subito rientrò in casa sbattendo la porta. Convinto di essere incappato in una famiglia di matti, ma comunque desideroso di chiudere questa faccenda, Luca premette di nuovo e a lungo il pulsante. Questa volta apparvero sul pianerottolo due uomini, uno magro, sulla sessantina, certamente il marito della donna di prima, e l’altro giovane e robusto, probabilmente il figlio. I due raggiunsero quasi correndo il cancello, l’aprirono e si avvicinarono con fare minaccioso a Luca. “De che banda ègnela chèla bursèta? Famla ‘mpó èt a me!” chiese bruscamente quello che sembrava il padre. Luca, alquanto preoccupato per la piega che stava prendendo quello strano incontro, fece del suo meglio per apparire credibile e raccontò come la sera precedente avesse dato un passaggio a una ragazza di nome Cristina, descrivendone meticolosamente l’aspetto e l’abbigliamento e come costei si fosse poi bruscamente congedata all’altezza del cimitero di Ambria senza dare spiegazioni, infine mostrò la borsetta dimenticata in macchina.

“Io sono venuto solo per restituire la borsetta e ho dovuto aprirla per trovare l’indirizzo di quella che penso sia vostra figlia, chiedete a lei se non è vero. Ecco, prendete – proseguì porgendo la borsetta all’uomo più anziano – verificate che non manchi niente”. “Mi ricordo che aveva una borsetta come questa – singhiozzò la madre che nel frattempo si era avvicinata ai tre ed era rimasta ad ascoltare in silenzio il racconto di Luca – ma non può essere sua, comunque la ragazza non poteva certo essere la mia Cristina”. Poi prese la borsetta dalle mani del marito e cominciò a rovistarne affannosamente il contenuto, quindi, trovata la carta d’identità, la aprì con le mani tremanti per l’emozione. Impallidì e quasi perse l’equilibrio, poi, appoggiandosi al marito, esclamò con un filo di voce: “Madóna me, l’è pròpe le Arda ‘n po a’ te. Com’el pusìbel se la me Cristina l’è morta quìndes àgn fa?”. E così Luca venne a sapere che la misteriosa ragazza era morta quindici anni prima in un incidente stradale, verificatosi proprio all’uscita dell’orrido di Bracca, mentre stava rincasando in autostop dopo una serata trascorsa nella discoteca Snoopy di Serina. E la sua tomba era nel piccolo cimitero davanti al quale aveva chiesto di scendere dall’auto.

 

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Briganti e brigantesse

Storie di briganti, più o meno famose e romanzesche, sono assai diffuse in tutta la Bergamasca, al punto che la loro narrazione potrebbe occupare un intero libro. In questa sede ci limitiamo a presentare solo alcuni esempi significativi, riferendo anche i casi documentati di due brigantesse che dimostrarono di non essere da meno dei loro più noti compari maschi. A metà dell’Ottocento imperversò in Val Taleggio il brigante Angelo Pessina, detto Tarfù. dal nome dialettale di una grossa larva che si annida nei tronchi degli alberi, di preferenza giovani noci, e si nutre della loro polpa, scavando lunghi cunicoli che arrecano danni gravi e talvolta irreparabili alla pianta. Essendo praticamente impossibile snidare il parassita senza danneggiare il legno, i contadini lo combattono introducendo nel cunicolo un tratto di miccia o uno stoppino imbevuto di liquido infiammabile a cui danno fuoco. Il Tarfù era arrivato in valle all’inizio del 1849, disertore dall’esercito austriaco, nelle cui fila aveva militato fino alla conclusione della guerra contro il Piemonte. L’esercito era in procinto di smobilitare e lui, come tanti altri, di fronte alla prospettiva di un lungo e ostile soggiorno in terra austriaca aveva preferito darsi alla macchia, cosa che del resto aveva già fatto, seppur per un breve periodo, tempo addietro. La Valle Taleggio parve al Pessina il luogo ideale per sfuggire alle ricerche delle forze dell’ordine: guai a farsi mettere le mani addosso dai gendarmi austriaci: essendo disertore recidivo, e per di più in stato di guerra, avrebbe rischiato la fucilazione.

All’inizio si era arrangiato alla meglio, in tutta solitudine, rubando nelle cascine lo stretto necessario per sopravvivere o dandosi alla cattura di uccelli, rane, lumache e quant’altro offrivano i boschi della valle. Ben presto, però, si accorse che ci poteva essere un altro e più redditizio mezzo per campare. Gli era capitato più volte di incontrare, nascosti nelle baite dell’Alben o del Baciamorti, degli sbandati o disertori suoi pari, gente che per un motivo o per l’altro aveva tutte le ragioni per stare alla larga dalla comunità civile, alcuni già dediti al brigantaggio organizzato, altri in procinto di aggregarsi in banda. Che cosa poteva rischiare il Pessina, diventando un brigante, oltre alla pena di morte già meritata con la diserzione? Tanto valeva vivere alla grande più a lungo che poteva, nella remota speranza che qualcosa potesse prima o poi cambiare. La prima rapina fu compiuta ai danni del parroco della Pianca, il quale fu aggredito nella sua canonica e derubato dei soldi e di altri oggetti di valore per l’importo di un migliaio di lire. Probabilmente il Tarfù ebbe in quella prima azione un ruolo subalterno, ma le sue doti di coraggio, l’abilità organizzativa e soprattutto la forte personalità lo portarono quasi subito alla guida del gruppo che verrà poi identificato col suo nome. Questa nuova leadership segnò un salto di qualità nelle successive imprese banditesche. Pochi giorni dopo l’aggressione al parroco della Pianca, la banda fu protagonista di un episodio clamoroso che ebbe per teatro il paese di Sottochiesa. Alla guida di una dozzina di briganti ben armati, il Tarfù penetrò nel municipio e sequestrò il sindaco Locatelli, chiedendo un riscatto di ben tredicimila lire.

Per tutta la giornata il paese rimase in balia dei malviventi che, per convincere la popolazione a consegnare il denaro, sottoposero il sequestrato a ripetuti maltrattamenti e minacce di morte. Alla fine le pretese dei sequestratori si ridussero a poco meno di duemila lire, che vennero effettivamente sborsate. Non senza che il Tarfù si prendesse un interesse supplementare, facendosi consegnare due marenghi d’oro dal vicesindaco, in cambio della garanzia che avrebbe usato la propria autorevole influenza sui compagni nel convincerli a ridimensionare le pretese. Ormai la banda era uscita allo scoperto: l’azione di Sottochiesa aveva rivelato l’identità dei suoi componenti e la polizia aveva spiccato mandati di cattura per ciascuno. Ma di tali mandati la banda Tarfù parve non tener minimamente conto, tanto è vero che mise a segno subito dopo un altro colpo. Calati su Cassiglio, in alta Valle Brembana, i malviventi assalirono l’abitazione di un commerciante e lo rapinarono di sedici talleri. Pochi giorni dopo fu la volta del santuario di Salzana, presso Pizzino, il cui cappellano fu fermato sul sagrato mentre era intento a leggere il breviario e costretto a consegnare i cinque franchi che aveva con sé. Dopo un periodo di oltre un anno, durante il quale dovettero cambiare aria per sfuggire alle attive ricerche dei gendarmi, il Tarfù e i suoi si rifecero vivi nell’agosto del 1850, a spese del parroco di Sottochiesa. Non che i preti, specie da quelle parti, fossero particolarmente ricchi, ma perché non erano pochi i parrocchiani che consegnavano al loro parroco i loro modesti gioielli di famiglia, ritenendo che nella canonica fossero al sicuro, senza contare poi le offerte che venivano fatte in chiesa.

Il parroco fece però in tempo a barricarsi in casa e i banditi non furono in grado di sfondare il robusto portone d’ingresso. Dopo aver cercato a lungo, ma inutilmente un’altra entrata, se ne dovettero andare, non prima però di aver fracassato a sassate alcuni vetri delle finestre. Poi la cattura, avvenuta verso l’autunno di quello stesso anno. La corte marziale lo dichiarò colpevole di duplice diserzione, oltre a rapine, furti e violenze e lo condannò a morte per impiccagione. La sentenza, confermata dal comando militare di Verona, venne eseguita a Bergamo il 28 gennaio 1851. Unica concessione del comando militare, la commutazione delle modalità di esecuzione: alla forca venne sostituita la fucilazione. Un tempo la mulattiera che da Zogno porta al Monte di Nese era assai praticata perché era uno dei percorsi più agevoli per raggiungere la Valle Seriana e Bergamo dalla Valle Brembana. Quanti si recavano da una valle all’altra per trasportare, a dorso di asino o mulo, i loro prodotti, erano soliti sostare in località Gromasnì, un piccolo spiazzo erboso vicino ad una fresca sorgente che sgorga ancora oggi abbondante. Non di rado quello spiazzo era luogo d’incontro e scambio di merci tra mercanti, una specie di mercato dove i prodotti portati dalla città venivano scambiati con quelli delle vallate. Nel 1848 quel luogo fu teatro di un sanguinosa rapina compiuta da una banda di briganti capeggiati da una donna. Vittima della rapina, conclusasi tragicamente, fu Giovan Battista Calvi, un contadino di Poscante il quale si era recato a Bergamo, attraverso la strada del Monte di Nese, per vendere una sua mucca. Passando per Valtesse, era stato notato dalla levatrice del paese, la stessa che faceva servizio anche a Poscante. Costei, appurato che il contadino sarebbe stato di ritorno in serata, senza la mucca, ma con un bel gruzzolo di almeno duecento lire, corse ad avvertire i briganti dell’imminente possibilità di fare un po’ di soldi senza troppe complicazioni. Fu così che levatrice e briganti si appostarono nei pressi della sorgente di Gromasnì, in attesa del ritorno del Calvi, il quale infatti a tarda sera aveva preso la strada di casa, assieme a un compaesano.

Giunto al luogo dell’agguato, il Calvi fu facilmente immobilizzato dai briganti, che erano mascherati e per di più protetti dal buio. Lasciato andare il compagno, si diedero a perquisire il Calvi per sottrargli il denaro, ma il malcapitato, nel tentativo di sottrarsi alla rapina, strappò la maschera alla levatrice e la riconobbe. Costei, allora, per non farsi denunciare, cavò di tasca un lungo coltello e glielo conficcò in un fianco, poi si diede alla fuga con il resto della compagnia, convinta di averlo ucciso. Nel frattempo il compagno di viaggio era giunto a Poscante ed aveva dato l’allarme. I parenti e gli amici del rapinato si precipitarono a prestargli soccorso, ma lo trovarono ormai dissanguato e in fin di vita. Prima di spirare il poveretto ebbe però il tempo di denunciare la colpevole, che pochi giorni dopo venne arrestata, condannata a morte ed impiccata sugli spalti della Fara a Bergamo. Fu l’ultima esecuzione della giustizia austriaca prima delle rivolte patriottiche del 1848. La storia di un’altra brigantessa è ambientata nella media Valle Seriana e precisamente ad Abbazia di Albino dove c’era un’osteria gestita da un’ostessa talmente bella e gentile da richiamare nel locale la migliore clientela della zona. L’ostessa si intratteneva volentieri a chiacchierare con gli avventori e sempre si dimostrava disponibile verso ogni loro esigenza, ma sotto l’apparenza così a modo si celava una ben diversa realtà: la donna era niente meno che a capo di una banda di briganti i quali imperversavano nella media valle e tenevano la base operativa in una caverna del monte Misma, dove nascondevano il bottino e si riunivano per progettare nuove aggressioni ai danni dei malcapitati viandanti che percorrevano le buie strade della zona.

L’ostessa, di notte, si travestiva da uomo e con i capelli che le coprivano le guance simulava una lunga barba biondiccia. Tuttavia non era proprio così malvagia come potrebbe sembrare, infatti, quando nella sua osteria capitava qualche individuo che le andava a genio, faceva di tutto per convincerlo a non inoltrarsi di notte lungo strade deserte e sconosciute e in tal modo gli evitava di cadere nelle mani dei briganti. Ovviamente questo strano comportamento dell’ostessa riguardava solo gli avventori a lei simpatici e solitamente persone giovani ed eleganti, mentre per tutti gli altri non c’era scampo. Fortunato fu quel giovane medico che si era fermato all’osteria per bersi un bicchiere di vino ed essendo ormai prossima la notte fu più volte avvertito dalla donna di non mettersi in viaggio a quell’ora, perché correva il rischio di brutti incontri. Ma siccome il medico non voleva saperne e insisteva per riprendere il viaggio, avendo urgenza di visitare alcuni suoi pazienti, l’ostessa volle a tutti i costi farlo accompagnare da un suo figliolo. La mattina dopo giunse notizia di una sanguinosa aggressione compiuta dalla solita banda ai danni di alcuni mercanti di ritorno dalla fiera di Bergamo. La rapina era stata compiuta proprio lungo la strada dove era da poco transitato anche il giovane medico, il quale ne era però uscito incolume proprio perché in compagnia del ragazzo. Le preziose informazioni fornite alla polizia da alcuni viandanti che erano riusciti a fuggire consentirono di arrestare il marito e il fratello della bella ostessa, la quale risultò pure implicata nell’azione e nel processo che ne seguì si beccò dieci anni di galera.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Storie di briganti, più o meno famose e romanzesche, sono assai diffuse in tutta la Bergamasca, al punto che la loro narrazione potrebbe occupare un intero libro. In questa sede ci limitiamo a presentare solo alcuni esempi significativi, riferendo anche i casi documentati di due brigantesse che dimostrarono di non essere da meno dei loro più noti compari maschi. A metà dell’Ottocento imperversò in Val Taleggio il brigante Angelo Pessina, detto Tarfù. dal nome dialettale di una grossa larva che si annida nei tronchi degli alberi, di preferenza giovani noci, e si nutre della loro polpa, scavando lunghi cunicoli che arrecano danni gravi e talvolta irreparabili alla pianta. Essendo praticamente impossibile snidare il parassita senza danneggiare il legno, i contadini lo combattono introducendo nel cunicolo un tratto di miccia o uno stoppino imbevuto di liquido infiammabile a cui danno fuoco. Il Tarfù era arrivato in valle all’inizio del 1849, disertore dall’esercito austriaco, nelle cui fila aveva militato fino alla conclusione della guerra contro il Piemonte. L’esercito era in procinto di smobilitare e lui, come tanti altri, di fronte alla prospettiva di un lungo e ostile soggiorno in terra austriaca aveva preferito darsi alla macchia, cosa che del resto aveva già fatto, seppur per un breve periodo, tempo addietro. La Valle Taleggio parve al Pessina il luogo ideale per sfuggire alle ricerche delle forze dell’ordine: guai a farsi mettere le mani addosso dai gendarmi austriaci: essendo disertore recidivo, e per di più in stato di guerra, avrebbe rischiato la fucilazione.

All’inizio si era arrangiato alla meglio, in tutta solitudine, rubando nelle cascine lo stretto necessario per sopravvivere o dandosi alla cattura di uccelli, rane, lumache e quant’altro offrivano i boschi della valle. Ben presto, però, si accorse che ci poteva essere un altro e più redditizio mezzo per campare. Gli era capitato più volte di incontrare, nascosti nelle baite dell’Alben o del Baciamorti, degli sbandati o disertori suoi pari, gente che per un motivo o per l’altro aveva tutte le ragioni per stare alla larga dalla comunità civile, alcuni già dediti al brigantaggio organizzato, altri in procinto di aggregarsi in banda. Che cosa poteva rischiare il Pessina, diventando un brigante, oltre alla pena di morte già meritata con la diserzione? Tanto valeva vivere alla grande più a lungo che poteva, nella remota speranza che qualcosa potesse prima o poi cambiare. La prima rapina fu compiuta ai danni del parroco della Pianca, il quale fu aggredito nella sua canonica e derubato dei soldi e di altri oggetti di valore per l’importo di un migliaio di lire. Probabilmente il Tarfù ebbe in quella prima azione un ruolo subalterno, ma le sue doti di coraggio, l’abilità organizzativa e soprattutto la forte personalità lo portarono quasi subito alla guida del gruppo che verrà poi identificato col suo nome. Questa nuova leadership segnò un salto di qualità nelle successive imprese banditesche. Pochi giorni dopo l’aggressione al parroco della Pianca, la banda fu protagonista di un episodio clamoroso che ebbe per teatro il paese di Sottochiesa. Alla guida di una dozzina di briganti ben armati, il Tarfù penetrò nel municipio e sequestrò il sindaco Locatelli, chiedendo un riscatto di ben tredicimila lire.

Per tutta la giornata il paese rimase in balia dei malviventi che, per convincere la popolazione a consegnare il denaro, sottoposero il sequestrato a ripetuti maltrattamenti e minacce di morte. Alla fine le pretese dei sequestratori si ridussero a poco meno di duemila lire, che vennero effettivamente sborsate. Non senza che il Tarfù si prendesse un interesse supplementare, facendosi consegnare due marenghi d’oro dal vicesindaco, in cambio della garanzia che avrebbe usato la propria autorevole influenza sui compagni nel convincerli a ridimensionare le pretese. Ormai la banda era uscita allo scoperto: l’azione di Sottochiesa aveva rivelato l’identità dei suoi componenti e la polizia aveva spiccato mandati di cattura per ciascuno. Ma di tali mandati la banda Tarfù parve non tener minimamente conto, tanto è vero che mise a segno subito dopo un altro colpo. Calati su Cassiglio, in alta Valle Brembana, i malviventi assalirono l’abitazione di un commerciante e lo rapinarono di sedici talleri. Pochi giorni dopo fu la volta del santuario di Salzana, presso Pizzino, il cui cappellano fu fermato sul sagrato mentre era intento a leggere il breviario e costretto a consegnare i cinque franchi che aveva con sé. Dopo un periodo di oltre un anno, durante il quale dovettero cambiare aria per sfuggire alle attive ricerche dei gendarmi, il Tarfù e i suoi si rifecero vivi nell’agosto del 1850, a spese del parroco di Sottochiesa. Non che i preti, specie da quelle parti, fossero particolarmente ricchi, ma perché non erano pochi i parrocchiani che consegnavano al loro parroco i loro modesti gioielli di famiglia, ritenendo che nella canonica fossero al sicuro, senza contare poi le offerte che venivano fatte in chiesa.

Il parroco fece però in tempo a barricarsi in casa e i banditi non furono in grado di sfondare il robusto portone d’ingresso. Dopo aver cercato a lungo, ma inutilmente un’altra entrata, se ne dovettero andare, non prima però di aver fracassato a sassate alcuni vetri delle finestre. Poi la cattura, avvenuta verso l’autunno di quello stesso anno. La corte marziale lo dichiarò colpevole di duplice diserzione, oltre a rapine, furti e violenze e lo condannò a morte per impiccagione. La sentenza, confermata dal comando militare di Verona, venne eseguita a Bergamo il 28 gennaio 1851. Unica concessione del comando militare, la commutazione delle modalità di esecuzione: alla forca venne sostituita la fucilazione. Un tempo la mulattiera che da Zogno porta al Monte di Nese era assai praticata perché era uno dei percorsi più agevoli per raggiungere la Valle Seriana e Bergamo dalla Valle Brembana. Quanti si recavano da una valle all’altra per trasportare, a dorso di asino o mulo, i loro prodotti, erano soliti sostare in località Gromasnì, un piccolo spiazzo erboso vicino ad una fresca sorgente che sgorga ancora oggi abbondante. Non di rado quello spiazzo era luogo d’incontro e scambio di merci tra mercanti, una specie di mercato dove i prodotti portati dalla città venivano scambiati con quelli delle vallate. Nel 1848 quel luogo fu teatro di un sanguinosa rapina compiuta da una banda di briganti capeggiati da una donna. Vittima della rapina, conclusasi tragicamente, fu Giovan Battista Calvi, un contadino di Poscante il quale si era recato a Bergamo, attraverso la strada del Monte di Nese, per vendere una sua mucca. Passando per Valtesse, era stato notato dalla levatrice del paese, la stessa che faceva servizio anche a Poscante. Costei, appurato che il contadino sarebbe stato di ritorno in serata, senza la mucca, ma con un bel gruzzolo di almeno duecento lire, corse ad avvertire i briganti dell’imminente possibilità di fare un po’ di soldi senza troppe complicazioni. Fu così che levatrice e briganti si appostarono nei pressi della sorgente di Gromasnì, in attesa del ritorno del Calvi, il quale infatti a tarda sera aveva preso la strada di casa, assieme a un compaesano.

Giunto al luogo dell’agguato, il Calvi fu facilmente immobilizzato dai briganti, che erano mascherati e per di più protetti dal buio. Lasciato andare il compagno, si diedero a perquisire il Calvi per sottrargli il denaro, ma il malcapitato, nel tentativo di sottrarsi alla rapina, strappò la maschera alla levatrice e la riconobbe. Costei, allora, per non farsi denunciare, cavò di tasca un lungo coltello e glielo conficcò in un fianco, poi si diede alla fuga con il resto della compagnia, convinta di averlo ucciso. Nel frattempo il compagno di viaggio era giunto a Poscante ed aveva dato l’allarme. I parenti e gli amici del rapinato si precipitarono a prestargli soccorso, ma lo trovarono ormai dissanguato e in fin di vita. Prima di spirare il poveretto ebbe però il tempo di denunciare la colpevole, che pochi giorni dopo venne arrestata, condannata a morte ed impiccata sugli spalti della Fara a Bergamo. Fu l’ultima esecuzione della giustizia austriaca prima delle rivolte patriottiche del 1848. La storia di un’altra brigantessa è ambientata nella media Valle Seriana e precisamente ad Abbazia di Albino dove c’era un’osteria gestita da un’ostessa talmente bella e gentile da richiamare nel locale la migliore clientela della zona. L’ostessa si intratteneva volentieri a chiacchierare con gli avventori e sempre si dimostrava disponibile verso ogni loro esigenza, ma sotto l’apparenza così a modo si celava una ben diversa realtà: la donna era niente meno che a capo di una banda di briganti i quali imperversavano nella media valle e tenevano la base operativa in una caverna del monte Misma, dove nascondevano il bottino e si riunivano per progettare nuove aggressioni ai danni dei malcapitati viandanti che percorrevano le buie strade della zona.

L’ostessa, di notte, si travestiva da uomo e con i capelli che le coprivano le guance simulava una lunga barba biondiccia. Tuttavia non era proprio così malvagia come potrebbe sembrare, infatti, quando nella sua osteria capitava qualche individuo che le andava a genio, faceva di tutto per convincerlo a non inoltrarsi di notte lungo strade deserte e sconosciute e in tal modo gli evitava di cadere nelle mani dei briganti. Ovviamente questo strano comportamento dell’ostessa riguardava solo gli avventori a lei simpatici e solitamente persone giovani ed eleganti, mentre per tutti gli altri non c’era scampo. Fortunato fu quel giovane medico che si era fermato all’osteria per bersi un bicchiere di vino ed essendo ormai prossima la notte fu più volte avvertito dalla donna di non mettersi in viaggio a quell’ora, perché correva il rischio di brutti incontri. Ma siccome il medico non voleva saperne e insisteva per riprendere il viaggio, avendo urgenza di visitare alcuni suoi pazienti, l’ostessa volle a tutti i costi farlo accompagnare da un suo figliolo. La mattina dopo giunse notizia di una sanguinosa aggressione compiuta dalla solita banda ai danni di alcuni mercanti di ritorno dalla fiera di Bergamo. La rapina era stata compiuta proprio lungo la strada dove era da poco transitato anche il giovane medico, il quale ne era però uscito incolume proprio perché in compagnia del ragazzo. Le preziose informazioni fornite alla polizia da alcuni viandanti che erano riusciti a fuggire consentirono di arrestare il marito e il fratello della bella ostessa, la quale risultò pure implicata nell’azione e nel processo che ne seguì si beccò dieci anni di galera.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Nella Val Taleggio a Olda, c’era una vecchia chiamata la “pitocca”. Girava nei paesi della val Taleggio a pitoccare casa per casa; era una brutta vecchia gobba, con 2 occhi di civetta, un naso a uncino dal quale colava sempre una goccia; coi capelli bianchi e tutti impegolati . Portava un cappello da uomo nero pieno di buchi, e si vedevano i pidocchi che vi si arrampicavano grossi. Portava un gilet di lana tutto rappreso e una gonna tutta a pezzi unta e bisunta. Camminava a piedi nudi e i piedi erano neri coi calcagni screpolati. Aveva sul braccio una borsa e in mano un bastone. I ragazzi, al vederla fuggivano spaventati e la gente quando la vedevano spuntare, chiudevano le porte perché temevano che entrasse nelle case; mettevano sulla porta una fetta di polenta e un pezzo di stracchino e quando lei aveva raccolto la polenta e lo stracchino, i cani della contrada cominciavano ad abbaiare e la facevano scappare. Il povero padre racconta che un giorno la pitocca era arrivata a Sottochiesa ed era comparsa nella corte delle case.

Lui e i suoi fratelli bambini, stavano giocando; non appena l’hanno vista sono scappati dentro la casa per la paura; quando alla sera sono andati a letto, la paura era raddoppiata; dormivano al piano di sopra tutti i sei fratelli in uno stanzone; erano tre per paglione e mio padre era il più piccolo, lui aveva cinque anni e il più vecchio era mio zio Battista, che aveva tredici anni. Quando l’olio del lume finì (a quel tempo non c’era la luce elettrica) uno dei fratelli cominciò a dire che c’era la pitocca; gli altri erano saltati fuori dal letto, hanno infilato la porta e giù per la scala di legno un po’ in piedi e un po’ a rotoloni! Il nonno sentì che venivan giù a salti; esce dalla porta con la cinghia delle braghe in mano; loro aveva indosso un camicino corto che arrivava al bottone della pancia e più niente davanti; e zacchette con la cinghia sul culetto nudo. Ma loro non son più saliti nello stanzone finche’ il nonno non uscì a vedere se c’era la pitocca. Poi andò di sopra a dormire con loro. Ma forse questa pitocca non era cattiva.

Autostoppista fantasma della Val Serina

Ai nostri giorni ci pensa la televisione a riempire le serate di racconti più o meno avvincenti e intriganti, non per questo è venuta meno la predisposizione della gente comune a dar vita a suggestioni collettive che fanno capolino qua e là nei modi più impensati. Si tratta, ad esempio, delle famose leggende metropolitane, trasposizione moderna delle incredibili vicende di una volta, che prendono corpo, anche e soprattutto negli ambienti giovanili, e si alimentano sull’onda del passaparola, finendo talvolta per acquistare un’improbabile quanto effimera veridicità. Non estranea a queste tendenze è la Valle Brembana, dove pure si assiste con sorpresa al riproporsi di questi temi cari alle generazioni passate.

E’ il caso, ad esempio, della leggenda dell’autostoppista fantasma che circola da tempo tra i giovani della valle ed ora è di dominio pubblico, anche per merito della professoressa Stefania Fumagalli che ne ha fatto oggetto di un interessante studio antropologico. La serata non era stata delle più elettrizzanti. Il disk jockey dello Snoopy di Serina ce l’aveva messa tutta per tenere alta l’atmosfera, ma la musica, le luci e gli amici non erano riusciti a dargli la solita carica e così Luca, superata da un bel po’ la mezzanotte, si era deciso di lasciare la compagnia e tornarsene a casa a smaltire il sonno arretrato, anche perché il pomeriggio del giorno dopo l’attendeva una impegnativa gara di atletica, in vista della quale si era preparato ben bene per tutta la settimana. Vuotò il bicchiere di birra, salutò gli amici e uscì all’aperto, respirando di gusto l’aria fresca e umida della notte. Raggiunse la sua piccola auto sportiva, mise in moto e uscì dal parcheggio, districandosi non senza difficoltà nella selva di veicoli parcheggiati alla rinfusa. Fu allora che scorse sul margine della strada la figura minuta di una ragazza che col braccio teso chiedeva un passaggio.

Doveva essere uscita da poco dalla discoteca, per quanto il suo abbigliamento, una giacchetta bianca attillata e una gonnellina blu a pieghe, lunga fino al ginocchio e di taglio piuttosto antiquato, apparisse poco intonato con la moda degli abituali frequentatori del locale, decisamente sul casual e con tonalità in prevalenza scure e poco appariscenti. Come era sua abitudine, alla vista dell’autostoppista, Luca bloccò l’automobile, che stridette sulla sabbia del ciglio stradale. “Vuoi un passaggio?” chiese abbassando il finestrino di destra. “Mi porti fino a Zogno?” annuì la ragazza con voce incolore, aprendo la portiera e accomodandosi sul sedile. “Ciao, sono Luca” fece lui, ripartendo di gran carriera. “Cristina” biascicò la ragazza, sistemandosi i capelli con le mani “Eri allo Snoopy? Non ti ho notato in tutta la serata”. “Per la verità sono stata seduta in un angolo tutta la serata. Sempre la stessa musica, monotona e assordante. E poi ho dovuto tenere a bada un rompiscatole che mi ha importunata fin dall’inizio”. “Hai ragione, la musica che passa qui non è il massimo. Sempre la solita storia, è per questo che ci vengo di rado.

A me piace ben altro”. Così dicendo accese lo stereo e subito l’abitacolo fu inondato dalle note limpide e cristalline dell’ultimo disco di Vasco Rossi. “Che ne dici?” chiese il ragazzo alzando un po’ il volume e canticchiando il motivo sopra la voce roca del cantautore. “Mai sentita” rispose la ragazza assorta in chissà quali pensieri. L’automobile procedeva veloce lungo i tornanti e le strettoie della Val Serina. Erano quasi arrivati nell’orrido di Bracca e i fanali illuminavano le alte e nere pareti strapiombanti sulla strada, conferendo alla roccia un aspetto inquietante. “Non mi sembra di averti mai vista. Sei di Zogno? – riprese Luca con la vaga intenzione di imbastire con la ragazza una parvenza di dialogo – non ti ho mai notata nemmeno a scuola. Io sono stato fino all’anno scorso a Camanghé”.

“Anch’io ho frequentato quella scuola per un po’, ma adesso manco dalla valle da parecchio tempo” rispose stancamente la ragazza, dando a vedere che non aveva la minima intenzione di continuare la conversazione. L’automobile uscì dall’orrido e imboccò rombando il rettilineo antistante lo stabilimento della Fonte Bracca. “Lasciami qui – fece all’improvviso la ragazza – sono arrivata”. Luca accostò l’auto al marciapiedi e si fermò, ma non poté fare a meno di manifestare la propria sorpresa: in quella zona, a parte lo stabilimento, non c’erano costruzioni, nessuna casa d’abitazione, lui lo sapeva bene, perché ci aveva lavorato, alla Bracca, per un paio di estati, tra un anno scolastico e l’altro. Nessun altro edificio, salvo il piccolo cimitero di Ambria, quasi soffocato dall’impianto industriale. “Ma dove abiti? Qui non ci sono case. Non è che ti sei sbagliata?”. “Ciao, buona notte” fece la ragazza per tutta risposta, scendendo dall’auto con un sospiro e accostando stancamente la portiera. “Ma vai al Diavolo!” mormorò tra sé Luca, ripartendo come un razzo e dando volume al suo Clarion che lo ripagò con le superbe note del concerto di Imola di Vasco. Dovette ripensare a quello strano incontro la mattina del giorno dopo, quando tirò fuori l’auto dal box per andare in paese.

Notò infatti che da sotto sedile laterale sporgevano i manici di una piccola borsetta nera, certamente dimenticata dalla ragazza della sera prima. Per niente entusiasta della prospettiva di dover consegnare la borsetta alla legittima proprietaria, cercò tra gli oggetti che vi erano contenuti i documenti, li trovò e così poté risalire all’identità e al domicilio della ragazza. Ma quello che vide sulla carta di identità non mancò di sorprenderlo un’altra volta: Cristina era nata il 10 agosto 1965, aveva quindi trentaquattro anni e questo gli sembrava incomprensibile, dato che all’apparenza la ragazza ne dimostrava a malapena venti. Con fastidio ripose i documenti nella borsetta, la gettò in malo modo sul sedile della vettura, mise in moto, uscì dal box e partì con la sua solita irruenza, suscitando l’immancabile commento isterico della madre che dal terrazzo aveva osservato i suoi movimenti, ma non aveva avuto il tempo di chiedere spiegazioni e informarsi sul perché di quella improvvisa partenza, né tanto meno di somministrare al figlio le solite, inascoltate, raccomandazioni alla prudenza. Pochi minuti dopo l’auto si arrestò davanti a una villetta unifamiliare di Ambria, circondata da un bel giardino delimitato da una bassa inferriata. Luca scese dall’auto tenendo in mano la borsetta, si diresse verso il cancello, premette il pulsante del citofono e rimase in attesa. Dopo un attimo si affacciò alla porta una donna di bassa statura, dalla folta capigliatura brizzolata e dall’aria interrogativa. “Buongiorno, signora, abita qui Cristina? Ieri sera mi ha chiesto un passaggio e ha dimenticato la borsetta sulla mia macchina, eccola, gliel’ho riportata”.

“Arda che me gh’o miga òia de schersà! Va’ a ca tò, vilàno, e laga sta la me tusa”. Questa fu la risposta risentita e angosciata della donna che subito rientrò in casa sbattendo la porta. Convinto di essere incappato in una famiglia di matti, ma comunque desideroso di chiudere questa faccenda, Luca premette di nuovo e a lungo il pulsante. Questa volta apparvero sul pianerottolo due uomini, uno magro, sulla sessantina, certamente il marito della donna di prima, e l’altro giovane e robusto, probabilmente il figlio. I due raggiunsero quasi correndo il cancello, l’aprirono e si avvicinarono con fare minaccioso a Luca. “De che banda ègnela chèla bursèta? Famla ‘mpó èt a me!” chiese bruscamente quello che sembrava il padre. Luca, alquanto preoccupato per la piega che stava prendendo quello strano incontro, fece del suo meglio per apparire credibile e raccontò come la sera precedente avesse dato un passaggio a una ragazza di nome Cristina, descrivendone meticolosamente l’aspetto e l’abbigliamento e come costei si fosse poi bruscamente congedata all’altezza del cimitero di Ambria senza dare spiegazioni, infine mostrò la borsetta dimenticata in macchina.

“Io sono venuto solo per restituire la borsetta e ho dovuto aprirla per trovare l’indirizzo di quella che penso sia vostra figlia, chiedete a lei se non è vero. Ecco, prendete – proseguì porgendo la borsetta all’uomo più anziano – verificate che non manchi niente”. “Mi ricordo che aveva una borsetta come questa – singhiozzò la madre che nel frattempo si era avvicinata ai tre ed era rimasta ad ascoltare in silenzio il racconto di Luca – ma non può essere sua, comunque la ragazza non poteva certo essere la mia Cristina”. Poi prese la borsetta dalle mani del marito e cominciò a rovistarne affannosamente il contenuto, quindi, trovata la carta d’identità, la aprì con le mani tremanti per l’emozione. Impallidì e quasi perse l’equilibrio, poi, appoggiandosi al marito, esclamò con un filo di voce: “Madóna me, l’è pròpe le Arda ‘n po a’ te. Com’el pusìbel se la me Cristina l’è morta quìndes àgn fa?”. E così Luca venne a sapere che la misteriosa ragazza era morta quindici anni prima in un incidente stradale, verificatosi proprio all’uscita dell’orrido di Bracca, mentre stava rincasando in autostop dopo una serata trascorsa nella discoteca Snoopy di Serina. E la sua tomba era nel piccolo cimitero davanti al quale aveva chiesto di scendere dall’auto.

 

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Ai nostri giorni ci pensa la televisione a riempire le serate di racconti più o meno avvincenti e intriganti, non per questo è venuta meno la predisposizione della gente comune a dar vita a suggestioni collettive che fanno capolino qua e là nei modi più impensati. Si tratta, ad esempio, delle famose leggende metropolitane, trasposizione moderna delle incredibili vicende di una volta, che prendono corpo, anche e soprattutto negli ambienti giovanili, e si alimentano sull’onda del passaparola, finendo talvolta per acquistare un’improbabile quanto effimera veridicità. Non estranea a queste tendenze è la Valle Brembana, dove pure si assiste con sorpresa al riproporsi di questi temi cari alle generazioni passate.

E’ il caso, ad esempio, della leggenda dell’autostoppista fantasma che circola da tempo tra i giovani della valle ed ora è di dominio pubblico, anche per merito della professoressa Stefania Fumagalli che ne ha fatto oggetto di un interessante studio antropologico. La serata non era stata delle più elettrizzanti. Il disk jockey dello Snoopy di Serina ce l’aveva messa tutta per tenere alta l’atmosfera, ma la musica, le luci e gli amici non erano riusciti a dargli la solita carica e così Luca, superata da un bel po’ la mezzanotte, si era deciso di lasciare la compagnia e tornarsene a casa a smaltire il sonno arretrato, anche perché il pomeriggio del giorno dopo l’attendeva una impegnativa gara di atletica, in vista della quale si era preparato ben bene per tutta la settimana. Vuotò il bicchiere di birra, salutò gli amici e uscì all’aperto, respirando di gusto l’aria fresca e umida della notte. Raggiunse la sua piccola auto sportiva, mise in moto e uscì dal parcheggio, districandosi non senza difficoltà nella selva di veicoli parcheggiati alla rinfusa. Fu allora che scorse sul margine della strada la figura minuta di una ragazza che col braccio teso chiedeva un passaggio.

Doveva essere uscita da poco dalla discoteca, per quanto il suo abbigliamento, una giacchetta bianca attillata e una gonnellina blu a pieghe, lunga fino al ginocchio e di taglio piuttosto antiquato, apparisse poco intonato con la moda degli abituali frequentatori del locale, decisamente sul casual e con tonalità in prevalenza scure e poco appariscenti. Come era sua abitudine, alla vista dell’autostoppista, Luca bloccò l’automobile, che stridette sulla sabbia del ciglio stradale. “Vuoi un passaggio?” chiese abbassando il finestrino di destra. “Mi porti fino a Zogno?” annuì la ragazza con voce incolore, aprendo la portiera e accomodandosi sul sedile. “Ciao, sono Luca” fece lui, ripartendo di gran carriera. “Cristina” biascicò la ragazza, sistemandosi i capelli con le mani “Eri allo Snoopy? Non ti ho notato in tutta la serata”. “Per la verità sono stata seduta in un angolo tutta la serata. Sempre la stessa musica, monotona e assordante. E poi ho dovuto tenere a bada un rompiscatole che mi ha importunata fin dall’inizio”. “Hai ragione, la musica che passa qui non è il massimo. Sempre la solita storia, è per questo che ci vengo di rado.

A me piace ben altro”. Così dicendo accese lo stereo e subito l’abitacolo fu inondato dalle note limpide e cristalline dell’ultimo disco di Vasco Rossi. “Che ne dici?” chiese il ragazzo alzando un po’ il volume e canticchiando il motivo sopra la voce roca del cantautore. “Mai sentita” rispose la ragazza assorta in chissà quali pensieri. L’automobile procedeva veloce lungo i tornanti e le strettoie della Val Serina. Erano quasi arrivati nell’orrido di Bracca e i fanali illuminavano le alte e nere pareti strapiombanti sulla strada, conferendo alla roccia un aspetto inquietante. “Non mi sembra di averti mai vista. Sei di Zogno? – riprese Luca con la vaga intenzione di imbastire con la ragazza una parvenza di dialogo – non ti ho mai notata nemmeno a scuola. Io sono stato fino all’anno scorso a Camanghé”.

“Anch’io ho frequentato quella scuola per un po’, ma adesso manco dalla valle da parecchio tempo” rispose stancamente la ragazza, dando a vedere che non aveva la minima intenzione di continuare la conversazione. L’automobile uscì dall’orrido e imboccò rombando il rettilineo antistante lo stabilimento della Fonte Bracca. “Lasciami qui – fece all’improvviso la ragazza – sono arrivata”. Luca accostò l’auto al marciapiedi e si fermò, ma non poté fare a meno di manifestare la propria sorpresa: in quella zona, a parte lo stabilimento, non c’erano costruzioni, nessuna casa d’abitazione, lui lo sapeva bene, perché ci aveva lavorato, alla Bracca, per un paio di estati, tra un anno scolastico e l’altro. Nessun altro edificio, salvo il piccolo cimitero di Ambria, quasi soffocato dall’impianto industriale. “Ma dove abiti? Qui non ci sono case. Non è che ti sei sbagliata?”. “Ciao, buona notte” fece la ragazza per tutta risposta, scendendo dall’auto con un sospiro e accostando stancamente la portiera. “Ma vai al Diavolo!” mormorò tra sé Luca, ripartendo come un razzo e dando volume al suo Clarion che lo ripagò con le superbe note del concerto di Imola di Vasco. Dovette ripensare a quello strano incontro la mattina del giorno dopo, quando tirò fuori l’auto dal box per andare in paese.

Notò infatti che da sotto sedile laterale sporgevano i manici di una piccola borsetta nera, certamente dimenticata dalla ragazza della sera prima. Per niente entusiasta della prospettiva di dover consegnare la borsetta alla legittima proprietaria, cercò tra gli oggetti che vi erano contenuti i documenti, li trovò e così poté risalire all’identità e al domicilio della ragazza. Ma quello che vide sulla carta di identità non mancò di sorprenderlo un’altra volta: Cristina era nata il 10 agosto 1965, aveva quindi trentaquattro anni e questo gli sembrava incomprensibile, dato che all’apparenza la ragazza ne dimostrava a malapena venti. Con fastidio ripose i documenti nella borsetta, la gettò in malo modo sul sedile della vettura, mise in moto, uscì dal box e partì con la sua solita irruenza, suscitando l’immancabile commento isterico della madre che dal terrazzo aveva osservato i suoi movimenti, ma non aveva avuto il tempo di chiedere spiegazioni e informarsi sul perché di quella improvvisa partenza, né tanto meno di somministrare al figlio le solite, inascoltate, raccomandazioni alla prudenza. Pochi minuti dopo l’auto si arrestò davanti a una villetta unifamiliare di Ambria, circondata da un bel giardino delimitato da una bassa inferriata. Luca scese dall’auto tenendo in mano la borsetta, si diresse verso il cancello, premette il pulsante del citofono e rimase in attesa. Dopo un attimo si affacciò alla porta una donna di bassa statura, dalla folta capigliatura brizzolata e dall’aria interrogativa. “Buongiorno, signora, abita qui Cristina? Ieri sera mi ha chiesto un passaggio e ha dimenticato la borsetta sulla mia macchina, eccola, gliel’ho riportata”.

“Arda che me gh’o miga òia de schersà! Va’ a ca tò, vilàno, e laga sta la me tusa”. Questa fu la risposta risentita e angosciata della donna che subito rientrò in casa sbattendo la porta. Convinto di essere incappato in una famiglia di matti, ma comunque desideroso di chiudere questa faccenda, Luca premette di nuovo e a lungo il pulsante. Questa volta apparvero sul pianerottolo due uomini, uno magro, sulla sessantina, certamente il marito della donna di prima, e l’altro giovane e robusto, probabilmente il figlio. I due raggiunsero quasi correndo il cancello, l’aprirono e si avvicinarono con fare minaccioso a Luca. “De che banda ègnela chèla bursèta? Famla ‘mpó èt a me!” chiese bruscamente quello che sembrava il padre. Luca, alquanto preoccupato per la piega che stava prendendo quello strano incontro, fece del suo meglio per apparire credibile e raccontò come la sera precedente avesse dato un passaggio a una ragazza di nome Cristina, descrivendone meticolosamente l’aspetto e l’abbigliamento e come costei si fosse poi bruscamente congedata all’altezza del cimitero di Ambria senza dare spiegazioni, infine mostrò la borsetta dimenticata in macchina.

“Io sono venuto solo per restituire la borsetta e ho dovuto aprirla per trovare l’indirizzo di quella che penso sia vostra figlia, chiedete a lei se non è vero. Ecco, prendete – proseguì porgendo la borsetta all’uomo più anziano – verificate che non manchi niente”. “Mi ricordo che aveva una borsetta come questa – singhiozzò la madre che nel frattempo si era avvicinata ai tre ed era rimasta ad ascoltare in silenzio il racconto di Luca – ma non può essere sua, comunque la ragazza non poteva certo essere la mia Cristina”. Poi prese la borsetta dalle mani del marito e cominciò a rovistarne affannosamente il contenuto, quindi, trovata la carta d’identità, la aprì con le mani tremanti per l’emozione. Impallidì e quasi perse l’equilibrio, poi, appoggiandosi al marito, esclamò con un filo di voce: “Madóna me, l’è pròpe le Arda ‘n po a’ te. Com’el pusìbel se la me Cristina l’è morta quìndes àgn fa?”. E così Luca venne a sapere che la misteriosa ragazza era morta quindici anni prima in un incidente stradale, verificatosi proprio all’uscita dell’orrido di Bracca, mentre stava rincasando in autostop dopo una serata trascorsa nella discoteca Snoopy di Serina. E la sua tomba era nel piccolo cimitero davanti al quale aveva chiesto di scendere dall’auto.

 

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Tanti anni fa in una grotta sul monte Secco, in quel di Piazzatorre, viveva un tipo assai strano, che non si faceva mai vedere in paese, ma passava le sue giornate a lavorare nel bosco, tagliando la legna ed allevando qualche capra da cui ricavava quel poco latte che gli serviva per tenersi in vita. Era vestito rozzamente, con una grossa maglia di lana grezza, dei pantaloni di fustagno pieni di toppe e un paio di zoccoli chiodati da cui spuntavano le dita dei piedi malamente coperte da calzini lisi e bucati da più parti. Particolare curioso ed inspiegabile del suo abbigliamento erano i cappellacci, ben sette, che teneva sempre calcati in testa, uno sopra l’altro, e di cui non si separava mai, forse nemmeno quando si coricava sullo sporco pagliericcio che gli fungeva da letto. Un giorno accadde che un cacciatore di Piazzatorre cercasse il suo cane che si era perso sulla montagna durante una lunga e infruttuosa battuta di caccia alla lepre. Calata la sera e fattosi buio, il cacciatore non poté proseguire le ricerche e decise di passare la notte al riparo di una vecchia e sgangherata baita che era già stata il suo provvidenziale rifugio qualche anno prima, durante un furioso temporale.

Benché stanco per la lunga camminata, ebbe difficoltà a prendere sonno, sia perché si era dovuto sdraiare sul freddo e nudo pavimento della baita, ma soprattutto perché era preoccupato per il suo cane, un segugio dal pelo fulvo e dagli occhi cristallini, sempre in movimento e in cerca di qualche avventura, che tuttavia non si era mai allontanato dal suo padrone più di qualche ora, tornando sempre alla sua cuccia, specie quando c’era da assaporare qualche gustoso bocconcino che il padrone gli propinava come premio dei suoi successi venatori. Finalmente la stanchezza ebbe il sopravvento e il cacciatore riuscì ad addormentarsi, ma nel colmo della notte si svegliò di soprassalto: gli era parso di udire in lontananza il guaito disperato del suo cane, il richiamo lamentoso dell’animale in pericolo. Si alzò, uscì dalla baita, tese l’orecchio e rimase in ascolto, ma nessun rumore proveniva dal bosco, se non il flebile scroscio di un ruscello e il richiamo rauco e lugubre di una civetta, ripetuto stancamente ad intervalli regolari. Trascorso parecchio tempo e convintosi di aver sognato, rientrò nella baita, ma non ci fu verso di riaddormentarsi. Così, ai primi chiarori dell’alba, lasciò il suo rifugio notturno e si inoltrò nel bosco per riprendere le ricerche del cane. A un certo punto, dopo un paio d’ore di inutile girovagare senza una meta precisa, si ricordò di quello strano personaggio dai sette cappelli che gli era capitato qualche rara volta di intravedere ai margini del bosco e che al suo apparire si era affrettato a nascondersi nel fitto degli alberi. La dimora di quel tipo così poco socievole doveva essere in quella zona e forse il cane, stanco e affamato, aveva trovato ospitalità presso di lui. Non si sbagliava: l’uomo dai sette cappelli viveva proprio da quelle parti. Ma sarebbe stato meglio che vivesse migliaia di chilometri più lontano, perché il cacciatore lo incontrò, finalmente, nel fitto del bosco, appena dietro una siepe di arbusti e rovi.

E si trattò di un incontro drammatico. La scena che gli si presentò era terrificante: l’uomo dai sette cappelli, tutto sporco di sangue, era seduto a cavalcioni di un grosso tronco posto all’ingresso della grotta e con un lungo coltellaccio stava facendo a pezzi un animale, divorandone avidamente la carne, cruda e sanguinante. Ci volle solo un attimo al cacciatore per accorgersi che la povera preda dell’uomo dai sette cappelli era un cane, il suo fido segugio! Fuori di sé dal dolore e dalla rabbia, si slanciò contro quell’individuo, con furia omicida, ma l’altro si alzò di scatto e gli si rivoltò contro, minaccioso, brandendo il coltello e cercando di colpirlo. Per fortuna il primo fendente andò a vuoto e ciò consentì al cacciatore di portarsi momentaneamente fuori tiro, ma poiché l’altro continuava a rincorrerlo, intenzionato ad ammazzarlo, dovette darsela a gambe e non si fermò finché non ebbe raggiunto il limitare del bosco. Poi, ormai in salvo, riprese mestamente la via di casa, con l’animo angosciato per quanto era successo a lui e al suo povero cane. A Piazzatorre però la sua storia non fu creduta e tutti ritenevano che la macabra visione che il cacciatore continuava a descrivere nei minimi particolari fosse solo frutto della sua fantasia, magari innaffiata con qualche bicchiere di troppo. Gli amici dell’osteria, con i quali trascorreva le serate a giocare a carte, iniziarono a prendersi gioco di lui e a trattarlo da visionario.

Quanto al cane, che non aveva ovviamente più fatto ritorno, cercavano di tranquillizzarne il proprietario sostenendo che si era preso una vacanza avventurosa e che avrebbe ben presto fatto ritorno a casa, una volta spenti i bollori della scappatella con qualche cagnetta dei paesi vicini. Così, col passare dei giorni anche il cacciatore finì per convincersi di essersi sognato tutto e tornò a nutrire una pur timida speranza nel ritorno del suo cane. Ma avvicinandosi la brutta stagione, uno di quegli amici che avevano tanto deriso il malcapitato cacciatore, forse il più incredulo, si trovò un giorno, sul far del tramonto, a passare dalle parti del monte Secco. Era salito fin lassù in cerca di funghi che in autunno crescono abbondanti in quella zona. Inoltratosi nel bosco, giunse senza saperlo vicino alla grotta dell’uomo dai sette cappelli. Alzato lo sguardo, rimase impietrito dalla scena che apparve ai suoi occhi: l’uomo dai sette cappelli era lì, davanti a lui, e cercava di tenere a bada tre lupi famelici che ringhiando sinistramente stavano dilaniando il cadavere di un povero uomo. L’orribile spettacolo paralizzò il cercatore di funghi che per un attimo si sentì perduto. Per fortuna la sua presenza passò inosservata, così, con grande cautela, riuscì ad allontanarsi e a darsi a precipitosa fuga verso casa.

Gli ci volle parecchio tempo per riprendere l’orientamento; ormai si era fatto buio e procedeva a tentoni nel fitto della boscaglia. La luna filtrava tra gli alberi e proiettava sul terreno ombre terrificanti di mostri che sembravano ghermirlo con poderose zampe munite di artigli affilati e il vento contribuiva a questo gioco spaventoso, rendendo i fantasmi del bosco più sinuosi ed angoscianti. Più morto che vivo, arrivò in paese, chiamò alcuni amici, tra cui il cacciatore che aveva perso il cane, raccontò loro la sua terribile esperienza e li convinse ad organizzare una battuta di caccia al mostro del monte Secco. Con precauzione e in preda a una sorda paura, il mattino seguente il gruppetto raggiunse le pendici della montagna, penetrò nel bosco e arrivò fino alla grotta. All’esterno, seduto sul tronco dell’albero, c’era l’uomo dai sette cappelli che stava consumando il suo orrido pasto con i resti umani lasciati dalle tre belve, le quali, ormai sazie, sonnecchiavano sdraiate ai suoi piedi. Una nutrita scarica di fucilate squarciò il silenzio della montagna. Raggiunto da numerosi colpi, l’uomo dai sette cappelli ebbe ancora la forza di alzarsi, rimase un attimo in piedi, con uno sguardo dolorosamente stupito, poi stramazzò al suolo senza un lamento. Anche i lupi, colpiti a morte nel sonno, si accasciarono in una pozza di sangue. Poi, con grande sorpresa dei cacciatori, l’uomo e le bestie scomparvero sotto terra senza lasciare la minima traccia della loro presenza. I cacciatori, dopo aver a lungo, ma inutilmente cercato qualche indizio che rivelasse l’identità di quel misterioso individuo, se ne tornarono a Piazzatorre dove raccontarono l’accaduto. Da allora questa storia viene sempre narrata dai nonni ai loro nipotini nelle lunghe serate d’inverno, e anche adesso che la televisione ha cancellato il gusto di ascoltare le storie, c’è ancora qualche bambino che di notte sogna brutti incontri con l’uomo dai sette cappelli.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La zia del carrettiere

Una piovosa sera d’autunno, di un’epoca imprecisata, un giovane carrettiere stava discendendo la Valle Brembana guidando il suo cavallo che trainava a fatica un carro carico di legna. L’acciottolato della mulattiera, reso viscido dalla pioggia, e le ampie pozzanghere sparse per ogni dove creavano non poche difficoltà all’animale che doveva essere continuamente pungolato dal suo padrone, il quale, a sua volta, stanco e bagnato fradicio, non vedeva l’ora di concludere il viaggio, pentendosi ad ogni passo di averlo intrapreso malgrado il tempo si annunciasse pessimo. Il paese ormai non era lontano e il giovane sperava di arrivare a casa prima che fosse troppo tardi, in tempo per trovare ancora alzata la sua vecchia e cara zia con la quale viveva da quando gli erano morti i genitori. La strada in quel tratto si inoltrava in un fitto bosco e il carrettiere si trovò immerso di colpo in un buio quasi assoluto, dal momento che la lanterna attaccata a una stanga del carro si era spenta da tempo, investita dai violenti scrosci di pioggia, e non c’era stato verso di riaccenderla. Bisognava quindi procedere quasi a tentoni, fidando nell’istinto del cavallo che doveva conoscere a memoria la strada su cui transitava quasi ogni giorno.

Ma, oltre al buio e all’acquazzone, il giovane era preoccupato da qualcosa di più inquietante e misterioso: quel luogo era famoso per essere infestato da spiriti e da banditi, che non mancavano di importunare i viandanti, facendoli oggetto di aggressioni che non di rado si concludevano con la morte delle vittime. Il carrettiere si dava quindi da fare per uscire dal bosco il più presto possibile, ma la strada in quel tratto era ancora più impraticabile e il carro finì per impantanarsi del tutto, cosicché, malgrado gli sforzi, non fu possibile smuoverlo. Ormai sfinito e senza più speranza di poter riprendere il cammino, il giovane desistette dai suoi sforzi, si rialzò e si guardò intorno nel fitto del bosco che tra acqua, vento e tuoni era immerso in un turbinio infernale.

Fu allora che, con grande stupore, si accorse di una luce fioca che filtrava tra gli alberi a poca distanza. Intenzionato a chiedere aiuto, staccò il cavallo dal carro e tenendo l’animale per le redini si avvicinò alla luce, trovandosi ben presto di fronte a una casetta che non aveva mai visto prima, per quanto passasse spesso da quelle parti. La luce proveniva da una finestrella del piano terreno, attraverso la quale il giovane intravide un’accogliente cucina con un caminetto acceso e una tavola apparecchiata per una persona. Non notò però anima viva. Legato il cavallo alla staccionata, si avvicinò al portone e bussò a lungo, prima timidamente e poi con più energia, chiedendo aiuto e gridando per farsi sentire. Ma nessun segno di vita proveniva dalla casa, allora provò a tirare il catenaccio del portone e si accorse che non era chiuso a chiave. Lo aprì ed entrò in casa, accolto dal piacevole tepore del focolare e dal profumo del pane fresco posto in un cesto al centro della tavola, accanto a un piatto di colmo di grossi pezzi di formaggio, a un vassoio di castagne cotte e a un fiasco di vino.

Dopo aver cercato ancora una volta, ma inutilmente, di far notare la sua presenza ai padroni di casa, il giovane si avvicinò alla tavola e, poiché aveva una fame da lupi, si diede a mangiare di buona lena, consumando in un batter d’occhio quel cibo semplice ma saporito, che sembrava essere stato preparato apposta per lui. Poi, ormai sazio e un po’ brillo per il vino tracannato senza risparmio, si tolse i vestiti inzuppati d’acqua e li pose ad asciugare accanto al focolare. Solo allora si accorse di un grosso gatto soriano che sonnecchiava in un angolo del caminetto. “Toh, eccolo il padrone di casa” esclamò a voce alta il giovane sorridendo soddisfatto, poi si sdraiò su una comoda poltrona e, vinto dalla stanchezza, si addormentò. Fu svegliato dopo un tempo imprecisato da qualcosa di morbido che gli solleticava i piedi. Era il gatto che si stava trastullando con i suoi calzettoni di lana e si strusciava attorno alle sue gambe facendo le fusa. Tentò di riaddormentarsi, ma il gatto lo infastidiva, così dopo averlo sopportato un po’ e dopo aver cercato di allontanarlo con le buone, finì col perdere la pazienza e gli affibbiò un potente calcio sul muso, mandandolo a sbattere contro una gamba del tavolo e costringendolo a scappare, in preda a lamentosi mugolii di dolore. Finalmente solo, il giovane carrettiere poté riprendere sonno e dormì tutta la notte, risvegliandosi quando ormai era giorno fatto e il sole splendeva alto nel cielo limpido.

Mentre stava rivestendosi dei panni asciugati durante la notte, notò con grande sorpresa che la tavola era stata di nuovo apparecchiata per una sola persona, con pane, latte, miele e una soffice torta. Fatto un estremo tentativo di conoscere quei singolari padroni di casa e un po’ inquieto per via di sopraggiunti pensieri legati agli spiriti e ai banditi, fece in fretta la colazione, quindi uscì di casa, slegò il cavallo, tornò verso il carro, lo liberò a fatica dal fango e finalmente riprese il suo viaggio. Arrivato a casa, sistemò il cavallo, poi cercò subito la zia, non vedendo l’ora di raccontarle la sua incredibile avventura. La trovò a letto in preda a forti dolori, con la testa e un braccio avvolti da una spessa benda. “Che cosa ti è successo, zia?” le chiese tutto preoccupato. E la zia di rimando: “Hai anche il coraggio di chiedermelo, malandrino senza cuore che non sei altro? Io ti avevo preparato una casetta accogliente, tutta a tua disposizione, e tu mi hai ripagato prendendomi a calci!”. Il giovane ripensò allora al gatto della notte precedente e la guardò sbalordito, senza più la forza di dire una parola.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Una piovosa sera d’autunno, di un’epoca imprecisata, un giovane carrettiere stava discendendo la Valle Brembana guidando il suo cavallo che trainava a fatica un carro carico di legna. L’acciottolato della mulattiera, reso viscido dalla pioggia, e le ampie pozzanghere sparse per ogni dove creavano non poche difficoltà all’animale che doveva essere continuamente pungolato dal suo padrone, il quale, a sua volta, stanco e bagnato fradicio, non vedeva l’ora di concludere il viaggio, pentendosi ad ogni passo di averlo intrapreso malgrado il tempo si annunciasse pessimo. Il paese ormai non era lontano e il giovane sperava di arrivare a casa prima che fosse troppo tardi, in tempo per trovare ancora alzata la sua vecchia e cara zia con la quale viveva da quando gli erano morti i genitori. La strada in quel tratto si inoltrava in un fitto bosco e il carrettiere si trovò immerso di colpo in un buio quasi assoluto, dal momento che la lanterna attaccata a una stanga del carro si era spenta da tempo, investita dai violenti scrosci di pioggia, e non c’era stato verso di riaccenderla. Bisognava quindi procedere quasi a tentoni, fidando nell’istinto del cavallo che doveva conoscere a memoria la strada su cui transitava quasi ogni giorno.

Ma, oltre al buio e all’acquazzone, il giovane era preoccupato da qualcosa di più inquietante e misterioso: quel luogo era famoso per essere infestato da spiriti e da banditi, che non mancavano di importunare i viandanti, facendoli oggetto di aggressioni che non di rado si concludevano con la morte delle vittime. Il carrettiere si dava quindi da fare per uscire dal bosco il più presto possibile, ma la strada in quel tratto era ancora più impraticabile e il carro finì per impantanarsi del tutto, cosicché, malgrado gli sforzi, non fu possibile smuoverlo. Ormai sfinito e senza più speranza di poter riprendere il cammino, il giovane desistette dai suoi sforzi, si rialzò e si guardò intorno nel fitto del bosco che tra acqua, vento e tuoni era immerso in un turbinio infernale.

Fu allora che, con grande stupore, si accorse di una luce fioca che filtrava tra gli alberi a poca distanza. Intenzionato a chiedere aiuto, staccò il cavallo dal carro e tenendo l’animale per le redini si avvicinò alla luce, trovandosi ben presto di fronte a una casetta che non aveva mai visto prima, per quanto passasse spesso da quelle parti. La luce proveniva da una finestrella del piano terreno, attraverso la quale il giovane intravide un’accogliente cucina con un caminetto acceso e una tavola apparecchiata per una persona. Non notò però anima viva. Legato il cavallo alla staccionata, si avvicinò al portone e bussò a lungo, prima timidamente e poi con più energia, chiedendo aiuto e gridando per farsi sentire. Ma nessun segno di vita proveniva dalla casa, allora provò a tirare il catenaccio del portone e si accorse che non era chiuso a chiave. Lo aprì ed entrò in casa, accolto dal piacevole tepore del focolare e dal profumo del pane fresco posto in un cesto al centro della tavola, accanto a un piatto di colmo di grossi pezzi di formaggio, a un vassoio di castagne cotte e a un fiasco di vino.

Dopo aver cercato ancora una volta, ma inutilmente, di far notare la sua presenza ai padroni di casa, il giovane si avvicinò alla tavola e, poiché aveva una fame da lupi, si diede a mangiare di buona lena, consumando in un batter d’occhio quel cibo semplice ma saporito, che sembrava essere stato preparato apposta per lui. Poi, ormai sazio e un po’ brillo per il vino tracannato senza risparmio, si tolse i vestiti inzuppati d’acqua e li pose ad asciugare accanto al focolare. Solo allora si accorse di un grosso gatto soriano che sonnecchiava in un angolo del caminetto. “Toh, eccolo il padrone di casa” esclamò a voce alta il giovane sorridendo soddisfatto, poi si sdraiò su una comoda poltrona e, vinto dalla stanchezza, si addormentò. Fu svegliato dopo un tempo imprecisato da qualcosa di morbido che gli solleticava i piedi. Era il gatto che si stava trastullando con i suoi calzettoni di lana e si strusciava attorno alle sue gambe facendo le fusa. Tentò di riaddormentarsi, ma il gatto lo infastidiva, così dopo averlo sopportato un po’ e dopo aver cercato di allontanarlo con le buone, finì col perdere la pazienza e gli affibbiò un potente calcio sul muso, mandandolo a sbattere contro una gamba del tavolo e costringendolo a scappare, in preda a lamentosi mugolii di dolore. Finalmente solo, il giovane carrettiere poté riprendere sonno e dormì tutta la notte, risvegliandosi quando ormai era giorno fatto e il sole splendeva alto nel cielo limpido.

Mentre stava rivestendosi dei panni asciugati durante la notte, notò con grande sorpresa che la tavola era stata di nuovo apparecchiata per una sola persona, con pane, latte, miele e una soffice torta. Fatto un estremo tentativo di conoscere quei singolari padroni di casa e un po’ inquieto per via di sopraggiunti pensieri legati agli spiriti e ai banditi, fece in fretta la colazione, quindi uscì di casa, slegò il cavallo, tornò verso il carro, lo liberò a fatica dal fango e finalmente riprese il suo viaggio. Arrivato a casa, sistemò il cavallo, poi cercò subito la zia, non vedendo l’ora di raccontarle la sua incredibile avventura. La trovò a letto in preda a forti dolori, con la testa e un braccio avvolti da una spessa benda. “Che cosa ti è successo, zia?” le chiese tutto preoccupato. E la zia di rimando: “Hai anche il coraggio di chiedermelo, malandrino senza cuore che non sei altro? Io ti avevo preparato una casetta accogliente, tutta a tua disposizione, e tu mi hai ripagato prendendomi a calci!”. Il giovane ripensò allora al gatto della notte precedente e la guardò sbalordito, senza più la forza di dire una parola.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

In un’imprecisata valle bergamasca viveva un ragazzo di nome Giovannino o, per meglio dire, Gioanì. Era il figlio unico di una povera vedova che aveva perduto il marito, travolto da una catasta di legname mentre era intento al difficile e faticoso lavoro della fluitazione dei tronchi, lungo l’impetuoso corso del fiume. Mamma e figliolo abitavano in una casupola alquanto malandata, situata fuori paese, in prossimità di una verde valletta circondata da un fitto bosco di abeti. Questo era il regno del Gioanì che fin da piccolo aveva imparato ad amare la natura, adeguandosi ai suoi ritmi solenni e immutabili. Fattosi più grandicello, aveva trovato nella natura il sostentamento per sé e per la povera madre, alternando le cure del suo gregge allo stesso lavoro del boscaiolo che era stato del padre: una vita monotona, senza prospettive, se non quella di trovare, in paese o nel circondario, una ragazza semplice e operosa, disposta a condividere la fatica di una vita assai avara di consolazioni. Unico svago, qualche serata trascorsa nella piccola osteria del paese, a giocare a carte o alla morra con altri giovanotti, bere vino senza eccedere, al suono sommesso di una fisarmonica. Fu in una di queste serate che prese l’avvio la vicenda destinata a mutare per sempre la sua vita. Tra gli avventori nacque un’accesa discussione su un argomento assai di moda a quei tempi: l’esistenza di fantasmi, streghe e folletti che popolavano i boschi e le montagne della zona, terrorizzando nelle ore notturne quanti avevano la malaugurata idea di andarsene in giro da soli, magari con la coscienza non proprio tranquilla.

Il Gioanì, che in tutta la sua vita trascorsa a stretto contatto con la natura aveva imparato ad amarla e a considerarla come una sorella, sosteneva con forza di non aver mai incontrato nessuno di quegli strani esseri che avrebbero dovuto spaventarlo a morte ed era il più acceso sostenitore della loro inesistenza. “Töte bale di nos vècc chi ga cüntàa sö di storie de pura ai tusècc per tegnéi quècc! – andava dicendo con convinzione – Cos’éla pò sta pura? Me so egnì che g’o pura de nig e de négott!”. Dai e poi dai, la discussione si accese e il Gioanì si trovò ben presto solo a sostenere la propria tesi. E così ebbe contro tutti gli avventori. “Se davvero non hai paura – lo sfidò a un certo punto uno dei più accesi sostenitori della tesi contraria – perché non ce lo dimostri coi fatti? Scommettiamo che non sei capace di passare un’intera notte da solo in cima alla montagna?”. “Accetto la scommessa – fece il Gioanì – anzi, ci vado questa notte stessa e, per dimostrarvelo, quando arriverò in cima al vallone accenderò un falò e lo terrò acceso fino all’alba, così capirete che sono lassù, mentre voi sarete qui a farvela addosso!”. La posta della scommessa dovette essere alquanto alta, ma noi non la conosciamo. È certo invece che poco dopo il Gioanì, vuotato d’un fiato l’ultimo bicchiere, uscì dall’osteria accompagnato dai lazzi degli avventori e, avvolto nel suo scuro pastrano con in testa un cappellaccio dello stesso colore, si inoltrò nella notte, facendosi strada con la fioca luce di una lanterna a olio. Il cielo sereno di quella notte di fine inverno era un tripudio di stelle, le bianche vette delle montagne erano rischiarate dalla luce diafana della luna piena. L’aria fredda e umida sciolse in fretta tutti i fumi dell’alcol nel Gioanì che cominciò a provare una certa uggia per l’incertezza dell’impresa, avviata senza un minimo di riflessione, e si pentì di aver accettato la scommessa.

Per non far caso alle mostruose figure che gli alberi e gli spuntoni di roccia disegnavano intorno a lui per effetto della luce lunare, prese a salire verso la vetta quasi di corsa. Ben presto il suo respiro si fece veloce e ansimante, il suo corpo si riscaldò e cominciò a sudare leggermente. Ormai badava solo alla salita e provava un senso di soddisfazione nel rendersi conto della facilità con cui percorreva l’erto e stretto sentiero che lo stava portando in fretta verso la meta prescelta. Camminava da quasi due ore, ne ebbe conferma dai deboli rintocchi della mezzanotte provenienti dal campanile del suo paese. Individuata un’altura aperta sulla vallata, che pareva adatta a segnalare la sua presenza, decise di fermarsi, accatastò un piccolo fascio di legna secca che aveva raccolto nell’ultimo tratto di strada, poi se ne procurò dell’altra vagando tra le sterpaglie secche dei dintorni. Ci mise un bel po’ ad attizzare il fuoco, ma alla fine la fiamma si alzò, calda e scoppiettante. Vi dispose tutta la legna raccolta e si sedette su una pietra a gustarsi il tepore che placava in fretta il freddo pungente subentrato al sudore della salita. La fatica della lunga camminata, l’ora tarda e il caldo della fiamma ebbero ben presto il sopravvento sul Gioanì che si appisolò. Doveva essere passata almeno un’ora, quando gli parve di udire un debole suono di flauto. Aprì gli occhi e alla tenue fiamma che ancora avvolgeva la sterpaglia, scorse tre ragazze, avvolte in delicati indumenti colorati. Quella vestita di rosso, che gli parve la più graziosa, suonava il flauto e guidava le compagne in una leggera danza attorno al falò; quando passava davanti a lui, gli sorrideva, dolce e invitante. La scena andò avanti per alcuni minuti, poi, finita la melodia, le tre fanciulle svanirono nel buio, non prima però di aver rivolto un cortese inchino al giovane pastore.

Così almeno parve al Gioanì, perché dopo la visione si addormentò di nuovo e si svegliò quando ormai il sole stava spuntando dietro le montagne innevate. Il ricordo della visione gli si presentò subito nitido in ogni particolare. Non poteva essere stato un sogno. Tornato a casa, riprese le sue abituali occupazioni, ma l’immagine della ragazza non lo lasciava un minuto, il volto allegro, gli occhi vivaci, il sorriso pieno di promesse di quella leggiadra creatura erano stampati nella sua mente e riempivano le sue giornate e i suoi sogni. Così si decise a raccontare l’avventura alla madre, la quale, dopo averci riflettuto a lungo gli propose: “Perché non torni lassù una di queste notti? Forse la tua misteriosa ragazza potrebbe tornare. E se così fosse, attento a non fartela scappare, invitala a ballare, conoscila portala a casa”. Il Gioanì seguì il consiglio materno e quella notte stessa tornò sulla montagna, accese il falò e rimase in attesa. Ed ecco che, passata la mezzanotte, udì il suono del flauto che si avvicinava veloce e poi apparvero le tre ragazze che si misero a danzare attorno al fuoco. Allora si alzò e rivolse il saluto a quella che suonava il flauto. Questa si fermò, smise di suonare e gli sorrise. Poi passò il flauto alla compagna che la seguiva e porse il braccio al giovane e un po’ impacciato cavaliere, il quale dopo aver fatto un grande inchino la guidò in una delicata danza, a cui ne seguirono molte altre, finché i due giovani, dimentichi di tutto, si scoprirono follemente innamorati. E così, al mattino, quando le due damigelle se ne furono andate, la fanciulla rosso vestita non esitò a seguire il Gioanì fino a casa sua.

La storia potrebbe anche finire qui, ma per completezza d’informazione resta da dire che i due innamorati coronarono ben presto il loro sogno con un bel matrimonio a cui seguirono anni d’amore e uno stuolo di bambini. E vissero felici e contenti. Questo dicono i più, ma qualcuno, a cui sembra dispiacere che possano esistere delle persone pienamente felici, ha insinuato un’altra conclusione. Si mormora, infatti, che la felicità del Gioanì e della sua amata sia durata solo qualche anno, poi un brutto giorno, durante una vivace discussione, il marito avrebbe osato colpire con uno schiaffo la bella moglie. Non l’avesse mai fatto! La donna, indignata, se ne scappò di casa, corse su per la montagna e sparì per sempre. Lui, incapace di sopportare la sua mancanza e in preda al rimorso per averla offesa, la cercò a lungo per ogni dove, trascorrendo intere notti sul luogo dove l’aveva incontrata. Tutto inutile. E una notte, durante una della tante affannose ricerche, precipitò in un burrone e morì, invocando il nome dell’amata.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Streghe bollite in pentola

Un sistema ritenuto efficace per combattere le streghe era di far bollire in un grande calderone gli oggetti domestici o gli indumenti che si ritenevano portatori delle fatture. Durante la bollitura, se qualcuno degli oggetti era stato stregato, si cominciavano a sentire lamenti sempre più forti e insistenti, finché la strega responsabile della malefatta, solitamente celata sotto le sembianze di una persona all’apparenza innocua, si doveva svelare per non rischiare la bollitura che la colpiva tramite l’oggetto stregato, e di conseguenza subiva il castigo previsto per questi casi. Una vicenda del genere capitò a un giovane mulattiere di Dossena il quale aveva solo una sorella, sposata con un fannullone, assai cattiva e invidiosa del fratello che era invece stimato da tutti per la sua intraprendenza e abilità nel portare a termine gli incarichi assegnatigli. A forza di lavorare dall’alba al tramonto, il giovane era riuscito a mettere insieme un certo numero di muli e cavalli da tiro, con i quali trasportava ovunque per conto terzi ogni sorta di materiali.

I quadrupedi erano la sua fonte di guadagno e perciò il mulattiere li trattava con ogni cura, badando che mangiassero a dovere, si riposassero dopo le fatiche quotidiane e non prendessero freddo quando erano sudati. Tuttavia, malgrado le attenzioni, non passava anno senza che un animale si ammalasse improvvisamente e morisse per cause inspiegabili. Convinto di essere vittima del malocchio, il giovane si rivolse finalmente a un vecchio saggio del paese il quale gli indicò cosa avrebbe dovuto fare se si fosse ripetuto un caso di malattia improvvisa tra gli animali. Così, quando notò che il mulo più mansueto e più apprezzato per la sua forza si era ammalato e stava morendo, mise in pratica i consigli del vecchio: riempì d’acqua una grande pentola, vi immerse tutti i finimenti del mulo e li mise a bollire sul fuoco del camino. Dopo un po’, quando l’acqua stava per bollire, cominciò a sentire richieste di aiuto e lamenti emessi da una voce femminile che sembrava provenire dalla pentola.

Il giovane, al quale era stato preannunciato questo strano fenomeno, non se ne curò e continuò a tener vivo il fuoco con grossi ceppi di legna. Ma i lamenti divennero sempre più acuti e si trasformarono in urla strazianti, poi la porta fu scossa da un bussare furioso, accompagnato dalle suppliche spasmodiche della voce che implorava il giovane di togliere la pentola dal fuoco. Alla fine la donna svelò la propria identità: era la sorella del mulattiere che gli chiedeva perdono, dicendogli che se non avesse fatto in fretta a levarla dal fuoco sarebbe cotta fino a morire. Al sentire la voce della sorella, il giovane comprese finalmente chi era la strega che gli aveva fatto morire i muli, ma dato che aveva buon cuore spense subito il fuoco e aggiunse acqua fredda a quella bollente. Poi corse ad aprire la porta, ma ormai era troppo tardi: la sorella giaceva a terra, morta bollita. La disperazione del fratello si trasformò poco dopo in rassegnazione, quando, entrato nella stalla, vide il mulo in piedi, completamente guarito e intento a mangiare di buona lena il fieno dalla greppia.

L’espediente della bollitura come rimedio contro le streghe era ritenuto efficace un po’ in tutta la Bergamasca. A Casnigo, quando capitavano episodi attribuiti a stregoneria, si decideva di immergere un crocifisso a testa in giù in una pentola piena d’acqua bollente in cui erano stati immessi degli indumenti della persona ritenuta all’origine delle scellerate fatture. Capitava allora che il colpevole (o, più spesso, la colpevole) si mettesse a urlare di dolore, come se il suo corpo stesse bollendo in pentola e chiedesse a gran voce di essere liberato da quel tormento, svelando così la sua vera natura. La pratica della bollitura del crocifisso era rigorosamente vietata dalle autorità ecclesiastiche, ma quando era in ballo la salvezza delle persone care non si tenevano in gran considerazione i divieti. A Villa d’Almè, ad esempio, le mamme ricorrevano alla bollitura preventiva, assieme al crocifisso, degli indumenti dei bambini quando ci poteva essere il rischio che i loro piccoli frequentassero ambienti infestati da streghe. Credenze ovviamente piuttosto balzane, come quella che aveva individuato nientemeno che il quartier generale delle streghe, per alcuni situato al passo del Tonale, per altri in una stretta e tortuosa vallata delle Orobie, dove nottetempo si davano convegno migliaia di queste inquietanti entità della notte per ritemprarsi prima di intraprendere le altre inique spedizioni.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Un sistema ritenuto efficace per combattere le streghe era di far bollire in un grande calderone gli oggetti domestici o gli indumenti che si ritenevano portatori delle fatture. Durante la bollitura, se qualcuno degli oggetti era stato stregato, si cominciavano a sentire lamenti sempre più forti e insistenti, finché la strega responsabile della malefatta, solitamente celata sotto le sembianze di una persona all’apparenza innocua, si doveva svelare per non rischiare la bollitura che la colpiva tramite l’oggetto stregato, e di conseguenza subiva il castigo previsto per questi casi. Una vicenda del genere capitò a un giovane mulattiere di Dossena il quale aveva solo una sorella, sposata con un fannullone, assai cattiva e invidiosa del fratello che era invece stimato da tutti per la sua intraprendenza e abilità nel portare a termine gli incarichi assegnatigli. A forza di lavorare dall’alba al tramonto, il giovane era riuscito a mettere insieme un certo numero di muli e cavalli da tiro, con i quali trasportava ovunque per conto terzi ogni sorta di materiali.

I quadrupedi erano la sua fonte di guadagno e perciò il mulattiere li trattava con ogni cura, badando che mangiassero a dovere, si riposassero dopo le fatiche quotidiane e non prendessero freddo quando erano sudati. Tuttavia, malgrado le attenzioni, non passava anno senza che un animale si ammalasse improvvisamente e morisse per cause inspiegabili. Convinto di essere vittima del malocchio, il giovane si rivolse finalmente a un vecchio saggio del paese il quale gli indicò cosa avrebbe dovuto fare se si fosse ripetuto un caso di malattia improvvisa tra gli animali. Così, quando notò che il mulo più mansueto e più apprezzato per la sua forza si era ammalato e stava morendo, mise in pratica i consigli del vecchio: riempì d’acqua una grande pentola, vi immerse tutti i finimenti del mulo e li mise a bollire sul fuoco del camino. Dopo un po’, quando l’acqua stava per bollire, cominciò a sentire richieste di aiuto e lamenti emessi da una voce femminile che sembrava provenire dalla pentola.

Il giovane, al quale era stato preannunciato questo strano fenomeno, non se ne curò e continuò a tener vivo il fuoco con grossi ceppi di legna. Ma i lamenti divennero sempre più acuti e si trasformarono in urla strazianti, poi la porta fu scossa da un bussare furioso, accompagnato dalle suppliche spasmodiche della voce che implorava il giovane di togliere la pentola dal fuoco. Alla fine la donna svelò la propria identità: era la sorella del mulattiere che gli chiedeva perdono, dicendogli che se non avesse fatto in fretta a levarla dal fuoco sarebbe cotta fino a morire. Al sentire la voce della sorella, il giovane comprese finalmente chi era la strega che gli aveva fatto morire i muli, ma dato che aveva buon cuore spense subito il fuoco e aggiunse acqua fredda a quella bollente. Poi corse ad aprire la porta, ma ormai era troppo tardi: la sorella giaceva a terra, morta bollita. La disperazione del fratello si trasformò poco dopo in rassegnazione, quando, entrato nella stalla, vide il mulo in piedi, completamente guarito e intento a mangiare di buona lena il fieno dalla greppia.

L’espediente della bollitura come rimedio contro le streghe era ritenuto efficace un po’ in tutta la Bergamasca. A Casnigo, quando capitavano episodi attribuiti a stregoneria, si decideva di immergere un crocifisso a testa in giù in una pentola piena d’acqua bollente in cui erano stati immessi degli indumenti della persona ritenuta all’origine delle scellerate fatture. Capitava allora che il colpevole (o, più spesso, la colpevole) si mettesse a urlare di dolore, come se il suo corpo stesse bollendo in pentola e chiedesse a gran voce di essere liberato da quel tormento, svelando così la sua vera natura. La pratica della bollitura del crocifisso era rigorosamente vietata dalle autorità ecclesiastiche, ma quando era in ballo la salvezza delle persone care non si tenevano in gran considerazione i divieti. A Villa d’Almè, ad esempio, le mamme ricorrevano alla bollitura preventiva, assieme al crocifisso, degli indumenti dei bambini quando ci poteva essere il rischio che i loro piccoli frequentassero ambienti infestati da streghe. Credenze ovviamente piuttosto balzane, come quella che aveva individuato nientemeno che il quartier generale delle streghe, per alcuni situato al passo del Tonale, per altri in una stretta e tortuosa vallata delle Orobie, dove nottetempo si davano convegno migliaia di queste inquietanti entità della notte per ritemprarsi prima di intraprendere le altre inique spedizioni.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Di lui ormai non resta che il ricordo, appena ravvivato dalla sbiadita raffigurazione di qualche affresco scrostato, ma ci fu un tempo in cui questa entità misteriosa e inquietante accompagnava con la sua presenza minacciosa la vita di generazioni di valligiani. Stiamo parlando dell’homo salvadego, noto da noi anche con il semplice appellativo di salvàdec, figura tipica delle comunità alpine, personificazione di un individuo a metà tra l’animale e l’uomo, propria di quasi tutte le culture antiche e sopravvissuta ai giorni nostri in qualche area esotica. La sua immagine è inconfondibile e si propone allo stesso modo, salvo qualche semplice variante, presso tutte le comunità. L’homo salvadego era una creatura robusta, dal corpo interamente coperto di pelo spesso e irsuto, quasi fosse un residuo di uomo-scimmia. Viveva solitario, allo stato selvaggio, nel folto dei boschi disseminati sulle pendici delle montagne, dimorava nelle grotte o nell’incavo dei tronchi d’albero, si nutriva di bacche e frutti del sottobosco e di animali, che cacciava con il suo nodoso randello che portava sempre in spalla e che suscitava lo spavento di chi aveva la ventura di incontrarlo nelle rare e fuggenti occasioni in cui accadeva che si avvicinasse ai luoghi abitati.

Malgrado l’aspetto terrificante, pare che non fosse poi così nocivo come lo si è voluto descrivere: presso qualche comunità lo si identificava, infatti, come una sorta di Polifemo, dedito all’allevamento, all’attività casearia e all’apicoltura. Altri lo ritenevano addirittura un educatore: nelle vallate trentine era chiamato sanguanèl e si riteneva che rapisse i bambini per poi allevarli amorevolmente, insegnando loro le più semplici arti agresti. La sua propensione a rapire i bambini è però legata, dalle nostre parti, alla più diffusa immagine dell’orco che, come si è visto, imperversava un po’ in ogni paese. La tradizione ha ricamato su questo individuo una serie di leggende di cui si sono quasi del tutto perse le tracce, salvo i generici riferimenti all’orco o all’uomo nero. “Chi ha paura dell’uomo nero?” gridavano fino a qualche anno fa i ragazzi dei nostri paesi di montagna all’indirizzo di uno di loro, scelto a turno per ricoprire il ruolo di una creatura rozza e sinistra, fermamente intenzionata a rapire e divorare il primo che le capitava a tiro. Il riferimento più concreto alla figura dell’homo salvadego in territorio brembano si trova nell’affresco posto all’ingresso della casa di Arlecchino, a Oneta di Valtorta. L’irsuto personaggio, munito di un grosso bastone, è posto a guardia dell’edificio e, come recita il cartiglio, minaccia di prendere a randellate eventuali malintenzionati:

Chi non è de chortesia,
non intragi in chasa ma;
se ge venes un poltron,
ce darò col mio baston.

Collegato al mito dell’homo salvadego è quello della cavra sbrègiola, altrove detta anche cavra bèsola, una sorta di misterioso caprone sulla cui esistenza tutti erano pronti a scommettere, ma che nessuno aveva mai visto. Sembra che questo ipotetico animale girovagasse lungo i dirupi montani emettendo belati striduli e insistenti e che avesse il brutto vizio di rapire i bambini cattivi e portarseli nella tana per divorarli. Sia l’homo salvadego che la cavra sbrègiola svolgevano però anche un ruolo positivo: a loro era attribuita l’importante funzione di custodi della natura contro le offese dell’uomo. In tale accezione, mai come oggi ci sarebbe bisogno di creature della loro specie!

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Quelle strane orme bovine

Non è raro ancora oggi imbattersi lungo i sentieri di montagna in resti fossili di grosse conchiglie bivalvi, i concodon, che hanno una forma curiosamente simile a grossi zoccoli bovini. La credenza popolare attribuiva queste strane orme alla presenza del Diavolo che avrebbe lasciato le sue “peste” impresse nella roccia, in segno del suo passaggio. Attorno a questi segni sono nate nel corso dei secoli delle curiose leggende che interessano varie località delle nostre vallate. La più nota è quella ambientata in Val Serina, nella zona tra Miragolo e Perello, dove si stende il vasto bosco della Val Pagana, nome adatto ad evocare inquietanti presenze. Qui viveva una ragazza bellissima che trascorreva gran parte del suo tempo libero dedicandosi al ballo più sfrenato. Non si sapeva bene chi frequentasse e dove in particolare si recasse per dare sfogo al suo divertimento preferito.

I genitori e i fratelli la ostacolavano con tutte le loro forze, il padre addirittura, quando la vedeva tornare a tarda ora, tutta sudata e scarmigliata, con le scarpe consumate a furia di giravolte, la picchiava di santa ragione con la cintura dei pantaloni, lasciandole sulle gambe certe fiacche da far pietà. L’avevano anche chiusa in casa, ma lei non “portava botta” e continuava imperterrita a scappare di casa per dare libero sfogo alla sua grande passione ballerina, anzi, consigliava pure le amiche di seguirla, così avrebbero potuto conoscere nuove persone e magari trovare un buon partito. Nessuno sapeva dove andasse a ballare, perché si inoltrava in certi luoghi impervi e rocciosi situati sotto il santuario del Perello e in fretta faceva perdere le sue tracce. Più volte i fratelli avevano provato a seguirla, ma dopo un po’, improvvisamente, la ragazza spariva e i suoi inseguitori non potevano fare altro che ascoltare le note di una musichetta allegra provenienti da un luogo indeterminato.

Una sera il padre, esasperato per il comportamento della figlia e angosciato per la prospettiva di vederla partire ancora una volta per la consueta notte di follia, decise di adottare provvedimenti drastici: la portò in cantina e la legò stretta alla gamba di un tavolo, sprangando poi in modo impenetrabile la porta e la finestra del locale. Ma quando arrivò la mezzanotte, si udirono rumori spaventosi e risate agghiaccianti provenienti dall’esterno della casa. Tutti rimasero impietriti e non ebbero il coraggio di uscire a vedere quello che stava succedendo. Sbirciando da dietro le imposte, poterono scorgere un misterioso giovanotto, alto e aitante, che si era avvicinato alla finestra della cantina e stava scardinandola. In un batter d’occhio lo sconosciuto riuscì ad abbattere ogni protezione e a penetrare nel locale. Quindi, liberata la ragazza, se ne uscì portandola con sé ed avviandosi per la strada che si inoltrava nel bosco. Fatti pochi passi, mentre la ragazza si stringeva a lui affettuosamente, il giovane si voltò un attimo per controllare se qualcuno li stesse seguendo. Fu allora che i familiari della ragazza, che erano rimasti alla finestra, poterono notare la spaventosa trasformazione che si era verificata nella fisionomia dello sconosciuto: gli occhi si erano dilatati diventando dei grossi cerchi fiammeggianti, sulla testa erano spuntate due piccole corna aguzze e tutto il corpo si era ricoperto di un lungo pelo fulvo, al posto delle scarpe c’erano due poderosi zoccoli bovini e una coda lunga e attorcigliata fendeva l’aria senza sosta. Era il Diavolo!

Il padre e i fratelli della ragazza si precipitarono fuori di casa, nel disperato tentativo di portare soccorso alla loro cara, ma il Diavolo correva velocissimo, tenendo quasi sollevata la sua preda. Anche la ragazza si rese conto con spavento della orribile natura del suo accompagnatore e si mise a urlare, chiedendo aiuto e cercando di liberarsi da quell’abbraccio che era diventato improvvisamente mortale, ma il Diavolo, dopo qualche altro passo di corsa, prese il volo buttandosi nello strapiombo che si apre sotto il santuario del Perello. Sul fondo si spalancò una voragine e il Diavolo vi entrò, portando con sé la sventurata ragazza, che venne avvolta dalle fiamme dell’Inferno. I parenti che arrivarono trafelati sull’orlo dello strapiombo non poterono far altro che osservare, con orrore, una grossa nuvola di fumo nero e denso proveniente dal fondo. E per terra, sull’orlo del precipizio, impresse nella roccia, alcune grandi orme bovine, lasciate dal Diavolo al momento di spiccare il folle volo. Quelle orme sono ancora lì e possono essere osservate da chi si affaccia sullo strapiombo per ammirare la selvaggia bellezza della Val Pagana. E può anche capitare, in certe serate buie e misteriose, di udire i flebili e disperati lamenti della sventurata fanciulla provenienti dal fondo dell’abisso.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Non è raro ancora oggi imbattersi lungo i sentieri di montagna in resti fossili di grosse conchiglie bivalvi, i concodon, che hanno una forma curiosamente simile a grossi zoccoli bovini. La credenza popolare attribuiva queste strane orme alla presenza del Diavolo che avrebbe lasciato le sue “peste” impresse nella roccia, in segno del suo passaggio. Attorno a questi segni sono nate nel corso dei secoli delle curiose leggende che interessano varie località delle nostre vallate. La più nota è quella ambientata in Val Serina, nella zona tra Miragolo e Perello, dove si stende il vasto bosco della Val Pagana, nome adatto ad evocare inquietanti presenze. Qui viveva una ragazza bellissima che trascorreva gran parte del suo tempo libero dedicandosi al ballo più sfrenato. Non si sapeva bene chi frequentasse e dove in particolare si recasse per dare sfogo al suo divertimento preferito.

I genitori e i fratelli la ostacolavano con tutte le loro forze, il padre addirittura, quando la vedeva tornare a tarda ora, tutta sudata e scarmigliata, con le scarpe consumate a furia di giravolte, la picchiava di santa ragione con la cintura dei pantaloni, lasciandole sulle gambe certe fiacche da far pietà. L’avevano anche chiusa in casa, ma lei non “portava botta” e continuava imperterrita a scappare di casa per dare libero sfogo alla sua grande passione ballerina, anzi, consigliava pure le amiche di seguirla, così avrebbero potuto conoscere nuove persone e magari trovare un buon partito. Nessuno sapeva dove andasse a ballare, perché si inoltrava in certi luoghi impervi e rocciosi situati sotto il santuario del Perello e in fretta faceva perdere le sue tracce. Più volte i fratelli avevano provato a seguirla, ma dopo un po’, improvvisamente, la ragazza spariva e i suoi inseguitori non potevano fare altro che ascoltare le note di una musichetta allegra provenienti da un luogo indeterminato.

Una sera il padre, esasperato per il comportamento della figlia e angosciato per la prospettiva di vederla partire ancora una volta per la consueta notte di follia, decise di adottare provvedimenti drastici: la portò in cantina e la legò stretta alla gamba di un tavolo, sprangando poi in modo impenetrabile la porta e la finestra del locale. Ma quando arrivò la mezzanotte, si udirono rumori spaventosi e risate agghiaccianti provenienti dall’esterno della casa. Tutti rimasero impietriti e non ebbero il coraggio di uscire a vedere quello che stava succedendo. Sbirciando da dietro le imposte, poterono scorgere un misterioso giovanotto, alto e aitante, che si era avvicinato alla finestra della cantina e stava scardinandola. In un batter d’occhio lo sconosciuto riuscì ad abbattere ogni protezione e a penetrare nel locale. Quindi, liberata la ragazza, se ne uscì portandola con sé ed avviandosi per la strada che si inoltrava nel bosco. Fatti pochi passi, mentre la ragazza si stringeva a lui affettuosamente, il giovane si voltò un attimo per controllare se qualcuno li stesse seguendo. Fu allora che i familiari della ragazza, che erano rimasti alla finestra, poterono notare la spaventosa trasformazione che si era verificata nella fisionomia dello sconosciuto: gli occhi si erano dilatati diventando dei grossi cerchi fiammeggianti, sulla testa erano spuntate due piccole corna aguzze e tutto il corpo si era ricoperto di un lungo pelo fulvo, al posto delle scarpe c’erano due poderosi zoccoli bovini e una coda lunga e attorcigliata fendeva l’aria senza sosta. Era il Diavolo!

Il padre e i fratelli della ragazza si precipitarono fuori di casa, nel disperato tentativo di portare soccorso alla loro cara, ma il Diavolo correva velocissimo, tenendo quasi sollevata la sua preda. Anche la ragazza si rese conto con spavento della orribile natura del suo accompagnatore e si mise a urlare, chiedendo aiuto e cercando di liberarsi da quell’abbraccio che era diventato improvvisamente mortale, ma il Diavolo, dopo qualche altro passo di corsa, prese il volo buttandosi nello strapiombo che si apre sotto il santuario del Perello. Sul fondo si spalancò una voragine e il Diavolo vi entrò, portando con sé la sventurata ragazza, che venne avvolta dalle fiamme dell’Inferno. I parenti che arrivarono trafelati sull’orlo dello strapiombo non poterono far altro che osservare, con orrore, una grossa nuvola di fumo nero e denso proveniente dal fondo. E per terra, sull’orlo del precipizio, impresse nella roccia, alcune grandi orme bovine, lasciate dal Diavolo al momento di spiccare il folle volo. Quelle orme sono ancora lì e possono essere osservate da chi si affaccia sullo strapiombo per ammirare la selvaggia bellezza della Val Pagana. E può anche capitare, in certe serate buie e misteriose, di udire i flebili e disperati lamenti della sventurata fanciulla provenienti dal fondo dell’abisso.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Parecchi anni fa il monte apparteneva a un tale di Cusio, un Paleni o forse un Rovelli, o un altro di quegli abitanti della piccola comunità posta alla sommità della Valle Averara. Una cosa è certa: quel tale era una persona assai gretta e taccagna ed era conosciuto in tutta la valle, e anche fuori, proprio per la sua non comune avarizia, al punto che la gente aveva preso a chiamarlo “Avaro” o peggio, “Avarù” e lo segnava a dito perché faceva i salti mortali per non pagare le tasse e per giunta non sganciava mai un soldo per contribuire alle necessità della parrocchia, anzi, per paura di dover fare l’elemosina al sagrestano, si era ridotto a non andare nemmeno più in chiesa, cosa che suscitava le critiche severe del parroco e i commenti scandalizzati dei compaesani che cominciarono a non rivolgergli più la parola e ad evitarlo, costringendolo a vivere da solo come un eremita tra le sue ricchezze.

L’avaro era proprietario di un alpeggio dove portava ogni anno la sua mandria, ma il pascolo era piuttosto sterile, essendo ricoperto di grossi macigni sparsi dappertutto, tanto da assomigliare quasi a una vasta pietraia in cui facevano capolino, qua e là, radi ciuffi d’erba. La gente, che conosceva lo stato non proprio florido di quel monte, ne parlava spesso, in termini non certo compassionevoli, quasi a voler sottolineare la rivincita dell’alpeggio sulla taccagneria del suo proprietario. “Chèl che s’ fa ‘l vé rendì” esclamavano furtivamente gli altri mandriani con malcelata soddisfazione quando vedevano tornare dal monte le bestie dell’avaro, stanche e ridotte a pelle e ossa. Col passare degli anni, per analogia con l’indole del suo proprietario, i cusiesi presero a chiamare quell’alpeggio “il monte avaro” avaro come il suo padrone. Un’estate nella quale l’erba era più scarsa del solito e le mucche avevano grosse difficoltà a nutrirsi, il mandriano fu preso dalla disperazione e una sera, seduto fuori dalla sua baita, più avvilito che mai, mormorò fra sé: “Darei la mia anima al Diavolo se in cambio potessi ripulire la montagna da tutto questo pietrame”.

Non aveva nemmeno finito di pronunciare queste parole che sentì un forte boato accompagnato da un terremoto. Vicino a lui si aprì un profondo cratere da cui uscì, avvolto in una densa nuvola nera, il Diavolo in persona, sotto le sembianze di un rosso caprone, tutto peloso, con le corna acuminate e la lunga coda attorcigliata, dalla punta a forma di freccia. “Ai tuoi ordini – gridò con voce cavernosa rivolto all’avaro, impietrito per lo stupore e lo spavento – dammi la tua anima e io ti ripulisco il monte così bene da farlo diventare il pascolo più bello di tutta la vallata. L’avaro, che fino a un attimo prima avrebbe accettato di scendere a patti col Diavolo, adesso, di fronte alla prospettiva di vedere concretizzato il suo sogno, fu preso dal panico. In fin dei conti la sua anima, sul punto di diventare merce di scambio per una banale questione di interesse, doveva pure avere il suo valore se il principe delle tenebre era disposto a sobbarcarsi una fatica così improba per averla. E poi si ricordò che il suo parroco, quelle poche volte che aveva avuto l’occasione di sentirlo, durante la messa o la dottrina, ripeteva sempre che l’anima è infinitamente più preziosa del corpo, vale molto di più di tutte le ricchezze terrene e per giunta è immortale: “Chi perde l’anima andrà all’Inferno, dove dovrà bruciare per tutta l’eternità!”. E adesso lui stava addirittura cedendo volontariamente la propria anima al Diavolo, per accrescere la ricchezza terrena”. Ma l’anima è importante, non voglio perderla, non voglio andare a bruciare all’Inferno” Il suo interlocutore, vedendolo titubante, lo incalzò: “Ma va’ là, non dare ascolto a tutto quello che ti dicono. E’ tutta una scusa inventata dai preti per carpirti i tuoi soldi e impedirti di godere appieno delle gioie della vita”. E stuzzicando la sua avidità, soggiunse: “E’ un affare da non perdere, pensa ai soldi che ne potrai ricavare, prova ad immaginare quanti anni ti ci vorrebbero per fare questo lavoro da solo, considera invece che già da questa estate tu potrai far pascolare le tue bestie su un terreno tutto dissodato e fertile”.

L’uomo si voltò ad osservare il vasto pianoro disseminato di macigni e lo immaginò per un momento tutto coperto d’erba verde e di fiori, con la sua mandria intenta a pascolare al suono dei campanacci. Questa visione fu talmente convincente che alla fine l’avaro cedette e accettò il patto col Diavolo. Però pose una condizione: “Il lavoro dovrà essere svolto questa notte e portato a termine prima che dal campanile di Cusio giungano i rintocchi dell’Ave Maria del mattino, altrimenti tu non avrai alcun diritto sulla mia anima”. Egli era infatti convinto che sarebbe stato impossibile, non dico finire, ma anche solo arrivare a metà di un lavoro così improbo, per cui, alla fine gli sarebbe rimasta la sua anima e avrebbe avuto il monte almeno in parte ripulito. Era meglio che niente. Ma non aveva fatto i conti con l’astuzia del Diavolo che non aveva precisato in quanti sarebbero stati a svolgere questo lavoro. Così, appena furono calate le tenebre, il Monte Avaro si riempì di ombre che si misero al lavoro di buona lena e in assoluto silenzio. Erano decine di diavoli tutti rossi e pelosi, colleghi di quello che aveva fatto la proposta all’avaro, dai loro occhi emanava una luce diafana che illuminava sinistramente la notte. I macigni venivano sradicati uno dopo l’altro dalle braccia muscolose dei diavoli e fatti rotolare giù per la montagna. Il lavoro procedeva speditamente e l’avaro cominciò a temere che sarebbe stato portato a termine entro il tempo concordato. Infatti sul far dell’alba l’impresa era quasi ultimata: mancava solo un enorme macigno, il più grosso di tutti, piantato in mezzo al pianoro. I diavoli gli si fecero intorno e unirono gli sforzi per toglierlo di mezzo. Dai e dai, spingi di qua, tira di là, il macigno cominciò a muoversi, prima impercettibilmente e poi in modo via via sempre più deciso: presto avrebbe fatto la stessa fine di tutti gli altri.

L’avaro si sentì perduto. Ripensò con terrore alle parole del suo parroco e si vide dannato tra le fiamme dell’Inferno. Allora si pentì di avere stretto quel patto scellerato col Diavolo, ma forse era troppo tardi. Mentre il macigno, ormai del tutto divelto, veniva faticosamente trasportato verso i margini del pianoro per essere precipitato giù nella valle, il mandriano fece un ultimo tentativo per salvarsi, si segnò, si raccomandò l’anima al Signore e recitò un’Ave Maria. Poi, colto da un’improvvisa ispirazione, prese a correre alla disperata giù per la montagna, nell’estremo tentativo di arrivare a Cusio e suonare la campane prima che l’opera dei diavoli fosse terminata. Una corsa affannosa per sentieri impervi e fitti boschi, e finalmente il paese, l’abitazione del sagrestano, un’altra breve corsa verso la chiesa, il campanile, le campane. Appena in tempo: ecco levarsi dal campanile di Cusio il primo rintocco dell’Ave Maria. Ancora pochi secondi e il lavoro sarebbe stato compiuto, invece il macigno era ancora lì, ai margini del pianoro. Il Diavolo dovette ammettere la propria sconfitta e se ne tornò infuriato all’Inferno, lasciando le impronte delle sue zampe caprine su quell’ultima pietra. Da quel momento il monte divenne un bel pascolo ricco d’erba e di fiori, con due laghetti di acqua limpida adatti ad abbeverare le mandrie.

Non si sa invece che fine abbia fatto l’avaro, qualcuno afferma che, pentitosi della sua vita gretta e senza senso, diventò un benefattore della sua comunità, ma è probabile che, divenuto ancora più tirchio ed egoista, abbia finito i suoi giorni solo ed abbandonato, senza poter gustare appieno la bellezza della fertile montagna. Forse il suo spirito si aggira ancora oggi, insoddisfatto, cercando inutilmente di disturbare con la sua presenza l’allegria degli escursionisti e degli sciatori che d’estate e d’inverno godono la bellezza di quella montagna.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La baita della capra (Carona)

Non c’è paese che non abbia la sua storia legata ad apparizioni del Diavolo, rappresentato con le fogge più bizzarre e con gli immancabili zoccoli bovini o caprini. Non fa eccezione Carona, dove si racconta la vicenda che diede il nome a quella che è nota oggi come la baita della capra. Due giovani cacciatori avevano trascorso un’intera giornata a caccia di camosci nella zona dell’attuale rifugio Calvi. La giornata era stata propizia perché dopo un lungo inseguimento avevano abbattuto un bell’esemplare di camoscio, ma poiché nel frattempo si era fatto tardi e sarebbe stato impossibile fare ritorno in paese prima del tramonto, decisero di passare la notte in una baita della zona, cosa che avevano fatto già altre volte. Sistematisi nella baita e acceso il fuoco nel camino, decisero di far abbrustolire sulla brace il fegato del camoscio e di mangiarselo per cena. Stando seduti attorno al fuoco, in attesa che il fegato fosse cotto a puntino, ripercorrevano gli avvenimenti della giornata: il paziente appostamento seguito dall’apparizione, sulla cima di un’alta rupe, della sagoma slanciata e imponente di un camoscio maschio, il successivo inseguimento tra dirupi, creste e canaloni, i due precisi colpi di carabina che avevano steso l’animale. Una bella giornata davvero, una di quelle che sarebbe stato più opportuno concludere in un’osteria, davanti a un fiasco di vino e in compagnia degli altri cacciatori di Carona e, magari, di una bella ragazza.

A un certo punto uno dei due giovani esclamò: “Oh, che bello sarebbe se adesso si aprisse la porta ed entrasse quella tipa, allora sì che ci divertiremmo!”. “La serata sarebbe proprio perfetta” convenne l’altro che ben conosceva le qualità della “tipa” a cui alludeva il compare, una ragazza del paese, piuttosto chiacchierata per non essere proprio una santarellina. Strano a dirsi, il sogno dei due giovani si realizzò in un batter d’occhio: qualcuno bussò e, aperta la porta della baita, si presentò nientemeno che la ragazza appena evocata. I due cacciatori rimasero a bocca aperta per la sorpresa, al punto che, tutti occupati ad accogliere nel migliore dei modi l’ospite inattesa, dimenticarono di controllare il fegato che rischiava di abbrustolire oltre il dovuto. Se ne accorse la ragazza che li richiamò: “Ultì chel fìdec, che ‘l brüsa!”. Ma la voce che le era uscita dalla bocca aveva un non so che di sinistro che contrastava con i lineamenti delicati del suo viso.

Il particolare non sfuggì al più attento dei due cacciatori il quale, mentre stava avvicinandosi al fuoco per rigirare il fegato, notò con spavento che da sotto la lunga gonna spuntavano un paio di zoccoli di capra. Ormai non c’erano più dubbi: quella “tipa” era il Diavolo in persona! Un brivido di terrore corse giù per la schiena del giovane, che tuttavia seppe conservare un po’ di sangue freddo. Quanto bastava a far rispondere a tono all’ordine dell’ormai indesiderata ospite: “Se ‘l brüsa, làghel brüsà!”. Poi, preso per un braccio il compagno ancora ignaro di tutto, lo trascinò fuori dalla baita e via di corsa verso casa, incuranti del buio e dei pericoli, dimentichi del camoscio e dei sogni proibiti con l’unico desiderio di sfuggire alle grinfie del Diavolo. La loro avventura divenne presto di dominio pubblico e quando i compaesani incontravano i due giovani, la domanda era sempre la stessa: “Com’éla ‘ndacia chèla ölta con chèla cavra?”. E da allora quella baita fu per tutti la “baita della capra”.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Non c’è paese che non abbia la sua storia legata ad apparizioni del Diavolo, rappresentato con le fogge più bizzarre e con gli immancabili zoccoli bovini o caprini. Non fa eccezione Carona, dove si racconta la vicenda che diede il nome a quella che è nota oggi come la baita della capra. Due giovani cacciatori avevano trascorso un’intera giornata a caccia di camosci nella zona dell’attuale rifugio Calvi. La giornata era stata propizia perché dopo un lungo inseguimento avevano abbattuto un bell’esemplare di camoscio, ma poiché nel frattempo si era fatto tardi e sarebbe stato impossibile fare ritorno in paese prima del tramonto, decisero di passare la notte in una baita della zona, cosa che avevano fatto già altre volte. Sistematisi nella baita e acceso il fuoco nel camino, decisero di far abbrustolire sulla brace il fegato del camoscio e di mangiarselo per cena. Stando seduti attorno al fuoco, in attesa che il fegato fosse cotto a puntino, ripercorrevano gli avvenimenti della giornata: il paziente appostamento seguito dall’apparizione, sulla cima di un’alta rupe, della sagoma slanciata e imponente di un camoscio maschio, il successivo inseguimento tra dirupi, creste e canaloni, i due precisi colpi di carabina che avevano steso l’animale. Una bella giornata davvero, una di quelle che sarebbe stato più opportuno concludere in un’osteria, davanti a un fiasco di vino e in compagnia degli altri cacciatori di Carona e, magari, di una bella ragazza.

A un certo punto uno dei due giovani esclamò: “Oh, che bello sarebbe se adesso si aprisse la porta ed entrasse quella tipa, allora sì che ci divertiremmo!”. “La serata sarebbe proprio perfetta” convenne l’altro che ben conosceva le qualità della “tipa” a cui alludeva il compare, una ragazza del paese, piuttosto chiacchierata per non essere proprio una santarellina. Strano a dirsi, il sogno dei due giovani si realizzò in un batter d’occhio: qualcuno bussò e, aperta la porta della baita, si presentò nientemeno che la ragazza appena evocata. I due cacciatori rimasero a bocca aperta per la sorpresa, al punto che, tutti occupati ad accogliere nel migliore dei modi l’ospite inattesa, dimenticarono di controllare il fegato che rischiava di abbrustolire oltre il dovuto. Se ne accorse la ragazza che li richiamò: “Ultì chel fìdec, che ‘l brüsa!”. Ma la voce che le era uscita dalla bocca aveva un non so che di sinistro che contrastava con i lineamenti delicati del suo viso.

Il particolare non sfuggì al più attento dei due cacciatori il quale, mentre stava avvicinandosi al fuoco per rigirare il fegato, notò con spavento che da sotto la lunga gonna spuntavano un paio di zoccoli di capra. Ormai non c’erano più dubbi: quella “tipa” era il Diavolo in persona! Un brivido di terrore corse giù per la schiena del giovane, che tuttavia seppe conservare un po’ di sangue freddo. Quanto bastava a far rispondere a tono all’ordine dell’ormai indesiderata ospite: “Se ‘l brüsa, làghel brüsà!”. Poi, preso per un braccio il compagno ancora ignaro di tutto, lo trascinò fuori dalla baita e via di corsa verso casa, incuranti del buio e dei pericoli, dimentichi del camoscio e dei sogni proibiti con l’unico desiderio di sfuggire alle grinfie del Diavolo. La loro avventura divenne presto di dominio pubblico e quando i compaesani incontravano i due giovani, la domanda era sempre la stessa: “Com’éla ‘ndacia chèla ölta con chèla cavra?”. E da allora quella baita fu per tutti la “baita della capra”.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Nelle forre profonde della valletta di Poscante, dicono che vivesse una Maga. Queste forre profonde sono quelle che si vedono ancor oggi tra il Passo del Monte di Nese e Perello; ancor si vedono rocce e precipizi, in fondo ai quali c’era una grotta ampia, dove viveva questa Maga. Era una Maga che di notte si aggirava per le contrade e intorno ai casolari sparsi sui pendii. Era cattiva e quando vedeva bambini piccoli se li portava via e più nessuno li vedeva. Un uomo che tornava una sera sul tardi dalla sua stalla alla casa, incontra la Maga che portava sulle spalle un sacco.

Dentro il sacco c’era un bambino che piangeva. L’uomo si nascose ai margini della strada e lascia passare la Maga, si mette a seguirla di nascosto fino alla grotta dove lei viveva. La grotta era piena di bambini piccoli che piangevano e invocavano la mamma. Egli cerca di entrare per vedere meglio, ma si accorge che nella grotta c’è un mago. Era vicino al sacco dove c’era il bambino; il sacco era ancora legato; poi dice alla Maga: < sento odore di piccolo cristiano>, e la Maga risponde: “è bello e grassino e domani lo faremo cuocere come un maialino”. Il mago si frega le mani e continua: “e dopo ci leccheremo i baffi”.

Il mago sciolse il sacco; tira fuori il bambino e lo mette in una gabbia da solo; vicino c’era un altra gabbia con dentro altri bambini che i maghi tenevano per farli ingrassare perché erano troppo magri per essere mangiati. E per non farli scappare il mago aveva messo in dosso una coperta e aveva legato alla frangia tanti piccoli campanelli; così se loro si muovevano, i campanelli si mettevano a suonare, svegliando il mago dal suo sonno. L’uomo che ha visto e sentito tutto, coraggiosamente prende la sua decisione: si toglie la giacca, tira fuori dalla tasca il suo coltello e si mette a tagliare a piccoli pezzetti la sua giacca. Lascia andare a dormire il mago e la Maga, e si mette a otturare tutti i campanelli piano piano per non farli suonare. Poi taglia le corde che tenevano chiuse le gabbie e i bambini scappavano ad uno ad uno di corsa. Guidati da chissà quale istinto corrono a precipizio ciascuno alla propria casa. Arrivano davanti alle loro mamme e ai loro padri che erano disperati, ma quando vedono tornare i bambini di colpo sorridono e diventano tutti contenti.

Il lupo di Stabello

Mancavano pochi giorni a Natale e una coltre di soffice neve aveva imbiancato il paese che aveva assunto l’aspetto di un minuscolo presepe. La gente sentiva nel cuore la gioia per la festa imminente e anche le stelle, riapparse nel cielo dopo la nevicata, sembravano splendere di una luce più intensa e gioiosa. La luna rischiarava la strada lungo la quale camminavano due fratellini, accompagnati dal loro cagnolino, un cocker dal pelo fulvo e setoso, per andare alla stalla a prendere il latte. Il più grandicello, Luigino, teneva per mano Beppino, più piccolo di lui di tre anni, per evitare che scivolasse sulla neve e facesse un capitombolo sulla strada. Il cane, dando sfogo a tutta la sua voglia di libertà, correva felice avanti e indietro, incurante del freddo pungente, annusando tutti i buchi e strisciando il fulvo pelo sulla neve, sordo ai richiami dei due padroncini. “Full, dove sei? Non ti vedo più” gridava Luigino preoccupato per il fatto che erano piuttosto lontani da casa e ad un’ora alquanto insolita. La mamma, infatti, aveva incaricato per tempo di questo piccolo servizio quotidiano i due bambini, i quali, però, attratti dalla nevicata, si erano attardati a giocare e divertirsi per strada, lanciandosi palle di neve e costruendo un grande pupazzo, finché erano stati sorpresi dal buio.

Finalmente, intirizziti dal freddo, perchè i loro cappottini di lana erano fradici, i due fratelli si erano presi per mano e, seguiti dal cane, si erano avviati verso la stalla, arrivando quando il contadino stava ormai portando a termine il suo lavoro. Entrando nella stalla furono accolti dal calore umidiccio delle mucche che, munte e alimentate a dovere, stavano riposando e ruminavano tranquillamente. Luigino e Beppino salutarono il contadino che stava sistemando gli attrezzi utilizzati per la mungitura, si levarono i cappottini bagnati e si buttarono con un gridolino di gioia su un mucchio di fieno, secco e profumato, imitati dal cane, che subito si diede ad arrotolarvisi con evidente piacere. Ultimate le sue faccende, il contadino riempì di latte il pentolino, facendone assaggiare ai due fratelli una tazza coperta da morbida e tiepida schiuma prodotta dalla mungitura. I due lo sorseggiarono con gusto, deridendosi a vicenda per i grandi baffi lasciati dalla schiuma sui loro volti arrossati, poi ne diedero a Full, che lo sorbì con non minore piacere. Finalmente ripresero la via di casa. Ma non avevano fatto che pochi passi, quando il bosco risuonò di un terribile ululato che li fece sobbalzare dallo spavento. Luigino e Beppino si strinsero l’un l’altro tremanti, il cane arruffò il pelo, mise la coda tra le zampe e ringhiò, più per paura che per intento aggressivo, cercando rifugio tra le gambe dei ragazzi. Il contadino, che aveva sentito l’ululato, si affacciò all’uscio della stalla, alquanto preoccupato, mentre una certa inquietudine serpeggiava anche tra le mucche. Notati i bambini, che erano ancora piuttosto vicini, li chiamò e cercò di rassicurarli: “Non preoccupatevi, bambini, si tratta solo di un cane che non riesce ad addormentarsi, ma non c’è nulla da temere, andate a casa, svelti!”. Un pochino rincuorati, Luigino e il fratello, sempre con il cane incollato alle loro gambe, ripresero a camminare nella notte gelida.

Ma il contadino, che non credeva a quanto lui stesso aveva appena detto, pensò bene di seguirli da lontano per un po’. “Quell’ululato non mi piace – mormorava tra sé – vorrei sbagliarmi ma temo che si tratti di un lupo, e se è così, i due piccoli corrono un serio pericolo”. Ormai i piccoli nottambuli erano arrivati a metà strada e dovevano attraversare un ponticello posto sopra la valle. Ed ecco, in mezzo al ponte, una terribile sorpresa: un lupo enorme, grosso come un vitello, con la bocca aperta e la lingua a penzoloni, gli occhi fiammeggianti, la coda tesa e il pelo ritto! Aveva una gran fame e alla vista dei tre pregustò il piacere di un pranzo con i fiocchi. Aveva solo l’imbarazzo della scelta: chi avrebbe divorato per primo? I due fratellini, si fermarono atterriti e incapaci di qualsiasi reazione. Il lupo si avvicinò con le grandi fauci spalancate grondanti di saliva, pronto a sbranare uno dei due.

Ma a questo punto accadde un fatto imprevedibile: il cagnolino, che fino a quel momento era parso spaventatissimo, spinto dal desiderio di salvare i padroncini, si fece avanti e si piazzò proprio in faccia al lupo, abbaiando furiosamente e facendo strane giravolte che sollevavano ampi spruzzi di neve. Il lupo, infastidito per quella insolita manovra, fece un paio di tentativi per allontanare il cagnetto, cercando di colpirlo con le sue poderose zampe, ma siccome quello continuava a fronteggiarlo senza cedimenti, gli si avventò contro e lo divorò in un sol boccone, sotto lo sguardo atterrito dei bambini. Proprio in quel momento sopraggiunse il contadino e, visto che il lupo non si accontentava del cane, ma stava già cercando di assalire uno dei bambini, lo affrontò senza paura, gli infilò un braccio nella gola e ancora più giù, fino a prendergli la coda, poi, tirando la coda all’interno rivoltò l’animale, come si farebbe con un calzino, mettendo a nudo le interiora della belva. Ed ecco, con grande sorpresa, venir fuori dalla pancia rovesciata il cagnolino, ancora vivo e tutto intero. La gioia dei due fratellini fu grande: abbracciarono il loro Full, ringraziarono il contadino e se ne tornarono a casa a raccontare a mamma e papà quella straordinaria avventura, promettendo che da quel giorno non si sarebbero più attardati per strada fino a tarda sera.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Mancavano pochi giorni a Natale e una coltre di soffice neve aveva imbiancato il paese che aveva assunto l’aspetto di un minuscolo presepe. La gente sentiva nel cuore la gioia per la festa imminente e anche le stelle, riapparse nel cielo dopo la nevicata, sembravano splendere di una luce più intensa e gioiosa. La luna rischiarava la strada lungo la quale camminavano due fratellini, accompagnati dal loro cagnolino, un cocker dal pelo fulvo e setoso, per andare alla stalla a prendere il latte. Il più grandicello, Luigino, teneva per mano Beppino, più piccolo di lui di tre anni, per evitare che scivolasse sulla neve e facesse un capitombolo sulla strada. Il cane, dando sfogo a tutta la sua voglia di libertà, correva felice avanti e indietro, incurante del freddo pungente, annusando tutti i buchi e strisciando il fulvo pelo sulla neve, sordo ai richiami dei due padroncini. “Full, dove sei? Non ti vedo più” gridava Luigino preoccupato per il fatto che erano piuttosto lontani da casa e ad un’ora alquanto insolita. La mamma, infatti, aveva incaricato per tempo di questo piccolo servizio quotidiano i due bambini, i quali, però, attratti dalla nevicata, si erano attardati a giocare e divertirsi per strada, lanciandosi palle di neve e costruendo un grande pupazzo, finché erano stati sorpresi dal buio.

Finalmente, intirizziti dal freddo, perchè i loro cappottini di lana erano fradici, i due fratelli si erano presi per mano e, seguiti dal cane, si erano avviati verso la stalla, arrivando quando il contadino stava ormai portando a termine il suo lavoro. Entrando nella stalla furono accolti dal calore umidiccio delle mucche che, munte e alimentate a dovere, stavano riposando e ruminavano tranquillamente. Luigino e Beppino salutarono il contadino che stava sistemando gli attrezzi utilizzati per la mungitura, si levarono i cappottini bagnati e si buttarono con un gridolino di gioia su un mucchio di fieno, secco e profumato, imitati dal cane, che subito si diede ad arrotolarvisi con evidente piacere. Ultimate le sue faccende, il contadino riempì di latte il pentolino, facendone assaggiare ai due fratelli una tazza coperta da morbida e tiepida schiuma prodotta dalla mungitura. I due lo sorseggiarono con gusto, deridendosi a vicenda per i grandi baffi lasciati dalla schiuma sui loro volti arrossati, poi ne diedero a Full, che lo sorbì con non minore piacere. Finalmente ripresero la via di casa. Ma non avevano fatto che pochi passi, quando il bosco risuonò di un terribile ululato che li fece sobbalzare dallo spavento. Luigino e Beppino si strinsero l’un l’altro tremanti, il cane arruffò il pelo, mise la coda tra le zampe e ringhiò, più per paura che per intento aggressivo, cercando rifugio tra le gambe dei ragazzi. Il contadino, che aveva sentito l’ululato, si affacciò all’uscio della stalla, alquanto preoccupato, mentre una certa inquietudine serpeggiava anche tra le mucche. Notati i bambini, che erano ancora piuttosto vicini, li chiamò e cercò di rassicurarli: “Non preoccupatevi, bambini, si tratta solo di un cane che non riesce ad addormentarsi, ma non c’è nulla da temere, andate a casa, svelti!”. Un pochino rincuorati, Luigino e il fratello, sempre con il cane incollato alle loro gambe, ripresero a camminare nella notte gelida.

Ma il contadino, che non credeva a quanto lui stesso aveva appena detto, pensò bene di seguirli da lontano per un po’. “Quell’ululato non mi piace – mormorava tra sé – vorrei sbagliarmi ma temo che si tratti di un lupo, e se è così, i due piccoli corrono un serio pericolo”. Ormai i piccoli nottambuli erano arrivati a metà strada e dovevano attraversare un ponticello posto sopra la valle. Ed ecco, in mezzo al ponte, una terribile sorpresa: un lupo enorme, grosso come un vitello, con la bocca aperta e la lingua a penzoloni, gli occhi fiammeggianti, la coda tesa e il pelo ritto! Aveva una gran fame e alla vista dei tre pregustò il piacere di un pranzo con i fiocchi. Aveva solo l’imbarazzo della scelta: chi avrebbe divorato per primo? I due fratellini, si fermarono atterriti e incapaci di qualsiasi reazione. Il lupo si avvicinò con le grandi fauci spalancate grondanti di saliva, pronto a sbranare uno dei due.

Ma a questo punto accadde un fatto imprevedibile: il cagnolino, che fino a quel momento era parso spaventatissimo, spinto dal desiderio di salvare i padroncini, si fece avanti e si piazzò proprio in faccia al lupo, abbaiando furiosamente e facendo strane giravolte che sollevavano ampi spruzzi di neve. Il lupo, infastidito per quella insolita manovra, fece un paio di tentativi per allontanare il cagnetto, cercando di colpirlo con le sue poderose zampe, ma siccome quello continuava a fronteggiarlo senza cedimenti, gli si avventò contro e lo divorò in un sol boccone, sotto lo sguardo atterrito dei bambini. Proprio in quel momento sopraggiunse il contadino e, visto che il lupo non si accontentava del cane, ma stava già cercando di assalire uno dei bambini, lo affrontò senza paura, gli infilò un braccio nella gola e ancora più giù, fino a prendergli la coda, poi, tirando la coda all’interno rivoltò l’animale, come si farebbe con un calzino, mettendo a nudo le interiora della belva. Ed ecco, con grande sorpresa, venir fuori dalla pancia rovesciata il cagnolino, ancora vivo e tutto intero. La gioia dei due fratellini fu grande: abbracciarono il loro Full, ringraziarono il contadino e se ne tornarono a casa a raccontare a mamma e papà quella straordinaria avventura, promettendo che da quel giorno non si sarebbero più attardati per strada fino a tarda sera.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Parecchi anni fa il monte apparteneva a un tale di Cusio, un Paleni o forse un Rovelli, o un altro di quegli abitanti della piccola comunità posta alla sommità della Valle Averara. Una cosa è certa: quel tale era una persona assai gretta e taccagna ed era conosciuto in tutta la valle, e anche fuori, proprio per la sua non comune avarizia, al punto che la gente aveva preso a chiamarlo “Avaro” o peggio, “Avarù” e lo segnava a dito perché faceva i salti mortali per non pagare le tasse e per giunta non sganciava mai un soldo per contribuire alle necessità della parrocchia, anzi, per paura di dover fare l’elemosina al sagrestano, si era ridotto a non andare nemmeno più in chiesa, cosa che suscitava le critiche severe del parroco e i commenti scandalizzati dei compaesani che cominciarono a non rivolgergli più la parola e ad evitarlo, costringendolo a vivere da solo come un eremita tra le sue ricchezze.

L’avaro era proprietario di un alpeggio dove portava ogni anno la sua mandria, ma il pascolo era piuttosto sterile, essendo ricoperto di grossi macigni sparsi dappertutto, tanto da assomigliare quasi a una vasta pietraia in cui facevano capolino, qua e là, radi ciuffi d’erba. La gente, che conosceva lo stato non proprio florido di quel monte, ne parlava spesso, in termini non certo compassionevoli, quasi a voler sottolineare la rivincita dell’alpeggio sulla taccagneria del suo proprietario. “Chèl che s’ fa ‘l vé rendì” esclamavano furtivamente gli altri mandriani con malcelata soddisfazione quando vedevano tornare dal monte le bestie dell’avaro, stanche e ridotte a pelle e ossa. Col passare degli anni, per analogia con l’indole del suo proprietario, i cusiesi presero a chiamare quell’alpeggio “il monte avaro” avaro come il suo padrone. Un’estate nella quale l’erba era più scarsa del solito e le mucche avevano grosse difficoltà a nutrirsi, il mandriano fu preso dalla disperazione e una sera, seduto fuori dalla sua baita, più avvilito che mai, mormorò fra sé: “Darei la mia anima al Diavolo se in cambio potessi ripulire la montagna da tutto questo pietrame”.

Non aveva nemmeno finito di pronunciare queste parole che sentì un forte boato accompagnato da un terremoto. Vicino a lui si aprì un profondo cratere da cui uscì, avvolto in una densa nuvola nera, il Diavolo in persona, sotto le sembianze di un rosso caprone, tutto peloso, con le corna acuminate e la lunga coda attorcigliata, dalla punta a forma di freccia. “Ai tuoi ordini – gridò con voce cavernosa rivolto all’avaro, impietrito per lo stupore e lo spavento – dammi la tua anima e io ti ripulisco il monte così bene da farlo diventare il pascolo più bello di tutta la vallata. L’avaro, che fino a un attimo prima avrebbe accettato di scendere a patti col Diavolo, adesso, di fronte alla prospettiva di vedere concretizzato il suo sogno, fu preso dal panico. In fin dei conti la sua anima, sul punto di diventare merce di scambio per una banale questione di interesse, doveva pure avere il suo valore se il principe delle tenebre era disposto a sobbarcarsi una fatica così improba per averla. E poi si ricordò che il suo parroco, quelle poche volte che aveva avuto l’occasione di sentirlo, durante la messa o la dottrina, ripeteva sempre che l’anima è infinitamente più preziosa del corpo, vale molto di più di tutte le ricchezze terrene e per giunta è immortale: “Chi perde l’anima andrà all’Inferno, dove dovrà bruciare per tutta l’eternità!”. E adesso lui stava addirittura cedendo volontariamente la propria anima al Diavolo, per accrescere la ricchezza terrena”. Ma l’anima è importante, non voglio perderla, non voglio andare a bruciare all’Inferno” Il suo interlocutore, vedendolo titubante, lo incalzò: “Ma va’ là, non dare ascolto a tutto quello che ti dicono. E’ tutta una scusa inventata dai preti per carpirti i tuoi soldi e impedirti di godere appieno delle gioie della vita”. E stuzzicando la sua avidità, soggiunse: “E’ un affare da non perdere, pensa ai soldi che ne potrai ricavare, prova ad immaginare quanti anni ti ci vorrebbero per fare questo lavoro da solo, considera invece che già da questa estate tu potrai far pascolare le tue bestie su un terreno tutto dissodato e fertile”.

L’uomo si voltò ad osservare il vasto pianoro disseminato di macigni e lo immaginò per un momento tutto coperto d’erba verde e di fiori, con la sua mandria intenta a pascolare al suono dei campanacci. Questa visione fu talmente convincente che alla fine l’avaro cedette e accettò il patto col Diavolo. Però pose una condizione: “Il lavoro dovrà essere svolto questa notte e portato a termine prima che dal campanile di Cusio giungano i rintocchi dell’Ave Maria del mattino, altrimenti tu non avrai alcun diritto sulla mia anima”. Egli era infatti convinto che sarebbe stato impossibile, non dico finire, ma anche solo arrivare a metà di un lavoro così improbo, per cui, alla fine gli sarebbe rimasta la sua anima e avrebbe avuto il monte almeno in parte ripulito. Era meglio che niente. Ma non aveva fatto i conti con l’astuzia del Diavolo che non aveva precisato in quanti sarebbero stati a svolgere questo lavoro. Così, appena furono calate le tenebre, il Monte Avaro si riempì di ombre che si misero al lavoro di buona lena e in assoluto silenzio. Erano decine di diavoli tutti rossi e pelosi, colleghi di quello che aveva fatto la proposta all’avaro, dai loro occhi emanava una luce diafana che illuminava sinistramente la notte. I macigni venivano sradicati uno dopo l’altro dalle braccia muscolose dei diavoli e fatti rotolare giù per la montagna. Il lavoro procedeva speditamente e l’avaro cominciò a temere che sarebbe stato portato a termine entro il tempo concordato. Infatti sul far dell’alba l’impresa era quasi ultimata: mancava solo un enorme macigno, il più grosso di tutti, piantato in mezzo al pianoro. I diavoli gli si fecero intorno e unirono gli sforzi per toglierlo di mezzo. Dai e dai, spingi di qua, tira di là, il macigno cominciò a muoversi, prima impercettibilmente e poi in modo via via sempre più deciso: presto avrebbe fatto la stessa fine di tutti gli altri.

L’avaro si sentì perduto. Ripensò con terrore alle parole del suo parroco e si vide dannato tra le fiamme dell’Inferno. Allora si pentì di avere stretto quel patto scellerato col Diavolo, ma forse era troppo tardi. Mentre il macigno, ormai del tutto divelto, veniva faticosamente trasportato verso i margini del pianoro per essere precipitato giù nella valle, il mandriano fece un ultimo tentativo per salvarsi, si segnò, si raccomandò l’anima al Signore e recitò un’Ave Maria. Poi, colto da un’improvvisa ispirazione, prese a correre alla disperata giù per la montagna, nell’estremo tentativo di arrivare a Cusio e suonare la campane prima che l’opera dei diavoli fosse terminata. Una corsa affannosa per sentieri impervi e fitti boschi, e finalmente il paese, l’abitazione del sagrestano, un’altra breve corsa verso la chiesa, il campanile, le campane. Appena in tempo: ecco levarsi dal campanile di Cusio il primo rintocco dell’Ave Maria. Ancora pochi secondi e il lavoro sarebbe stato compiuto, invece il macigno era ancora lì, ai margini del pianoro. Il Diavolo dovette ammettere la propria sconfitta e se ne tornò infuriato all’Inferno, lasciando le impronte delle sue zampe caprine su quell’ultima pietra. Da quel momento il monte divenne un bel pascolo ricco d’erba e di fiori, con due laghetti di acqua limpida adatti ad abbeverare le mandrie.

Non si sa invece che fine abbia fatto l’avaro, qualcuno afferma che, pentitosi della sua vita gretta e senza senso, diventò un benefattore della sua comunità, ma è probabile che, divenuto ancora più tirchio ed egoista, abbia finito i suoi giorni solo ed abbandonato, senza poter gustare appieno la bellezza della fertile montagna. Forse il suo spirito si aggira ancora oggi, insoddisfatto, cercando inutilmente di disturbare con la sua presenza l’allegria degli escursionisti e degli sciatori che d’estate e d’inverno godono la bellezza di quella montagna.

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

La càvra del Zambèl

Una volta una bambina stava cucinando, mentre i genitori erano nei campi. Non avendo più sale per l’acqua della polenta, decise di andarlo a comprare alla bottega, ma durante la sua assenza nella casa si introdusse una capra bisbetica. Al ritorno, la bambina si accorse che qualcuno era entrato in cucina e dal corridoio chiese chi fosse. Per tutta risposta sentì una voce belante:

«Só la càvra del Zambèl
sènsa òs e sènsa pèl
con un corno gusso, gusso
e chi ègnerà dè dét
ghè ‘l daró ‘n dèl canarùsso.»

La bambina fu presa da un tale spavento che uscì di corsa dalla casa, poi in preda alla disperazione si sedette sui gradini dell’ingresso e si mise a piangere a dirotto. Passò di lì un tale che, messo al corrente dell’accaduto, cercò in tutti i modi di convincere la capra ad uscire dalla casa. Ma non ebbe successo: la capra, testarda, lo affrontò a cornate e ripeté la minacciosa filastrocca:

«Só la càvra del Zambèl
sènsa òs e sènsa pèl
con un corno gusso, gusso
e chi ègnerà dè dét
ghè ‘l daró ‘n dèl canarùsso.»

Anche l’uomo fu preso da grande spavento e si allontanò in fretta da quel luogo. La bambina, che ormai a forza di piangere non aveva più lacrime, fu colta da un improvviso e persistente tremore e, quando passò di lì un altro uomo, si affrettò a mettere anche questo al corrente della sua sventura.

Altro tentativo del nuovo arrivato di convincere la capra a lasciare la casa e nuova reazione risoluta e minacciosa dell’animale che ripeté la filastrocca e convinse il malcapitato a darsela a gambe. Finalmente arrivò un uccellino che cinguettando consolò la bambina e resosi conto della brutta situazione in cui si trovava, cercò di portarle aiuto, entrando in cucina e svolazzando freneticamente e a lungo attorno alla capra. Tuttavia non ottenne apprezzabili risultati, perché la capra, imperterrita, belò anche a lui quella strana filastrocca:

«Só la càvra del Zambèl…»

L’uccellino non si perse d’animo e non appena la capra ebbe concluso la sua minaccia belante, le rispose a tono cinguettando minaccioso:

«E me só l’uselì dèl bèc istòrt
e se ta ègnet miga de fò söbet
te l’ casseró ‘n dèl còrp!»

A quelle parole la capra, terrorizzata, se la diede a… zampe levate e così l’uccellino e la bambina poterono rientrare in casa dove mangiarono allegramente tutto quello che trovarono nella madia.

«E i à fàcc pastì e pastù
e i ma n’a ‘nvidàt gnà ü bucù.
Me sére sóta ‘l tàol a mundà ‘l rìs
e i m’a gnà décc:
Gioanìna, öt de bìf?»

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Una volta una bambina stava cucinando, mentre i genitori erano nei campi. Non avendo più sale per l’acqua della polenta, decise di andarlo a comprare alla bottega, ma durante la sua assenza nella casa si introdusse una capra bisbetica. Al ritorno, la bambina si accorse che qualcuno era entrato in cucina e dal corridoio chiese chi fosse. Per tutta risposta sentì una voce belante:

«Só la càvra del Zambèl
sènsa òs e sènsa pèl
con un corno gusso, gusso
e chi ègnerà dè dét
ghè ‘l daró ‘n dèl canarùsso.»

La bambina fu presa da un tale spavento che uscì di corsa dalla casa, poi in preda alla disperazione si sedette sui gradini dell’ingresso e si mise a piangere a dirotto. Passò di lì un tale che, messo al corrente dell’accaduto, cercò in tutti i modi di convincere la capra ad uscire dalla casa. Ma non ebbe successo: la capra, testarda, lo affrontò a cornate e ripeté la minacciosa filastrocca:

«Só la càvra del Zambèl
sènsa òs e sènsa pèl
con un corno gusso, gusso
e chi ègnerà dè dét
ghè ‘l daró ‘n dèl canarùsso.»

Anche l’uomo fu preso da grande spavento e si allontanò in fretta da quel luogo. La bambina, che ormai a forza di piangere non aveva più lacrime, fu colta da un improvviso e persistente tremore e, quando passò di lì un altro uomo, si affrettò a mettere anche questo al corrente della sua sventura.

Altro tentativo del nuovo arrivato di convincere la capra a lasciare la casa e nuova reazione risoluta e minacciosa dell’animale che ripeté la filastrocca e convinse il malcapitato a darsela a gambe. Finalmente arrivò un uccellino che cinguettando consolò la bambina e resosi conto della brutta situazione in cui si trovava, cercò di portarle aiuto, entrando in cucina e svolazzando freneticamente e a lungo attorno alla capra. Tuttavia non ottenne apprezzabili risultati, perché la capra, imperterrita, belò anche a lui quella strana filastrocca:

«Só la càvra del Zambèl…»

L’uccellino non si perse d’animo e non appena la capra ebbe concluso la sua minaccia belante, le rispose a tono cinguettando minaccioso:

«E me só l’uselì dèl bèc istòrt
e se ta ègnet miga de fò söbet
te l’ casseró ‘n dèl còrp!»

A quelle parole la capra, terrorizzata, se la diede a… zampe levate e così l’uccellino e la bambina poterono rientrare in casa dove mangiarono allegramente tutto quello che trovarono nella madia.

«E i à fàcc pastì e pastù
e i ma n’a ‘nvidàt gnà ü bucù.
Me sére sóta ‘l tàol a mundà ‘l rìs
e i m’a gnà décc:
Gioanìna, öt de bìf?»

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

In cima al monte c’era una casa che stava in mezzo ad un prato. Pur essendo una bella casa, nessuno la voleva abitare perché già abitata: era la casa degli spiriti. Un inverno, una squadra di uomini che raccoglieva tronchi d’albero in quel luogo, giunti a sera dopo una giornata di lavoro, decisero di andare a dormire proprio in quella casa. Quando hanno aperto la porta, videro sotto il portico topi scappare, rospi saltare da ogni parte, ragni sul muro grossi come il pugno di una mano. Lasciati a terra i loro ferri, corde, scuri, zappe, gli uomini che non avevano paura alcuna, salirono le scale e arrivati al piano superiore, videro nella stanza volare pipistrelli e civette e cornacchie che facevano versi.

Ma la stanchezza era tale, che presa una bracciata di fieno per ciascuno e una coperta, si buttarono a terra e cominciarono a dormire. Giunta la mezzanotte, avvertono che la porta si apre e sentono entrare un gruppo di gente che fa rumore; gridano, piangono ed emettono suoni che non sembrano neppur essere di cristiani; e per di più s’accorgono che questa gente adopera i loro ferri per tagliare la scala di legno; e dopo poco le finestre e le porte cadono a pezzi, e tutto crolla finche’ alla fine rimane soltanto il tetto. Dopo questi fatti la paura ha incominciato a prender l’animo degli uomini e quando il più coraggioso della squadra ha tentato di alzarsi, sé sentito in dosso due mani fredde che gli impedivano di muoversi. Ma lui non convinto, ha fatto per scagliare uno scarpone contro quello che non vedeva: ma in quel momento stesso un manrovescio lo colpiva sui denti. Allora sbalordito e pieno di paura, anche quello che era ritenuto il più coraggioso di tutti, si è stretto vicino ai suoi compagni spaventato. Fra baccano e rumori, la notte non passava più.

Quando è venuto il giorno, tutto s’è quietato e gli uomini più morti che vivi, si sono alzati: con grande meraviglia hanno constatato che le scale le porte e le finestre e i loro ferri, erano tutti al loro posto. Gli uomini ripresero i loro arnesi e, usciti dalla casa, si sono messi a correre giù per il prato, finche’ hanno avuto fiato. Quando furono ben lontani, si voltarono per dare ancora un’occhiata a quella casa, ma con grande stupore s’accorsero che era sparita: al suo posto era rimasto un gran mucchio di spini. Ancor oggi quelli che passano da queste parti, vedono in mezzo al prato il cespuglio di spini e con terrore pensano alla casa degli spiriti.

L’homo salvadego e la cavra sbrègiola

Di lui ormai non resta che il ricordo, appena ravvivato dalla sbiadita raffigurazione di qualche affresco scrostato, ma ci fu un tempo in cui questa entità misteriosa e inquietante accompagnava con la sua presenza minacciosa la vita di generazioni di valligiani. Stiamo parlando dell’homo salvadego, noto da noi anche con il semplice appellativo di salvàdec, figura tipica delle comunità alpine, personificazione di un individuo a metà tra l’animale e l’uomo, propria di quasi tutte le culture antiche e sopravvissuta ai giorni nostri in qualche area esotica. La sua immagine è inconfondibile e si propone allo stesso modo, salvo qualche semplice variante, presso tutte le comunità. L’homo salvadego era una creatura robusta, dal corpo interamente coperto di pelo spesso e irsuto, quasi fosse un residuo di uomo-scimmia. Viveva solitario, allo stato selvaggio, nel folto dei boschi disseminati sulle pendici delle montagne, dimorava nelle grotte o nell’incavo dei tronchi d’albero, si nutriva di bacche e frutti del sottobosco e di animali, che cacciava con il suo nodoso randello che portava sempre in spalla e che suscitava lo spavento di chi aveva la ventura di incontrarlo nelle rare e fuggenti occasioni in cui accadeva che si avvicinasse ai luoghi abitati.

Malgrado l’aspetto terrificante, pare che non fosse poi così nocivo come lo si è voluto descrivere: presso qualche comunità lo si identificava, infatti, come una sorta di Polifemo, dedito all’allevamento, all’attività casearia e all’apicoltura. Altri lo ritenevano addirittura un educatore: nelle vallate trentine era chiamato sanguanèl e si riteneva che rapisse i bambini per poi allevarli amorevolmente, insegnando loro le più semplici arti agresti. La sua propensione a rapire i bambini è però legata, dalle nostre parti, alla più diffusa immagine dell’orco che, come si è visto, imperversava un po’ in ogni paese. La tradizione ha ricamato su questo individuo una serie di leggende di cui si sono quasi del tutto perse le tracce, salvo i generici riferimenti all’orco o all’uomo nero. “Chi ha paura dell’uomo nero?” gridavano fino a qualche anno fa i ragazzi dei nostri paesi di montagna all’indirizzo di uno di loro, scelto a turno per ricoprire il ruolo di una creatura rozza e sinistra, fermamente intenzionata a rapire e divorare il primo che le capitava a tiro. Il riferimento più concreto alla figura dell’homo salvadego in territorio brembano si trova nell’affresco posto all’ingresso della casa di Arlecchino, a Oneta di Valtorta. L’irsuto personaggio, munito di un grosso bastone, è posto a guardia dell’edificio e, come recita il cartiglio, minaccia di prendere a randellate eventuali malintenzionati:

Chi non è de chortesia,
non intragi in chasa ma;
se ge venes un poltron,
ce darò col mio baston.

Collegato al mito dell’homo salvadego è quello della cavra sbrègiola, altrove detta anche cavra bèsola, una sorta di misterioso caprone sulla cui esistenza tutti erano pronti a scommettere, ma che nessuno aveva mai visto. Sembra che questo ipotetico animale girovagasse lungo i dirupi montani emettendo belati striduli e insistenti e che avesse il brutto vizio di rapire i bambini cattivi e portarseli nella tana per divorarli. Sia l’homo salvadego che la cavra sbrègiola svolgevano però anche un ruolo positivo: a loro era attribuita l’importante funzione di custodi della natura contro le offese dell’uomo. In tale accezione, mai come oggi ci sarebbe bisogno di creature della loro specie!

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Di lui ormai non resta che il ricordo, appena ravvivato dalla sbiadita raffigurazione di qualche affresco scrostato, ma ci fu un tempo in cui questa entità misteriosa e inquietante accompagnava con la sua presenza minacciosa la vita di generazioni di valligiani. Stiamo parlando dell’homo salvadego, noto da noi anche con il semplice appellativo di salvàdec, figura tipica delle comunità alpine, personificazione di un individuo a metà tra l’animale e l’uomo, propria di quasi tutte le culture antiche e sopravvissuta ai giorni nostri in qualche area esotica. La sua immagine è inconfondibile e si propone allo stesso modo, salvo qualche semplice variante, presso tutte le comunità. L’homo salvadego era una creatura robusta, dal corpo interamente coperto di pelo spesso e irsuto, quasi fosse un residuo di uomo-scimmia. Viveva solitario, allo stato selvaggio, nel folto dei boschi disseminati sulle pendici delle montagne, dimorava nelle grotte o nell’incavo dei tronchi d’albero, si nutriva di bacche e frutti del sottobosco e di animali, che cacciava con il suo nodoso randello che portava sempre in spalla e che suscitava lo spavento di chi aveva la ventura di incontrarlo nelle rare e fuggenti occasioni in cui accadeva che si avvicinasse ai luoghi abitati.

Malgrado l’aspetto terrificante, pare che non fosse poi così nocivo come lo si è voluto descrivere: presso qualche comunità lo si identificava, infatti, come una sorta di Polifemo, dedito all’allevamento, all’attività casearia e all’apicoltura. Altri lo ritenevano addirittura un educatore: nelle vallate trentine era chiamato sanguanèl e si riteneva che rapisse i bambini per poi allevarli amorevolmente, insegnando loro le più semplici arti agresti. La sua propensione a rapire i bambini è però legata, dalle nostre parti, alla più diffusa immagine dell’orco che, come si è visto, imperversava un po’ in ogni paese. La tradizione ha ricamato su questo individuo una serie di leggende di cui si sono quasi del tutto perse le tracce, salvo i generici riferimenti all’orco o all’uomo nero. “Chi ha paura dell’uomo nero?” gridavano fino a qualche anno fa i ragazzi dei nostri paesi di montagna all’indirizzo di uno di loro, scelto a turno per ricoprire il ruolo di una creatura rozza e sinistra, fermamente intenzionata a rapire e divorare il primo che le capitava a tiro. Il riferimento più concreto alla figura dell’homo salvadego in territorio brembano si trova nell’affresco posto all’ingresso della casa di Arlecchino, a Oneta di Valtorta. L’irsuto personaggio, munito di un grosso bastone, è posto a guardia dell’edificio e, come recita il cartiglio, minaccia di prendere a randellate eventuali malintenzionati:

Chi non è de chortesia,
non intragi in chasa ma;
se ge venes un poltron,
ce darò col mio baston.

Collegato al mito dell’homo salvadego è quello della cavra sbrègiola, altrove detta anche cavra bèsola, una sorta di misterioso caprone sulla cui esistenza tutti erano pronti a scommettere, ma che nessuno aveva mai visto. Sembra che questo ipotetico animale girovagasse lungo i dirupi montani emettendo belati striduli e insistenti e che avesse il brutto vizio di rapire i bambini cattivi e portarseli nella tana per divorarli. Sia l’homo salvadego che la cavra sbrègiola svolgevano però anche un ruolo positivo: a loro era attribuita l’importante funzione di custodi della natura contro le offese dell’uomo. In tale accezione, mai come oggi ci sarebbe bisogno di creature della loro specie!

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001

Ai nostri giorni ci pensa la televisione a riempire le serate di racconti più o meno avvincenti e intriganti, non per questo è venuta meno la predisposizione della gente comune a dar vita a suggestioni collettive che fanno capolino qua e là nei modi più impensati. Si tratta, ad esempio, delle famose leggende metropolitane, trasposizione moderna delle incredibili vicende di una volta, che prendono corpo, anche e soprattutto negli ambienti giovanili, e si alimentano sull’onda del passaparola, finendo talvolta per acquistare un’improbabile quanto effimera veridicità. Non estranea a queste tendenze è la Valle Brembana, dove pure si assiste con sorpresa al riproporsi di questi temi cari alle generazioni passate.

E’ il caso, ad esempio, della leggenda dell’autostoppista fantasma che circola da tempo tra i giovani della valle ed ora è di dominio pubblico, anche per merito della professoressa Stefania Fumagalli che ne ha fatto oggetto di un interessante studio antropologico. La serata non era stata delle più elettrizzanti. Il disk jockey dello Snoopy di Serina ce l’aveva messa tutta per tenere alta l’atmosfera, ma la musica, le luci e gli amici non erano riusciti a dargli la solita carica e così Luca, superata da un bel po’ la mezzanotte, si era deciso di lasciare la compagnia e tornarsene a casa a smaltire il sonno arretrato, anche perché il pomeriggio del giorno dopo l’attendeva una impegnativa gara di atletica, in vista della quale si era preparato ben bene per tutta la settimana. Vuotò il bicchiere di birra, salutò gli amici e uscì all’aperto, respirando di gusto l’aria fresca e umida della notte. Raggiunse la sua piccola auto sportiva, mise in moto e uscì dal parcheggio, districandosi non senza difficoltà nella selva di veicoli parcheggiati alla rinfusa. Fu allora che scorse sul margine della strada la figura minuta di una ragazza che col braccio teso chiedeva un passaggio.

Doveva essere uscita da poco dalla discoteca, per quanto il suo abbigliamento, una giacchetta bianca attillata e una gonnellina blu a pieghe, lunga fino al ginocchio e di taglio piuttosto antiquato, apparisse poco intonato con la moda degli abituali frequentatori del locale, decisamente sul casual e con tonalità in prevalenza scure e poco appariscenti. Come era sua abitudine, alla vista dell’autostoppista, Luca bloccò l’automobile, che stridette sulla sabbia del ciglio stradale. “Vuoi un passaggio?” chiese abbassando il finestrino di destra. “Mi porti fino a Zogno?” annuì la ragazza con voce incolore, aprendo la portiera e accomodandosi sul sedile. “Ciao, sono Luca” fece lui, ripartendo di gran carriera. “Cristina” biascicò la ragazza, sistemandosi i capelli con le mani “Eri allo Snoopy? Non ti ho notato in tutta la serata”. “Per la verità sono stata seduta in un angolo tutta la serata. Sempre la stessa musica, monotona e assordante. E poi ho dovuto tenere a bada un rompiscatole che mi ha importunata fin dall’inizio”. “Hai ragione, la musica che passa qui non è il massimo. Sempre la solita storia, è per questo che ci vengo di rado.

A me piace ben altro”. Così dicendo accese lo stereo e subito l’abitacolo fu inondato dalle note limpide e cristalline dell’ultimo disco di Vasco Rossi. “Che ne dici?” chiese il ragazzo alzando un po’ il volume e canticchiando il motivo sopra la voce roca del cantautore. “Mai sentita” rispose la ragazza assorta in chissà quali pensieri. L’automobile procedeva veloce lungo i tornanti e le strettoie della Val Serina. Erano quasi arrivati nell’orrido di Bracca e i fanali illuminavano le alte e nere pareti strapiombanti sulla strada, conferendo alla roccia un aspetto inquietante. “Non mi sembra di averti mai vista. Sei di Zogno? – riprese Luca con la vaga intenzione di imbastire con la ragazza una parvenza di dialogo – non ti ho mai notata nemmeno a scuola. Io sono stato fino all’anno scorso a Camanghé”.

“Anch’io ho frequentato quella scuola per un po’, ma adesso manco dalla valle da parecchio tempo” rispose stancamente la ragazza, dando a vedere che non aveva la minima intenzione di continuare la conversazione. L’automobile uscì dall’orrido e imboccò rombando il rettilineo antistante lo stabilimento della Fonte Bracca. “Lasciami qui – fece all’improvviso la ragazza – sono arrivata”. Luca accostò l’auto al marciapiedi e si fermò, ma non poté fare a meno di manifestare la propria sorpresa: in quella zona, a parte lo stabilimento, non c’erano costruzioni, nessuna casa d’abitazione, lui lo sapeva bene, perché ci aveva lavorato, alla Bracca, per un paio di estati, tra un anno scolastico e l’altro. Nessun altro edificio, salvo il piccolo cimitero di Ambria, quasi soffocato dall’impianto industriale. “Ma dove abiti? Qui non ci sono case. Non è che ti sei sbagliata?”. “Ciao, buona notte” fece la ragazza per tutta risposta, scendendo dall’auto con un sospiro e accostando stancamente la portiera. “Ma vai al Diavolo!” mormorò tra sé Luca, ripartendo come un razzo e dando volume al suo Clarion che lo ripagò con le superbe note del concerto di Imola di Vasco. Dovette ripensare a quello strano incontro la mattina del giorno dopo, quando tirò fuori l’auto dal box per andare in paese.

Notò infatti che da sotto sedile laterale sporgevano i manici di una piccola borsetta nera, certamente dimenticata dalla ragazza della sera prima. Per niente entusiasta della prospettiva di dover consegnare la borsetta alla legittima proprietaria, cercò tra gli oggetti che vi erano contenuti i documenti, li trovò e così poté risalire all’identità e al domicilio della ragazza. Ma quello che vide sulla carta di identità non mancò di sorprenderlo un’altra volta: Cristina era nata il 10 agosto 1965, aveva quindi trentaquattro anni e questo gli sembrava incomprensibile, dato che all’apparenza la ragazza ne dimostrava a malapena venti. Con fastidio ripose i documenti nella borsetta, la gettò in malo modo sul sedile della vettura, mise in moto, uscì dal box e partì con la sua solita irruenza, suscitando l’immancabile commento isterico della madre che dal terrazzo aveva osservato i suoi movimenti, ma non aveva avuto il tempo di chiedere spiegazioni e informarsi sul perché di quella improvvisa partenza, né tanto meno di somministrare al figlio le solite, inascoltate, raccomandazioni alla prudenza. Pochi minuti dopo l’auto si arrestò davanti a una villetta unifamiliare di Ambria, circondata da un bel giardino delimitato da una bassa inferriata. Luca scese dall’auto tenendo in mano la borsetta, si diresse verso il cancello, premette il pulsante del citofono e rimase in attesa. Dopo un attimo si affacciò alla porta una donna di bassa statura, dalla folta capigliatura brizzolata e dall’aria interrogativa. “Buongiorno, signora, abita qui Cristina? Ieri sera mi ha chiesto un passaggio e ha dimenticato la borsetta sulla mia macchina, eccola, gliel’ho riportata”.

“Arda che me gh’o miga òia de schersà! Va’ a ca tò, vilàno, e laga sta la me tusa”. Questa fu la risposta risentita e angosciata della donna che subito rientrò in casa sbattendo la porta. Convinto di essere incappato in una famiglia di matti, ma comunque desideroso di chiudere questa faccenda, Luca premette di nuovo e a lungo il pulsante. Questa volta apparvero sul pianerottolo due uomini, uno magro, sulla sessantina, certamente il marito della donna di prima, e l’altro giovane e robusto, probabilmente il figlio. I due raggiunsero quasi correndo il cancello, l’aprirono e si avvicinarono con fare minaccioso a Luca. “De che banda ègnela chèla bursèta? Famla ‘mpó èt a me!” chiese bruscamente quello che sembrava il padre. Luca, alquanto preoccupato per la piega che stava prendendo quello strano incontro, fece del suo meglio per apparire credibile e raccontò come la sera precedente avesse dato un passaggio a una ragazza di nome Cristina, descrivendone meticolosamente l’aspetto e l’abbigliamento e come costei si fosse poi bruscamente congedata all’altezza del cimitero di Ambria senza dare spiegazioni, infine mostrò la borsetta dimenticata in macchina.

“Io sono venuto solo per restituire la borsetta e ho dovuto aprirla per trovare l’indirizzo di quella che penso sia vostra figlia, chiedete a lei se non è vero. Ecco, prendete – proseguì porgendo la borsetta all’uomo più anziano – verificate che non manchi niente”. “Mi ricordo che aveva una borsetta come questa – singhiozzò la madre che nel frattempo si era avvicinata ai tre ed era rimasta ad ascoltare in silenzio il racconto di Luca – ma non può essere sua, comunque la ragazza non poteva certo essere la mia Cristina”. Poi prese la borsetta dalle mani del marito e cominciò a rovistarne affannosamente il contenuto, quindi, trovata la carta d’identità, la aprì con le mani tremanti per l’emozione. Impallidì e quasi perse l’equilibrio, poi, appoggiandosi al marito, esclamò con un filo di voce: “Madóna me, l’è pròpe le Arda ‘n po a’ te. Com’el pusìbel se la me Cristina l’è morta quìndes àgn fa?”. E così Luca venne a sapere che la misteriosa ragazza era morta quindici anni prima in un incidente stradale, verificatosi proprio all’uscita dell’orrido di Bracca, mentre stava rincasando in autostop dopo una serata trascorsa nella discoteca Snoopy di Serina. E la sua tomba era nel piccolo cimitero davanti al quale aveva chiesto di scendere dall’auto.

 

Tratto da Storie e leggende della Bergamasca di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani – Ferrari, Clusone, 2001